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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1168 al 1176 

FONDAZ. ASSEDIO ALESSANDRIA - ASSEDIO ANCONA -BATT. DI LEGNANO
( dal 1168 al 1176 )

FONDAZIONE DI ALESSANDRIA - MORTE DI PASQUALE III ED ELEZIONE DELL'ANTIPAPA CALLISTO III - CRISTIANO DI MAGONZA IN TOSCANA - SECONDO ASSEDIO D'ANCONA - QUINTA SPEDIZIONE ITALIANA DEL BARBAROSSA: PRIMI SUCCESSI - EROICA RESISTENZA DI ALESSANDRIA - CONVEGNO DI MONTEBELLO - BATTAGLIA DI LEGNANO - TRATTATIVE CON IL PONTEFICE - CONGRESSO DI VENEZIA
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FONDAZIONE DI ALESSANDRIA


II Barbarossa era partito già da un mese, quando i collegati, forse dietro consiglio di OBIZZO MALASPINA, posero le fondamenta di una nuova città. Si trattava di impedire le comunicazioni tra il territorio di Pavia e il Monferrato e difendere la risorta Tortona.
Fu scelta un'arida pianura al confine dei due territori nemici della lega, dove la Bormida sbocca nel Tanaro, di proprietà dei MARCHESI del BOSCO.

La sconosciuta località anche se era già un plurisecolare piccolo paese (Paleo, o Cesaria) diventa città e nasce volutamente subito grande per un'esigenza logistica, su una posizione ideale, tale da essere in grado di controllare da ovest, est e sud, tutti i punti d'ingresso nella piana lombarda.
La lega a Lodi, decise di farne il baluardo della Lombardia; la città nacque in brevissimo tempo, senza edifici di lusso, ma con una fortificazione estrema. In breve abitata da 15.000 "leoni". In segno di fedeltà e di alleanza con il papa ALESSANDRO III, un cittadino propose di chiamarla proprio con il suo nome: ALESSANDRIA.
Quel cittadino - a parte la solidità urbana che si era venuta a creare con gli immensi bastioni - non poteva avere avuto idea migliore; fu un lampo di genio, con un forte impatto psicologico. Quando FEDERICO scese dalla Savoia, per la quinta volta in Italia e iniziò a distruggere nel '174 tutte le città piemontesi, quando giunse davanti a questo paese (trasformato un una turrita città) che non era menzionato da nessuna parte, del tutto sconosciuto, ma che gli attraversava la strada, sconvolse tutti suoi piani. Perché, lo abbiamo detto più volte, la sua ostinazione gli faceva dimenticare non solo l'accorta politica ma anche la strategia militare.

Il 20 aprile del 1168 convennero sul luogo prescelto le milizie di Milano, Cremona e Piacenza, che presero possesso della terra e, tracciati i limiti, con un lavoro degni di Ciclopi, posero le basi della nuova potente città.

Andarono ad abitarla le popolazioni di Gamandio, Bergoglio, Roveredo, Marengo, Olivia, Solera ed altri villaggi vicini; fu circondata di forti mura e di un fosso profondo; ma i tetti delle case, in un primo tempo, erano tutte fatte con la paglia, per la fretta di costruire i bastioni ma anche per la mancanza di materiale, onde i pavesi per scherno la soprannominarono "città della paglia". I consoli della nuova città, che ebbe i privilegi di libero comune e fece ovviamente parte della lega, andarono ad offrire Alessandria al Pontefice che più tardi v'istituì un vescovado; e la popolazione aumentò così rapidamente che dopo un anno dalla fondazione essa poteva contare sotto le armi quindicimila uomini validi.

Pareva che la causa dell'imperatore nell'Italia settentrionale fosse perduta per sempre. Sconfitto il conte di Biandrate, che fu punito con il castello distrutto, e circondata da ogni parte di nemici, alla fine la stessa Pavia entrò nella Lega Lombarda, giurò i patti e prestò obbedienza ai Rettori. Non rimaneva a Federico che il marchese Guglielmo di Monferrato, ma anche questi sconfitto dai collegati a Montebello il 19 giugno del 1172, se volle ottenere pace dovette cedere terre e castelli, dare ostaggi, tra cui un figlio, e giurare obbedienza ai consoli delle città collegate.
Ma i locali non dimenticarono le sue angherie, quando anche lui più tardi volle conquistare Alessandria, mal gliene incolse, gli alessandrini lo catturarono e gli riserbarono una sorte terribile: chiuso in una gabbia, sospesa in piazza davanti agli occhi di tutti, lo alimentarono con dileggio come una cornacchia in gabbia, e lo tennero lì qualche anno, fino alla morte.

A Roma invece il sopravvento era ancora del partito imperiale: PASQUALE III era morto e il 20 settembre del 1168 gli era stato dato per successore l'ungherese Giovanni da Struma col nome di CALLISTO III, il quale si era barricato dentro la città papale.

Tuttavia, sebbene fuori, ALESSANDRO III, iniziò a godere dell'appoggio dei Frangipani, si era guadagnata l'amicizia di Tusculo ed acquistato in Italia tanta autorità che perfino il Barbaroma a quel punto cercò di avvicinarsi a lui, ma solo per poter togliere un importante protettore alla lega.

