DA 20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
'1 D.C. - 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNO 1918 (20)
Caduti di SERIE A e caduti di SERIE B
E I 300.000 PRIGIONIERI ITALIANI DOPO CAPORETTO ? |
a fondo pagina una testimonianza dell'ultima ora, (13-11-2006) dall'Ungheria !!! (un ungherese ha letto queste pagine e ci scrive ....) |
GLI ITALIANI DIMENTICATI
IL LIBRO IN PRIMO PIANO - Trecentomila uomini catturati dagli austro-ungarici dopo la tragica rotta del nostro esercito durante la Prima Guerra Mondiale
Di questi 300.000 ne sono morti 100.000. Di fame, di malattia,
di dolore. E di umiliazione.
La seconda opera di Camillo Pavan sulla storica sconfitta
di SERGIO CHITI
Caporetto non è, nella nostra lingua, solo il nome di una città; è divenuto sinonimo di disastro, disfatta, di qualcosa di più e peggio della semplice sconfitta. Nell'immaginario Caporetto si materializza in tragiche immagini di armate in rotta, di soldati sbandati, che vagano, privi di ordini e in preda al panico.
Insomma, Caporetto è l'evento militare che segnò il punto tragico della Grande Guerra e dal quale, però, partì poi la riscossa, fino a giungere al glorioso 4 novembre 1918… tutto vero.
Però non fu solo questo.
A ricordarci che la guerra non è fatta solo di schemi tattici, di strategie, di grandi battaglie, ma è fatta anche da mille sofferenze dimenticate, che non entrano nell'epica ufficiale, torna Camillo Pavan, col suo bellissimo libro I prigionieri italiani dopo Caporetto, corredato dall'elenco e la carta dei campi di prigionia, compilati a cura di Alberto Burato. Abbiamo detto che Pavan "torna", perché già ci aveva dato (edita nel 1997) un'altra interessante opera sull'argomento, Grande Guerra e popolazione civile, vol. 1, Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari.
In questa nuova fatica di Pavan i protagonisti sono quei 300.000 soldati che caddero prigionieri nei giorni della disfatta di Caporetto. Attraverso le pagine del libro li seguiamo nell'ora della resa, nelle penose e interminabili marce di trasferimento verso i campi di concentramento e infine nella realtà quotidiana della prigionia, realtà sempre drammatica, spesso tragica.(DI QUESTE, DEV'ESSERE QUEL GRUPPO FINITO NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO IN UNGHERIA - E CHE ORA A DISTANZA DI 87 ANNI SCOPRIAMO ESSERE STATI DIMENTICATI, MAI ONORATI - VEDI SOTTO LA SEGNALAZIONE CHE HO RICEVUTO DALLA CITTA' DI PECS.)
E' un libro importante perché viene a coprire una grave falla della storiografia del trascorso secolo; solo Giovanna Procacci, nel suo Soldati e prigionieri nella Grande Guerra, con una raccolta di lettere inedite (edito nel 1993 da Editori Riuniti di Roma) iniziava a togliere dall'oblio della cosiddetta storia minore del primo conflitto mondiale tante tormentate vicende, consumate non sulla gloria del campo di battaglia, ma nell'angoscia dell'esilio, della lontananza dagli affetti e da una Patria matrigna, che chiedeva ai propri figli di esser pronti a dare la vita, ma poco o nulla faceva per difenderli.
Camillo Pavan riprende e approfondisce l'indagine, concentrandola sui prigionieri di Caporetto; il suo libro, ricco di documentazioni e di immagini, si legge d'un fiato, non solo perché scritto con uno stile sciolto e gradevole, ma anche perché ad ogni pagina apriamo gli occhi su realtà sconcertanti e sconosciute e spesso la lettura ci coinvolge fino a commuoverci.
