Ugo Di Fazio una medaglia d’oro della guerra africana
Uòrk Ambà la Ridotta dei Leonidi Orazio Ferrara
Durerà anni. Sentenziarono gli esperti militari stranieri, tra cui gli inglesi i massimi esperti del tempo in fatto di guerre coloniali. Durerà anni ripeterono pediquessamente alcuni generali italiani. Lo stesso Badoglio, poi comandante in capo, era di questa opinione. Invece la nostra guerra in Abissinia durerà soltanto sette mesi, dal 3 ottobre 1935 al 9 Maggio 1936. E fu veramente una campagna coloniale da manuale, oggetto di studio nelle accademie militari di tutto il mondo.
Eravamo fuori tempo massimo, diranno poi i soliti storici col senno di poi. Si era al tramonto del colonialismo e noi, ingenui, andavamo a conquistare un impero. Allora però non lo sapevamo. Il bello è che non lo sapeva nessuno. Né gli inglesi e né i francesi, che difendevano con i denti i loro immensi imperi. Né gli americani, che allora non sapevano ancora di essere alla vigilia delle loro prime prove per sostituire il loro moderno, ma ben più spregiudicato imperialismo a quello anglo-francese. Imperialismo, quello degli USA, che sotto molti aspetti dura tutt’ora, e questo non per fare il solito antiamericanismo di maniera, ma soltanto per dire le cose come effettivamente stanno.
Si disse in seguito che, in fondo in fondo, avevamo sconfitto delle bande di povere selvaggi armati di zagaglie. E si disse una bugia. Gli italiani ebbero di fronte i migliori guerrieri dell’Africa, eguagliati solo dagli zulù. Guerrieri che il coraggio e il disprezzo della morte rendevano temibilissimi. Soprattutto per quelle loro veloci, terribili manovre avvolgenti, che tanti dispiaceri c’erano costati in un passato non troppo lontano. A Dogali, ad Adua. Ferite che a quel tempo ancora bruciavano. D’altronde eravamo in buona compagnia. Gli zulù, anch’essi magnifici combattenti, s’erano presi il lusso di dare una disastrosa sconfitta agli inglesi in quel di Isandlwana, nell’Africa del sud.
La conclusione vittoriosa della guerra in Abissinia coincise con il punto più alto del consenso del popolo italiano nei confronti del fascismo e di Mussolini. In quell’occasione anche molti avversari del regime si intiepidirono.
Questa breve premessa è necessaria per un oggettivo inquadramento storico dei fatti che andiamo a narrare, perché col senno di poi è facile trinciare giudizi, decidere da che parte stare e quale camicia indossare.
Di questa guerra dimenticata e rimossa dalla nostra coscienza nazionale, ci piace oggi ricordare la figura della medaglia d’oro Ugo Di Fazio. La damnatio memoriae con personaggi di questo tipo è stata particolarmente severa. Da rimuovere assolutamente, perché doppiamente esecrabile in quanto morto da colonialista e con la camicia nera indosso.
Ugo Di Fazio nasce a Palma Campania, in provincia di Napoli. Giovanissimo partecipa, con i gradi di ufficiale, alla Grande Guerra. Nel primo dopoguerra aderisce al fascismo e si arruola in seguito nei ranghi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, prestando servizio in qualità di ufficiale nella 144a Legione Camice Nere “Avellino”.
Nell’aprile 1935, quando si prospetta un nostro intervento in Africa Orientale, è tra i primi ad offrirsi volontario, benché ammogliato e con un figlio piccolo. Viene quindi mandato a Trieste, dove si sta costituendo il battaglione camice nere “San Giusto”. Ai primi di giugno l’imbarco sul piroscafo Celio con destinazione Massaua.
In Eritrea il centurione Ugo Di Fazio prende il comando della II Compagnia del I Battaglione Camice Nere, facente parte del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea sotto il comando del console generale Filippo Diamanti . Il 2 ottobre questo Gruppo è assegnato al Corpo d’Armata Eritreo del generale Pirzio Biroli. All’alba del 3 ottobre 1935, i tre Corpi d’Armata italiani del fronte nord iniziano le ostilità contro l’Etiopia e varcano la linea di confine Mareb-Belesa-Muna.