Le trattative tra l'imperatore e il Pontefice erano state già iniziate a Benevento nella primavera del 1169, ma non approdarono a nulla; furono riprese nel marzo del 1170, a Veroli, dove si recò, inviato da Federico, il vescovo EVERARDO di Bamberga, cui Alessandro III fieramente rispose che il Barbarossa, "se voleva pacificarsi con la Chiesa, doveva umilmente piegare l'orgoglioso capo al Pontefice, mostrarsi benevolo, riverente e grato alla Santa Sede che lo aveva innalzato alla dignità imperiale e non osare di togliere al Papato la libertà che il suo divino istitutore gli aveva concessa".

Successo migliore non ebbero le trattative che il Barbarossa cercò d'intavolare con GUGLIELMO II di Sicilia; ma gli riuscì d'impedire che le città dell'Italia centrale aderissero alla Lega Lombarda che già andava propagandosi nella Romagna.

CRISTIANO DI MAGONZA NELL'ITALIA CENTRALE

EMMANNELE COMNENO, imperatore d'Oriente, continuava a complottare in Italia per ottenere la corona: aveva offerto denari ai Milanesi, aveva messo piede nella munita fortezza di Ancona, aveva sposato una sua nipote con Ottone Frangipane, ed ora faceva pure trame con la repubblica di Genova.
Al dire del Muratori erano quivi giunti ambasciatori bizantini con molte migliaia di monete d'oro, quando, nel 1171, il Barbarossa, allo scopo di turbare gli accordi, -vi mandò con un corpo di milizie l'arcivescovo Cristiano di Magonza, il quale aveva anche l'incarico di pacificare la Toscana che stava allora divisa in due campi: da un lato stavano Pisa e Firenze, la prima delle quali il 26 novembre del 1170 a Motrone aveva sconfitto i Lucchesi, dall'altro stavano Pistoia e Siena, collegate con i Genovesi.

Ma la politica dell'arcivescovo, per quanto accorta, non poteva conseguire grandi successi in quel nodo inestricabile di gelosie, di opposti interessi e di competizioni. Eterno pomo della discordia era la Sardegna; e i Pisani, quando si accorsero che Cristiano di Magonza propendeva a darne il possesso ai Genovesi, per ripicca strinsero alleanza con Emmanuele Comneno.
Avuta notizia di ciò, l'arcivescovo corse a Pisa e vi convocò una dieta dei feudatari imperiali e dei consoli delle città della Toscana, della Romagna, delle Marche e dell'Umbria per tentare di pacificare Pisa, Genova e le altre città che parteggiavano per le due repubbliche. Il tentativo fallì per l'ostinazione dei Pisani, di modo che Cristiano di Magonza, convocata una nuova dieta a Siena, mise Pisa al bando dell'impero e le tolse il diritto di zecca e le altre regalie.
Pisa, per nulla intimidita, armò con l'aiuto di Firenze un esercito e lo mandò contro S. Miniato, presidiato da milizie tedesche. Quest'azione, che militarmente fu un insuccesso, ebbe però gravi conseguenze perché fu messa al bando pure la stessa Firenze.
L'anno seguente, l'arcivescovo di Magonza, poiché a nulla valevano le minacce, tornò a Pisa (estate del 1173) e la sciolse dal bando, poi evocò una dieta a S. Genesio, alla quale convennero i legati pisani e fiorentini, ma essendosi questi rifiutati di accettare certe condizioni imposte da lui, li fece arrestare, poi con le milizie di Lucca, Siena e Pistoia e del conte Guido Guerra andò a porre l'assedio a Firenze, che più tardi dovette togliere essendosene i Lucchesi partiti per difendere il loro territorio invaso dai Pisani.

ASSEDIO DI ANCONA

Avendo visto che non gli riusciva di pacificare la Toscana, Cristiano di Magonza volle tentare un colpo di mano su Tusculo per impadronirsi del Papa che vi si trovava, ma essendogli fallito il colpo, con un forte esercito di Tedeschi, Toscani e Romagnoli marciò contro Ancona per punirla di essersi data a Costantinopoli e riuscì a trascinare in questa guerra i Veneziani, i quali, sebbene (*) facessero parte della Lega Lombarda, portarono aiuto al vicario imperiale, spinti dalle rivalità commerciali che li rendevano gelosi di ogni altra città adriatica.
Dobbiamo ricordare che i Veneziani erano quest'anno ai ferri corti con i Bizantini: questi il 12 marzo del 1171 in un sol giorno, in tutto l'impero, li avevano arrestati e i loro beni, le navi, i fondachi confiscati. Per dieci anni, fino alla morte di Manuele Comneno (gli succederà Alessio II) tutti i rapporti rimasero interrotti. Fu una crisi tremenda per la Serenissima.

Ancona fu dunque assediata: dal mare la bloccavano quaranta galere veneziane, tra cui una con una mole straordinaria; dalla parte di terra stava l'esercito di Cristiano di Magonza, il quale era giunto sotto le mura della città dopo averne barbaramente devastata la campagna. L'assedio di Ancona costituisce una delle pagine più gloriose della storia delle città italiane del medioevo. Stretti da ogni parte, gli Anconitani seppero difendersi con grandissimo valore per parecchi mesi ributtando i quotidiani assalti dell'esercito dell'arcivescovo; tormentati dalla fame, non vollero cedere e, tutte le volte che le campane chiamavano a raccolta i cittadini per un improvviso attacco, una turba di uomini denutriti e scarni accorreva alle mura per difendere con le ultime forze la città in pericolo. Si videro vecchi rincuorare i giovani alla resistenza con la parola e con l'esempio, si videro donne sfinite ristorare con lo scarso latte delle loro mammelle i propri figli e gli stessi mariti guerrieri, ci furono anche altre donne che in un nobilissimo slancio si dissero pronte a sacrificarsi per dare la propria carne per sfamare i combattenti.

Fra i molti, due grandi esempi di valore registra la storia dell'assedio che meritano di essere ricordati. Sembrò un giorno che le truppe di Cristiano di Magonza dovevano impadronirsi della città. Già dalle navi veneziane numerosi soldati erano riusciti ad effettuare uno sbarco e avanzavano minacciosi dal porto; già l'esercito imperiale aveva quasi sopraffatto gli scarsi difensori delle mura. Ed ecco suonare a stormo le campane per far brandire ai cittadini le armi; una parte corre al porto e ributta in mare il nemico, lo insegue con alcuni navigli e cattura parecchie galere; e un'altra parte irrompe coraggiosamente fuori delle porte e lottando con disperato accanimento ricaccia gli assedianti oltre le macchine da guerra, gettando poi su queste, legna intrisa di pece e resina.

Ma dalle torri di legno gli arcieri scagliano nugoli di frecce; gli Anconitani arretrano e non osano riavvicinarsi per appiccare il fuoco. Fra gli indecisi una donna avanza: è una vedova di nome STAMURA, che impavida si accosta alle macchine e fra la pioggia dei dardi accatasta la legna intorno alle torri e con una fiaccola in mano appiccare il fuoco. Riprese così la battaglia: gli Anconitani, rianimati dall'esempio della donna, tornarono ad assalire il nemico e lo ricacciarono ancora più lontano, catturando numerosi cavalli che servirono poi agli abitanti come provvidenziale nutrimento.

Poi l'atto di gran coraggio, compiuto da un prete, che anche questo va ricordato fra gli atti di valore. Volendo recar danno alla flotta nemica, un prete di nome GIOVANNI, in una giornata in cui un vento impetuoso gonfiava le onde, gettatosi in mare, raggiunse a nuoto il galeone veneziano e con una scure cominciò a tempestar di colpi la grossa corda che teneva l'ancora. Scoperto dai nemici fu fatto segno ad un nutrito e ininterrotto tiro di frecce; ma l'audace prete non abbandonò l'impresa e riuscì a tagliare il cavo e tornare incolume alla riva. Il galeone, sbattuto dalla tempesta, fu abbandonato dall'equipaggio. L'esempio del prete, imitato da altri coraggiosi, valse, più tardi, la cattura di sette galere veneziane.
Non potendo sostenersi oltre con le sole loro forze, gli Anconitani chiesero aiuti a GUGLIELMO MARCHESELLI, nobile ferrarese, e alla contessa ALDRUDA di BERTINORO, i quali, raccolte truppe in Lombardia e in Romagna, si affrettarono a soccorrere Ancona. Una battaglia sanguinosa fu combattuta di notte nelle vicinanze della città. Lombardi e Romagnoli assalirono con impeto sovrumano il campo dell'arcivescovo ed aiutati dagli Anconitani usciti fuori a dar man forte nella battaglia, sbaragliarono l'esercito di Cristiano di Magonza che fu costretto a darsi alla fuga.

Da sei anni l'imperatore mancava dall'Italia e in questo tempo egli aveva potuto migliorare la propria posizione. BARBAROSSA, infatti, aveva riaffermato nella Sassonia l'autorità di ENRICO il "Leone", aveva fatto pacificare i re di Francia e d'Inghilterra promettendo di intraprendere con loro una nuova crociata, ed era riuscito a fare eleggere e coronare re dei Romani il proprio figlio ENRICO.
Nella sua assenza, il pensiero del Barbarossa era stato costantemente rivolto all'Italia. La mente e l'anima dell'orgoglioso monarca erano logorate dal desiderio di punire le città ribelli e di vendicarsi delle onte patite e con tali propositi nel 1174 si accinse a discendere per la quinta volta nella penisola, dopo quell'ignominiosa fuga nel '67 da Susa.

QUINTA SPEDIZIONE ITALIANA DEL BARBAROSSA

BARBAROSSA diede l'annuncio della spedizione in una dieta convocata a Ratisbona nel maggio del 1174 e per allettare i principi a seguirlo non accennò a Roma e al Papato, ma parlò sole di città lombarde. Ciononostante l'annuncio fu accolto con molta freddezza dai grandi, e pochi risposero all'appello. Fra i principi che rimasero in Germania va ricordato il più potente: ENRICO il "Leone"; che però non scopre ancora le sue carte.