Da Belesa il Corpo d’Armata Eritreo, dopo una ininterrotta marcia di oltre 14 ore, raggiunge Guzat. Da qui, nei giorni successivi, avanza nell’Enticciò. Il 26 ottobre è già attestato nella conca di Zattà. Il 9 novembre occupa Hauzien. Il 23 è la volta di Gheraltà. Infine l’avanzata verso il Tembièn, dove si trovano riunite ingenti forze avversarie. Agli inizi di dicembre 1935 le avanguardie delle camice nere del Corpo d’Armata Eritreo sono davanti al Passo Uarièu, la porta della regione del Tembièn.
Passo Uarièu è una sella posta tra due cocuzzoli montuosi, su ognuno dei quali c’è un fortino. Il passo, situato ai piedi orientali dell’Uòrk Ambà, la Montagna d’Oro, costituirà con quest’ultima la chiave strategica di tutte le nostre operazioni nel Tembièn. Il loro controllo sarà pertanto decisivo nella 1a e 2a battaglia del Tembièn.
Il 5 dicembre viene occupata Abbì Addì , capitale di quella regione, ma viene sgombrata il 27 dello stesso mese per la pressione di soverchianti forze nemiche. Infatti Ras Cassa e Ras Seium stanno ammassando nella zona un’armata di 20.000/30.000 abissini, per tentare lo sfondamento del fronte italiano in quel punto. A causa di ciò la nostra linea di resistenza viene arretrata a Passo Uarièu, che per la particolare conformazione dei luoghi si presta egregiamente a tale scopo difensivo. Proprio da questo passo, il 21 gennaio 1936, parte una colonna di camice nere, agli ordini del generale Diamanti, per un’azione dimostrativa in direzione di Abbì Addì, divenuta ora quartier generale di Ras Cassa e Ras Seium. Ai roccioni di Debra Ambà la colonna si scontra con forti bande abissine e le volge in disordinata fuga.
Ma successivamente è attaccata da preponderanti forze avversarie e costretta, seppure lentamente, a ripiegare. Sempre nel pomeriggio del 21, nella vallata di Mài Belès, attraversata dall’omonimo torrente, sul ciglio meridionale dell’Uòrk Ambà, gli abissini riescono ad agganciare gli italiani. Segue un furioso corpo a corpo, che sarà detto appunto combattimento di Mài Belès. Le camice nere contrattaccano alla baionetta per aprirsi letteralmente un varco nella muraglia umana degli abissini. Le perdite sono elevatissime in entrambi gli schieramenti.
Alla fine i legionari della colonna Diamanti riescono a sganciarsi e a rientrare nei fortini di Passo Uarièu, grazie anche all’intervento dell’artiglieria e del presidio del passo, ma grazie soprattutto al sacrificio dei mitraglieri della 2a Divisione CC. NN., che, attestati sulle estremi propaggini del passo, falciano le prime ondate dei guerrieri abissini, fermandoli temporaneamente e consentendo così il rientro dei camerati. Quei coraggiosi verranno, poi, tutti massacrati dal nemico sulle canne ancora roventi delle loro mitragliatrici. Il combattimento di Mài Belès è costato agli italiani la perdita di 171 camice nere, di cui 15 ufficiali, oltre a 163 feriti. Sono caduti nello scontro, tra gli altri, padre Reginaldo Giuliani e il seniore Luigi Valcarenghi. Gli abissini contano da parte loro qualche migliaio di morti.
Il nemico, imbaldanzito per quella che crede una ritirata, investe ora direttamente Passo Uarièu. Ras Cassa e Ras Seium ritengono giunto il momento di forzare lo schieramento italiano e quindi rovesciano sul passo tutte le loro truppe e le loro artiglierie. Una cerchio di fuoco si stringe intorno ai difensori, che, malgrado la scarsità d’acqua e di munizioni, respingono i reiterati assalti nemici per tre giorni e due notti di seguito. Il 24 febbraio, con l’avvicinarsi della 2a Divisione Eritrea Vaccarisi proveniente da Passo Aberò, gli abissini iniziano a ripiegare verso sud. Termina così, con una vittoria degli italiani, la 1a battaglia del Tembièn. A Mài Belès e a Passo Uarièu sempre tra i primi, dove più ferveva la mischia, il centurione Ugo Di Fazio.
In tutti quegli aspri scontri si è sentita, spesso, risuonare una canzone, Pallida luna, assai cara agli ufficiali e ai legionari del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea. “Pallida luna/pallida luna/…../porta fortuna”. E’ l’armonioso canto dei legionari del Tembièn, intonato ogni qualvolta si va all’assalto. Sono veramente gli ultimi romantici epigoni di un mondo coloniale, che non sa ancora di essere al tramonto.
Nelle pause dei combattimenti, Ugo Di Fazio trova il tempo di scrivere al suo vecchio comandante della 144a Legione Camice Nere “Avellino”, il console Troianiello. “Siamo sempre pronti più di prima a tutto dare ed a prodigarci per il raggiungimento delle mete fissate…”. Poi un post-scriptum, che è quasi un presagio: “La vita degli eroi comincia dopo la morte” . E’ il suo ultimo scritto e reca la data del 25 febbraio 1936.
In quei giorni il I Battaglione CC. NN., di cui fa parte il Nostro, si trova a Monte Pellegrino, situato a circa 6 chilometri a est di Passo Uarièu. Questo monte è di vitale importanza per le operazioni militari in corso a causa delle sue sorgenti, le uniche in tutta la zona. Per questo motivo è presidiato in forze. Nella 1a battaglia del Tembièn, Ras Cassa, usando come esca proprio queste sorgenti, aveva sperato di attirare in una trappola mortale gli italiani assediati, che soffrivano enormemente per la mancanza d’acqua. Ma gli italiani non avevano abboccato. Da Monte Pellegrino il I Battaglione CC. NN. riceve l’ordine di portarsi a Passo Uarièu, dove giunge all’alba del 27 febbraio. Lo segue un battaglione di granatieri del Gruppo Battaglioni Nazionali del colonnello Gotti. Sta per iniziare la 2° battaglia del Tembièn.
L’ordine del quartier generale italiano è categorico. “Giorno 27. Il Corpo d’Armata Eritreo occupi saldamente Uòrk Ambà per costituire unitamente alle posizioni di Uarièu un forte appoggio”.
Nella notte, che precede l’alba del 27 febbraio 1936, il capomanipolo Tito Polo, con 60 camice nere scelte delle Legioni 114a e 116a e l’ausilio di alcuni ascari eritrei, inizia l’ascensione del costone nord dell’Uòrk Ambà. Contemporaneamente il tenente Rambaldi, con 30 alpini del VII Battaglione Complementi del 7 Reggimento Alpini e altri ascari, inizia l’ascensione di quello sud. La consegna per queste due pattuglie di audaci rocciatori è portarsi sulle cime di quei costoni, occuparle e tenerle ad ogni costo in attesa dei rinforzi.
Nella notte, impreziosita dallo scintillio di miriadi di stelle del bel cielo africano, gli italiani e gli ascari eritrei si muovono senza far rumore. Non portano niente di superfluo, nemmeno i viveri, solo le armi. La scalata deve essere rapida e silenziosa. Moschetto a tracollo, pugnale alla cintura e i tascapani ripieni di bombe a mano. La scalata avviene strisciando al riparo della scarna vegetazione dell’Ambà. Le sentinelle abissine, sparse qua e là, pur vigili nei loro ferini sguardi non si accorgono di nulla. Per le camice nere del costone nord va tutto bene. Raggiunta la cima, fanno fuori col pugnale le poche sentinelle e si apprestano a difesa.
Per gli alpini del costone sud invece, a causa delle maggiori asperità del terreno, l’obiettivo fissato è ancora lontano. Ad un certo punto le cose si complicano, allorché i comandanti abissini si rendono conto dell’errore di non aver presidiato in forze quelle alture strategiche, che possono ora rivelarsi decisive nella battaglia che sta per iniziare. E parte l’ordine di rioccuparle ad ogni costo, ricacciando indietro gli italiani.