Nel settembre del 1174 con un esercito di poco più che ottomila uomini, in compagnia del fratello CORRADO, del re LADISLAO di Boemia, di OTTONE di WITTELSBACH, degli arcivescovi di Colonia e Treviri e di altri grandi, il Barbarossa scese in Italia per la via della Borgogna (da dove era fuggito la volta precedente).
Il principio della campagna registrò per lui dei successi: Susa fu presa e perché fosse vendicata la fuga alla quale l'imperatore era stato costretto sei anni prima, fu selvaggiamente distrutta, rasa al suolo; Torino fu occupata; Asti dopo soli otto giorni d'assedio si arrese e ovviamente si staccò dalla Lega; lo stesso fecero Como, Pavia, il marchese di Monferrato ed altri baroni.
Lieto di questi immediati successi, Barbarossa proseguì la marcia fin quando giunse davanti a quel paese (ora trasformato un una turrita città) che non era menzionato da nessuna parte, fino allora era del tutto sconosciuta, ma che però gli sbarrava la strada. Si trovava dunque davanti ad Alessandria, intorno alla quale lui pose l'assedio, sicuro di prenderla in breve tempo.

Invece s'ingannò: fortemente guidati dal podestà RODOLFO CONCESA, gli abitanti respinsero con audacia mai vista prima d'ora gli assalti imperiali, e diedero tempo alle città della Lega di riunire le loro milizie e mandarle in soccorso della città assediata.
Quando BARBAROSSA arrivò davanti alle sue mura, Alessandria gli tolse il sonno. Il nome prima di tutto gli ricordava il suo avversario, poi con i tanti e vani tentativi di prenderla e distruggerla, lui cominciò a vederla (in effetti lo era) come il simbolo e il baluardo della ribellione. Questa città, con i primi assalti andati a vuoto con pesanti perdite, diventò la sua ossessione e la sua rovina. Ci riprovò diverse volte, ma ogni volta una carneficina; fallimenti uno dietro l'altro che invece di scoraggiarlo provocarono un'irrazionale ostinazione, che si dimostrò alla fine fatale.
Se questa città non spariva dalla faccia della terra, la sua inespugnabilità poteva diventare la "favola" di papa Alessandro; questa località sconosciuta a tutti, sarebbe diventato il sollazzo dei suoi nemici; le sue mura se restavano in piedi, sarebbero diventate oggetto di scherno; uscirne sconfitti una vera onta per l'esercito imperiale; e per lui, che aveva distrutto e incenerito la grande Milano, rappresentava un vero e proprio affronto.

Aveva purtroppo scelto l'inverno 1174 per assediarla, e ancora una volta aveva avverso il destino. L'inverno fu uno dei più rigidi e causò più sofferenze agli assedianti che non agli assediati. Una ecatombe ogni volta che si tentava di prenderla d'assalto per porre fine all'assedio e poter continuare la campagna militare sul resto d'Italia.
Dopo mesi, con la "favola" già raccontata in giro in tutta la Lombardia, per schernire i nemici e sollazzare gli amici, FEDERICO si ostinò a far giungere rinforzi; uomini e mezzi da ogni parte; poi nell'aprile del 1175 Barbarossa non riuscendo ad espugnarla con la forza, ricorse all'astuzia; fece scavare delle lunghe gallerie sotterranee attraverso le quale i suoi uomini dovevano introdursi dentro la fortezza.

A lavori ultimati, l'impresa fu tentata il Venerdì Santo e, sebbene i cittadini non sospettando di nulla se ne stavano tranquilli per una tregua reciproca in nome della Settimana Santa, furono scoperti; ci fu un'altra ecatombe di tedeschi; e n'approfittarono gli alessandrini che con gran coraggio, uscirono i veri "leoni" da quelle stesse gallerie, attaccarono il campo dell'imperatore distruggendo e appiccando il fuoco agli accampamenti e alle macchine da guerra, poi rientrarono dalle stesse galleria lasciandosele poi dietro distrutte. Per Barbarossa fu un disastro, un inferno! Per gli Alessandrini invece fu una vera "Pasqua".

Preoccupato dall'avvicinarsi dell'esercito della lega e disperando di impadronirsi di Alessandria (erano intanto passati sei mesi) il Barbarossa giunto a quel punto critico, rinunciò all'impresa e abbandonò il campo e, dopo una marcia di un giorno e mezzo, giunse nei pressi di Voghera, a tre miglia di distanza dai collegati che si trovavano accampati nelle vicinanze di Casteggio.

Pareva che i due eserciti stessero per venire a battaglia quando s'iniziarono improvvisamente trattative di pace, delle quali non si sa bene chi prese l'iniziativa. Ma lo possiamo intuire. Era in quel momento Barbarossa in difficoltà non la Lega, e lui sperava di prendere tempo per ricostituire la sua armata con dei rinforzi provenienti dalla Germania; ed infatti, questi richiesti in Germania arrivarono nella successiva primavera nel '176, ma era un esercito di sbandati, inoltre mancava ENRICO il "leone", su cui Federico faceva molto affidamento; invece l'amico non accolse il suo appello; e -date le condizioni in cui si trovava l'imperatore- fu quasi un tradimento.