Mentre per quelli del costone nord, raggiunti all’alba dalla 114a Legione Camice Nere , che si attesta su posizioni contigue, i ripetuti attacchi nemici non costituiranno mai un serio problema. Per gli alpini, sorpresi a metà strada dall’obiettivo, la situazione è subito seria.
Sono le prime ore del mattino del 27, quando il comando italiano decide di mandare dei rincalzi. Arriva quindi l’ordine a Di Fazio di portarsi subito con la sua compagnia in appoggio agli alpini. La scalata si presenta oltremodo pericolosa perché bisogna trovare un varco tra nugoli di abissini che attaccano. Nonché ardua e faticosa, per via di quei costoni irti e scoscesi e per quella pesante mitragliatrice che si portano appresso. D’altronde Di Fazio e i suoi uomini non sono alpini, come quelli a cui vanno in aiuto e che in quel momento stanno vendendo cara la pelle. Comunque bisogna andare avanti.
I legionari stringono i denti e vanno avanti. Di Fazio è contento di quei suoi ragazzi scanzonati, dal facile motteggio tra di loro e dal largo sorriso, che ravviva quella severa camicia nera. Mugugnano, ma poi danno sempre del loro meglio. Come adesso. La posizione assegnata è alla fine raggiunta, dopo averne sloggiato il nemico con le baionette e con un po’ di fegato dietro. Quindi s’inizia un fuoco serrato per alleggerire la pressione avversaria sugli alpini. Il luogo, in cui si trova la II Compagnia, si presenta naturalmente fortificato con delle rocce a strapiombo
Adesso a migliaia i guerrieri abissini sciamano ai piedi dell’Uòrk Ambà e rinnovano gli assalti con più ardimento. E’ un formicaio nero che avanza inesorabilmente. La loro agilità, favorita dalla perfetta conoscenza dei luoghi, li porta ben presto a ridosso delle posizioni italiane. Come sempre, per l’estremo sprezzo del pericolo, si rivelano guerrieri intrepidi. Gli italiani dal canto loro non intendono mollare le posizioni e quindi rispondono con un nutrito fuoco di moschetteria e di mitragliatrici, che apre varchi paurosi nelle fila degli attaccanti. I dirupi e le forre dell’Uòrk Ambà diventano rapidamente veri e propri carnai. Dappertutto grida e gemiti. Anche gli italiani hanno la loro parte d’inferno, diversi caduti nei loro ranghi.
Di Fazio, vecchio reduce dalle trincee della Grande Guerra, conosce bene lo stato d’animo che genera quella carneficina. Calmo e impassibile rincuora quindi i suoi ragazzi, predisponendoli per la resistenza ad oltranza. Ed ecco risuonare il canto di Pallida luna. “Pallida luna/…/porta fortuna”. Il centurione sa dell’importanza fondamentale di quella posizione per le sorti della battaglia in corso e non la mollerà per nessuna ragione al mondo. Lo preoccupano solo la scarsità delle munizioni e le armi, che per il fuoco continuato cominciano ad incepparsi. Come quel moschetto, con cui poc’anzi sparava nel mucchio degli attaccanti.
Intanto non sente più il crepitio della mitragliatrice, accorre e vede l’addetto giacere in una pozza di sangue. Rimette in posizione l’arma e comincia a sgranocchiare personalmente i lucenti nastri dei caricatori. “Pallida luna/…/porta fortuna”. Sotto l’impatto dei colpi le fila degli abissini sembrano ondeggiare lievemente. Anche la mitragliatrice però purtroppo s’inceppa. Prende il 91 di un caduto lì vicino e riprende a colpire il nemico. E’ chiaro che gli abissini stanno serrando sotto, certi ormai di avere, con un ultimo sforzo, la vittoria a portata di mano.
Di Fazio si rende conto che può fare ben poco con quel suo moschetto. Un rapido sguardo tutt’intorno e scorge un roccione a strapiombo, sovrastante la massa dei nemici. Raccoglie dunque dei tascapani pieni di bombe a mano, poi si arrampica sulla roccia. Calmo, con i denti strappa la sicura e lancia una bomba a mano. Poi un’altra. E ancora un’altra. E poi ancora, a decine. Vuoti paurosi si aprono tra gli abissini, costretti a disperdersi per ripararsi da quella pioggia di micidiali schegge, che uccide, ferisce, mutila.