I preliminari di pace furono fissati il 18 aprile 1175 a Montebello e quel giorno stesso si stabilì che la contesa tra i comuni e l'imperatore sarebbe stata risolta da sei arbitri, tre scelti da Federico e tre dai collegati. Se questi non fossero riusciti a raggiungere il completo accordo, i punti controversi sarebbero stati rimessi al giudizio dei consoli, cremonesi che avrebbero avuto quindici giorni di tempo per risolverli.
Dopo di ciò il Barbarossa, credendo sicura la pace, licenziò la maggior parte dell'esercito e si ritirò a Pavia; la Lega, dal canto suo, rimandò le milizie alle proprio città. Arbitri della parte imperiale furono l'arcivescovo FILIPPO di Colonia, GUGLIELMO da Pozzasca e un pavese; la Lega scelse ALBERTO da GAMBARA, bresciano, GEZONE, veronese, e il milanese GHERARDO da PASTA.
La Lega pose come condizioni di pace che la città di Alessandria fosse conservata; che l'imperatore si pacificasse con la Chiesa e riconoscesse come pontefice legittimo ALESSANDRO III; che Federico concedesse l'amnistia e restituisse tutte le proprietà e i diritti sottratti ai comuni; ai vescovi e ai signori aderenti alla Lega, confermasse le sentenze consolari e riconoscesse alle città il diritto di eleggere i propri magistrati; di innalzare fortificazioni e costituirsi in leghe.
L'imperatore doveva accontentarsi dei tributi che erano stati fissati dopo la morte di Enrico IV. Inoltre doveva essere mantenuto il diritto consuetudinario delle città e, in caso di dubbio, doveva bastare a provarne la legittimità il giuramento dei consoli, dai quali sarebbe stata amministrata la giustizia.

"Ma poteva - nota il Gregorovius - l'imperatore, dopo tante vittime e tante repressioni, accettare questi patti, cedere a questi capitolati? Poteva rinunciare tutto ad un tratto a quel copioso diritto che gli era stato aggiudicato dalla dieta di Roncaglia?".

Fra le questioni da risolvere ve n'erano due particolarmente difficili: quella che riguardava la città d'Alessandria e quello che si riferiva al riconoscimento di Alessandro III. Riguardo alla prima l'imperatore voleva che la nuova città fosse distrutta, mentre i collegati intendevano che fosse conservata; riguardo alla seconda Federico non voleva che lo scisma fosse composto pur dando libertà ai collegati di riconoscere Alessandro.
Mantenendosi le due parti ferme nei loro rispettivi punti di vista, nonostante il responso dei consoli cremonesi favorevoli al Barbarossa, l'accordo non fu possibile. Tentò allora Federico di staccare il Pontefice dalla Lega, ma i legati del primo, giunti a Pavia per trattare, misero come condizioni irrevocabili la condanna dello scisma e l'umiliazione del Barbarossa dinanzi alla Santa Sede; e il tentativo, ovviamente davanti all'orgoglio dell'ostinato tedesco, non ebbe successo.

Non rimaneva quindi che riprendere le armi ed affidar a quelle la soluzione della gran contesa. BARBAROSSA non poteva fare altro che tentare ugualmente la sua "ultima e disperata carta". Attaccare in quelle condizioni, anche se la situazione per lui in Italia era un po' migliorata: Cristiano di Magonza era riuscito ad espugnare il castello di S. Càssiano; Pisa e Lucca erano tornate alla parte imperiale; ma le forze di cui l'imperatore poteva disporre non erano per nulla aumentate e di certo non poteva prendere lui l'offensiva se prima non gli giungevano dalla Germania le truppe richieste.

Queste -come già accennato sopra- gli giunsero nella primavera del 1176, ma in numero veramente irrisorio e anche scompaginate. Il Barbarossa fondava tutte le sue speranze sui soccorsi di ENRICO il "Leone", ma questi, che avrebbe potuto fornirgli numerose ed efficienti milizie, o che non approvava la guerra d'Italia o perché tormentato dalla scomunica papale, o che volesse vendicarsi dell'imperatore che alla morte di Guelfo di Toscana aveva incamerati i feudi ai quali Enrico credeva di aver diritto, si rifiutò di partecipare all'impresa contro i comuni né si lasciò commuovere dalle disperate preghiere di Federico, il quale in un incontro a Chiavenna invano gli s'inginocchiò davanti scongiurandolo di non lasciarlo solo.

Essendo le Chiuse dell'Adige difese dai Veronesi, i pochi rinforzi, venuti per la via dei Grigioni, erano scesi dalla parte di Como e si erano congiunti ad un migliaio di combattenti forniti da questa città. Circa quattromila uomini in tutto, alla testa dei quali il Barbarossa iniziò a muoversi alla volta di Seprio per congiungersi ai Pavesi, e alle milizie del marchese di Monferrato.
Milano aveva intanto mobilitato le sue milizie e con l'aiuto di Lodi, Novara, Vercelli, Piacenza, Brescia, Verona e Treviso, che avevano mandato dei contingenti di cavalleria, aveva allestito un esercito di dodicimila uomini, inviandolo verso la pianura tra l'Olona e il Ticino.
Seguiva l'esercito il Carroccio milanese, scortato da trecento Giovani appartenenti alle più cospicue famiglie di Milano che avevano giurato piuttosto
di morire che vedere il sacro palladio della patria caduto nelle mani del nemico. Stesso giuramento avevano fatto novecento guerrieri che formavano la "Compagnia della morte".

Era il 29 maggio del 1176. L'esercito lombardo, avendo saputo che gli imperiali: si trovavano a breve distanza, inviò settecento cavalieri a spiare le mosse del nemico. Dopo tre miglia di cammino si trovarono di fronte a trecento cavalieri tedeschi che costituivano l'avanguardia imperiale e la lotta ingaggiata fra i due avamposti fu furiosa Ma ben presto i cavalieri lombardi ebbero addosso tutto l'esercito di Federico e, non potendone sostener l'urto, si ritirarono frettolosamente verso il grosso, incalzati dagli imperiali.

BATTAGLIA DI LEGNANO

La vera battaglia avvenne a Legnano, nella pianura dov'era accampato l'esercito della Lega, il quale, vedendo retrocedere l'avanguardia inseguiti dagli imperiali, si schierò diviso in cinque corpi per sostenere l'impatto delle truppe del Barbarossa. E questo fu così furioso che l'ala destra lombarda, dopo una breve ma accanita resistenza, fu sbaragliata e il Caroccio si trovò improvvisamente circondato da tutte le milizie imperiali. Si stava quasi ripetendo la scena dell'8 agosto del 1160.
Ma se la scena era quasi uguale, uguale e peggiore fu questa volta il finale.

Per un momento parve che la battaglia fosse perduta per la Lega. I trecento, in verità, opponevano alle offese nemiche una barriera d'acciaio e sui loro cadaveri dovevano passare i Tedeschi prima di giungere al Carroccio; ma per quanto eroica la loro resistenza non poteva durare a lungo contro un numero di combattenti dieci volte maggiore, che era già inebriato da quel primo successo e piuttosto irritato dalla tenacia di quel manipolo di valorosi.

Ecco però ad un tratto un poderoso urlo inalzarsi al cielo superando il fragore della battaglia: S. Ambrogio! S. Ambrogio! È la "Compagnia della morte" che, lanciando il grido di guerra, si precipita come valanga addosso agli imperiali in difesa del Carroccio, rincuorando i dubbiosi, richiamando all'attacco i fuggiaschi e facendo raddoppiare gli sforzi alla difesa disperata dei trecento.
Ora le sorti della battaglia cambiarono direzione; i tedeschi, assaliti da ogni parte opposero una formidabile resistenza; ma premuti, decimati dall'impeto dei Lombardi, le loro file si scompaginarono.
Il Barbarossa, che era anche lui in mezzo alla mischia, vide prima strappato al suo alfiere lo stendardo imperiale, poi un colpo di lancia al ventre gli uccise il cavallo e l'imperatore stramazzò a terra tra un groviglio di morti e feriti.

Poi sparì dalla vista. La sconfitta fu totale. Lui in fuga; mentre in mano ai veri "leoni", il suo scudo, la sua lancia, il suo cavallo, il suo vessillo, il suo forziere, i suoi uomini, il suo generale e persino qualche suo parente.

A quella vista gl'imperiali cedono, si scompaginano, si danno a precipitosa fuga, inseguiti per otto miglia dai Lombardi; molti periscono miseramente nelle acque del Ticino; i resti dell'esercito, sfiniti, senz'armi, avviliti, riescono a mettersi in salvo a Pavia, dove, si sparge la voce che l'imperatore è morto, e l'imperatrice pure lei convinta si copre di gramaglie.

La battaglia di Legnano veniva a cancellare l'onta dell'umiliazione e della distruzione di Milano. Fra i moltissimi prigionieri vi erano il duca BERTOLDO di Zaringa, il fratello dell'arcivescovo di Colonia e un nipote di Federico; dei Comaschi caduti nelle mani dei collegati nessuno fu risparmiato avendo tradita la fede giurata. Immenso fu il bottino fra cui la cassa militare e i trofei d'inestimabile valore, la lancia, la croce, lo scudo e il vessillo del Barbarossa. Il "CARROCCIO" simbolo della lega, diventò perfino troppo piccolo per caricarci tutto.
Ma a parte i tesori, BARBAROSSA lasciò su quel campo la sua dignità e la maestà dell'impero

IL CONGRESSO DI VENEZIA

Federico Barbarossa, dopo la fuga, essendo riuscito a nascondersi, dopo alcuni giorni dalla battaglia di Legnano giunse una notte a Pavia. Sebbene sconfitto, pensava di potere riprendere la lotta contro i comuni. L'atteggiamento dei prelati di Germania e dei principi tedeschi, contrari alla ripresa delle ostilità e ostili alla sbagliata politica ecclesiastica dell'imperatore, lo convinsero a rinunciare ai propositi bellicosi da cui era animato e lo consigliarono a seguire una via diversa.
La migliore per lui era quella di staccare il Pontefice dalla Lega Lombarda. Tale distacco avrebbe fatto cessare l'opposizione ecclesiastica della Germania, avrebbe diminuito la forza dei collegati, togliendo loro l'autorità importantissima del Capo della Chiesa, ed avrebbe portato la discordia in seno alla Lega stessa.