Testimone d’eccezione di tutta questa scena incredibile, che sembra tratta da un quadro oleografico, è il generale Pirzio Biroli, che da un osservatorio sta seguendo col binocolo l’andamento dei combattimenti sull’Uòrk Ambà. Si racconta che il generale, vedendo quella figura solitaria, di cui ignorava in quel momento il nome e il grado, in piedi sulla roccia lanciare bombe a mano contro il nemico, abbia esclamato “Che magnifico soldato!” .
Comincia intanto un rabbioso fuoco di fucileria da parte degli abissini contro quel temerario, che ha fermato l’ultimo e decisivo assalto contro quel pugno di camice nere. Tra il grandinare dei proiettili nemici, Di Fazio continua imperterrito a lanciare i micidiali ordigni. Alla fine avrà lanciato più di novanta bombe a mano, come testimonierà il suo attendente, la camicia nera Ernesto Genovesi .
E’ ancora sul costone, malgrado gli inviti pressanti dei suoi uomini a ripararsi, quando una pallottola nemica lo colpisce al petto. Al suo attendente e agli altri legionari accorsi per prestargli soccorso, ha ancora la forza di raccomandare “… ragazzi non mi abbandonate la posizione…” poi aggiunge “…un bacio a mia moglie, a mio figlio…viva l’Italia”.
Sull’onda travolgente dell’esempio del loro comandante, adesso sono tutte le camice nere della II Compagnia a comportarsi da leoni. Al canto legionario di “Pallida luna/pallida luna/…/porta fortuna”, è il contrattacco. Una valanga di ferro, fuoco e rabbia si abbatte sugli abissini, che danno i primi segni di cedimento.
Alla fine la giornata sarà nostra, grazie anche al sacrificio di Di Fazio e di altri come lui.
“Sulle pendici dell’Uòrk Ambà è caduto da vero eroe. Solo, sprezzando il pericolo, dall’alto d’una roccia fulminava il nemico con lancio di bombe a mano e tiro di moschetto, trascinando col suo esempio tutti i militi della sua II Compagnia alla più bella vittoria della II Battaglia del Tembièn…”.
Così il comandante del I Battaglione Camice Nere in una lettera alla vedova.
Anche il generale Diamanti scriverà poi alla vedova, annunciandole che il fortino sulla cima destra dell’Uòrk Ambà era stato intitolato al nome del marito, Ugo Di Fazio, e terminando “…signora, dica a suo figlio di ricamare sul suo fazzoletto di balilla il nome del suo eroico padre”.
Annotiamo che il fortino Di Fazio sarà conosciuto, per tutta la breve esistenza dell’impero italiano d’Etiopia, anche con il nome di fortino dei Leoni. E’ la testimonianza concreta di quello che pensano i soldati nazionali e eritrei del comportamento di quegli alpini e di quel pugno di camice nere.
Ancora un canto testimonierà poi del valore dei legionari a Passo Uarièu e all’Uòrk Ambà.
……….
I morti che lasciammo a Passo Uarièu
sono i pilastri del Romano Impero.
Gronda di sangue il gagliardetto nero
che contro l'Amba il barbaro inchiodò.
Sui morti che lasciammo a Passo Uarièu
la croce di Giuliani sfolgorò!
………
Alla memoria del centurione Ugo di Fazio sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare con la seguente superba motivazione:
“Comandante di una compagnia di rincalzo, giunto sulla linea di combattimento, mentre la dura pressione del nemico sembrava aver ragione del numero notevolmente inferiore delle nostre forze, si slanciava alla testa della sua compagnia al contrattacco, riuscendo a raggiungere una linea che non fu più ceduta. Ritto su una roccia dominante, animava per oltre due ore i combattenti col suo esempio, lanciando bombe e fulminando col moschetto e con la mitragliatrice di un caduto gli assalitori, cui causava gravissime perdite. Mentre le sue camice nere lo esortavano a ripararsi dal tiro avversario, cadeva colpito a morte, avendo ancora la forza di gridare Viva l’Italia.
Uòrk Ambà, 27 febbraio 1936 - XIV”di Orazio Ferrara