"Conoscitore dei principi e della morale della Curia romana - scrive il Bertolini - Barbarossa sapeva quanto fragili erano le fondamenta su cui poggiava l'alleanza di papa Alessandro III con la Lega Lombarda. Il solo interesse che li associava consisteva nell'avere in comune il nemico. Tolto di mezzo questo interesse, fra il papa e la Lega non restavano che antagonismi, i quali li avrebbero allontanati l'uno dall'altra. Questa diagnosi dello stato reale delle cose, persuase Federico a riprendere con il Papa le interrotte trattative, concedendogli ora ciò che aveva sempre negato prima, cioè il riconoscimento della sua legittimità.

Inviò pertanto suoi legati ad Anagni, dove il papa risiedeva, e qui furono gettate le basi di una pace definitiva. Le concessioni fatte dai legati imperiali al Papa dimostrano il fermo proposito del Barbarossa di riconciliarsi con Alessandro. E fu visto allora quale debole legame c'era nell'alleanza del papa con le città lombarde.
Alessandro III era soddisfatto di essere riconosciuto papa legittimo; dei vantaggi conseguiti alla Chiesa; del riacquisto delle regalie possedute dal tempo di Innocenzo II e dei beni della contessa Matilde nella misura in cui li aveva ottenuti dal tempo dell'imperatore Lotario; della rinuncia fatta da Federico al papa d'ogni potere sovrano su Roma, si ritenne appagato che nei preliminari di Anagni si stabilisse di definire la soluzione della contesa dell'imperatore con le città lombarde e con il re di Sicilia a un consiglio di arbitri; ma tutto ciò senza avere interpellato né la Lega, né il re Guglielmo per sapere se accettavano una tale soluzione.

Non fa pertanto meraviglia che la Lega, nel sentire gli accordi conclusi tra ALESSANDRO III e BARBAROSSA, accusasse il primo d'infedeltà e di tradimento. Il Papa non si scompose da quest'accusa, dichiarando che la pace definitiva non era stata ancora conclusa, né si sarebbe conclusa senza la partecipazione della Lega.
Intanto la defezione di Alessandro cominciava a produrre i suoi pessimi effetti in seno alla Lega. Due città, Cremona e Tortona, ne uscirono e fecero una pace separata con l'imperatore, la defezione troverà imitatori in altre città, e si allargherà fino a portare alla Lega un corpo mortale.
La pace tra l'Imperatore e Cremona avvenne il 12 dicembre del 1176.

Alessandro III, assicurato che non avrebbe patito ingiurie o inganni dai Tedeschi, recatosi al Vasto con cinque cardinali, s'imbarcò sopra navi del re di Sicilia e prese il mare con l'arcivescovo di Salerno e col Conte Ruggero d'Andria, deputati da Guglielmo per le trattative, che dovevano farsi a Bologna.

Papa ALESSANDRO III, dopo il trattato di Anagni, voleva far seguire una gran cerimonia per dimostrare al mondo intero che lui piccolo e vecchio prete, disarmato, era riuscito a resistere e a non farsi sottomettere dal potente imperatore tedesco, e che indubbiamente non poteva essere questa vittoria solo opera umana ma un miracolo di Dio.

Imbarcatosi in Meridione, il Pontefice affrontò un faticoso viaggio e uscito indenne da una tempesta presso Zara, il 17 marzo del 1177 giunse a Venezia, accoltovi festosamente dal doge, dai patriarchi di Grado e di Aquileia e dal popolo.
Qui, appena saputo il suo arrivo, l'imperatore gli inviò due prelati, WICHMAN di Brandeburgo e CORRADO di Worms, per pregarlo che mutasse il luogo del convegno. Convocati a Ferrara i rappresentanti della Lega, dopo lungo discutere si stabilì come sede del Congresso non a Bologna ma Venezia, dove il Papa che vi era già, convocò il vescovo UBALDO d'Ostia, MANFREDI di Palestrina, GUGLIELMO di Porto, Giovanni di Santa Anastasia, TEODEVINO di San Vitale e GIACINTO di Santa Maria in Cosmedin suoi legati, con i vescovi GUALLA di Bergamo, ANSELMO di Como, MILONE di Torino, GUGLIELMO d'Asti, GHERARDO di Pesta, GEZANO di Verona e ALBERTO di Gambara e altri delegati della Lega.
Rappresentanti dell'imperatore furono il cancelliere GOFFREDO di Hoffenstein, il protonotaro GERTUSINO e gli arcivescovi di Treviri, Magonza, Magdeburgo e Worms.

Mediatori erano il DOGE per la repubblica di Venezia, il vescovo di CLERMONT per il re di Francia e l'abate di BONNIVAL per il re d'Inghilterra. Apertosi il Congresso per accontentare i risentiti lombardi (per il fatto che il trattato di Anagni era stato concluso senza la loro partecipazione) il Pontefice rivolse a loro un discorso nella chiesa di San Giorgio, affermando che la pace era stata solo prospettata da Barbarossa, ma si era rifiutato di concluderla senza di loro; era per questo che aveva intrapreso questo faticoso viaggio e organizzato la cerimonia a Venezia; tutti dovevano vedere la sottomissione del Barbarossa.

Nella seguita discussione, si vide subito quante difficoltà c'erano per venire ad un accordo. I delegati imperiali volevano che fossero mantenute le deliberazioni della dieta di Roncaglia, dimenticando gli anni e gli avvenimenti che si erano succeduti dopo quella famosa assemblea, i legati lombardi dichiararono che non avrebbero fatto nessuna pace se non fossero state accettate le condizioni esposte nel convegno di Montebello. In mezzo a questi pareri opposti, il Pontefice accettò la pace per sé, rinunciando per quindici anni all'usufrutto dei beni matildini, e propose una tregua di sei anni tra la Lega Lombarda e l'imperatore e di quindici tra questi e il re di Sicilia.
Cercò di opporsi a queste proposte, Federico, il quale anzi fece insorgere contro il doge il popolo di Venezia, che chiedeva di fare entrare in città l'imperatore.

I Lombardi non erano d'accordo di fare entrare a Venezia lo scomunicato Barbarossa e per protesta minacciarono di abbandonare la città. Pure una fazione di veneziani era ostile all'ingresso in laguna dello scomunicato imperatore; ma ci pensarono a far cambiare idea i delegati siciliani. Minacciarono di abbandonare pure loro Venezia e si sarebbero poi pure vendicati (in Sicilia operavano molti veneziani, e il pericolo di una ritorsione con alcune confische era quella che ci si poteva aspettare dai siciliani).

Stava per nascere un'altra guerra. Finalmente si trovò una via d'uscita.

Il 21 luglio del 1176 fu concluso il trattato e due giorni dopo sei galere veneziane andarono a prendere a Chioggia l'imperatore e lo condussero a San Niccolò al Lido
Dopo varie e complesse trattative il giorno prima il 23 LUGLIO, il patriarca di Aquileia si recò incontro all'imperatore al Lido; qui con un collegio di cardinali alla chiesa di San Nicolò, revocarono a Barbarossa la scomunica e fecero abiurare lo scisma papale al clero che lo seguiva. Tutto era stato fatto fuori dei confini, le apparenze salve.

Il 24 LUGLIO in pompa magna scortarono BARBAROSSA in piazza San Marco per il fatidico incontro con i legati siciliani, con i rappresentanti della Lega e con ALESSANDRO III che attendeva con suoi prelati sulla soglia della Basilica il sovrano.
I due avversari che avevano lottato per diciotto anni, ognuno rivendicando la propria giustizia divina, s'incontrarono per la prima volta faccia a faccia.
Il momento fu solenne e commovente per tutti i presenti. L'imperatore, appena sbarcato, si vide venire incontro l'anziana figura del vecchio papa con le braccia aperte accogliendolo come un figlio. Barbarossa non seppe trattenere la grande commozione, ne fu sopraffatto, buttò via il mantello imperiale e s'inginocchiò ai suoi piedi. Alessandro, anche lui in lacrime, lo sollevò da terra e l'abbracciò proprio come un padre.
Insieme poi s'incamminarono per la messa in San Marco e per la benedizione.
Poi gli riconfermò il titolo imperiale e quello reale al figlio Enrico, ma non gli riconobbe la supremazia imperiale su Roma.
Nel lasciarsi, Federico, in atto d'umiltà, gli tenne la staffa e gli prese la briglia; Alessandro lo dispensò di farsi accompagnare fino all'imbarcadero.

Questa scena sembrava confermare il trionfo del papa; e invece il vero trionfatore era l'astuto Barbarossa, che era riuscito a pacificarsi con la Santa Sede, aveva raccolto intorno a sé nell'Italia settentrionale un buon numero di città e signori con cui sarebbe stato in grado di fronteggiare la Lega e, infine, non la pace, rinunziando al suo programma politico, aveva concluso con i collegati e il re di Sicilia, ma una tregua; tregua per lui vantaggiosa perché gli concedeva tempo sufficiente per rifarsi dei danni patiti, e riprendere se avesse voluto, in migliori condizioni, l'offensiva per l'attuazione del suo programma.
Stava già pensando ai nuovi orientamenti politici dei suoi rapporti con l'Italia meridionale, e stava preparando il terreno per i suoi obiettivi futuri.

FEDERICO BARBAROSSA, lasciò Venezia il 18 settembre del 1177 non per far ritorno in Germania ma diretto verso l'Italia centrale.
Mentre ALESSANDRO III lasciava Venezia un mese dopo il 16 ottobre diretto prima ad Anagni poi a Roma, mentre a Viterbo l'antipapa CALLISTO rifiutava di deporre la tiara.

Sono le vicende del prossimo capitolo
fino alla morte di Alessandro e di Barbarossa

periodo dall'anno 1177 al 1190 > > >


(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
KUGLER, "Storia delle Crociate"
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
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