Con un lavoro di paziente raccolta, l'autore attinge a diari, lettere, testimonianze dirette. E se possiamo leggere le pagine riflessive e ben scritte del capitano medico Michele Daniele, o del tenente Persio Falchi, non mancano le vivide testimonianze del granatiere Giuseppe Giuriati, che tenne un diario, ricco di frasi spesso disordinate e sgrammaticate, che ci porta direttamente in una realtà di durezza, di abbandono, di fame. E non abbiamo citato che pochissimi, tra i molti uomini, dal semplice soldato all'alto ufficiale, i ricordi dei quali costituiscono la più immediata e commovente ossatura del libro.
Pavan non ha la pretesa di fare un'analisi delle ragioni della gravissima sconfitta di Caporetto; non è il suo scopo, come dicevamo, e sull'argomento specifico esistono già fiumi di letteratura. Ma proprio dalla ricchezza di testimonianze dirette e non filtrare dalla storiografia ufficiale emerge un quadro significativo. Lasciamo la parola all'autore:
"Non si può dimenticare che fin dall'inizio della battaglia, a spettacolari e noti episodi di resa senza combattere si affiancarono, meno noti ma non meno numerosi (il corsivo è dell'autore di questo articolo), episodi di tenace resistenza. In fondovalle sinistra Isonzo nella prima linea di Gabrje, ad esempio, due compagnie italiane restarono sul posto venendo letteralmente piallate dall'avanzata di quattro battaglioni della 12° divisione slesiana del gen. Lequis. Senza contare la resistenza sul crinale Vodil-Mrzli-M.Nero, una lotta senza speranza perché dopo poche ore gli italiani si trovarono con gli austro-tedeschi alle spalle e il ponte di Caporetto inagibile perché fatto saltare. Strenua resistenza ci fu anche sul Rombon, sul Cukla, sugli accessi alle valli Resia e Raccolana. E poi i mille piccoli e grandi, noti e meno noti episodi avvenuti durante la ritirata… ".
Proprio il già citato granatiere Giuseppe Giuriati riporta nel suo diario una testimonianza dell'ultima confusa battaglia: "… allora il colonnello Spinucci è rimasto morto, il comandante di compagnia ferito e diversi granatieri morti e feriti. Ora prende il comando un altro e si cambia fronte e ora si fa tutti un altro attacco. Ma inutili sforzi, ora ci perdiamo di collegamento, chi gira di qua chi gira di là. All'alba ci vediamo circondati, abbiamo fatto un altro attacco con un aspirante (allievo ufficiale, ndr), misti con fanteria. Si sente dire che hanno fatto saltare il ponte sul Tagliamento e allora essendo ormai circondati da tanto tempo, ci è toccato abbassare le armi. Oggi siamo ai 30 ottobre 1917. Addio Italia. Famiglia arrivederci. Ora mi trovo nelle mani dei germanici!"
Questa testimonianza è importante, come molte altre riportate nel libro di Pavan (quelle di Sisto Tacconi, del capitano Attico Dadone, del tenente Giulio Bazini, del fante Mario Tarallo, per non citarne che alcune) perché Caporetto non fu solo una sconfitta, seppur gravissima. Fu, da subito, la corsa alla falsificazione, allo scarico di responsabilità. Se biasimevole fu il panico che prese alcuni reparti (ben pochi, per altro), che si arresero senza sparare un colpo, non meno vergognoso fu il panico che prese i vertici militari, preoccupatissimi di salvare la propria faccia. Fin qui, non ci sarebbe nulla di strano, in un'antica vocazione ad anteporre carriera e posto di lavoro a qualsiasi altro valore. Ma la falsificazione ebbe una conseguenza crudelissima, che apprendiamo dal libro di Pavan.
Spieghiamoci: la prima versione ufficiale sul disastro di Caporetto addebitava quasi intieramente alla truppa la colpa di essersi arresa senza accennare resistenza; in poche parole, era stata la viltà dei soldati a rendere possibile la travolgente avanzata nemica. Versione debole, poco realistica, anche per le grandi dimensioni della disfatta, salvo che si volesse pensare che su quel fronte, per uno strano caso della sorte, fossero schierati solo codardi e fedifraghi. Ma era una versione comoda, perché copriva mille mancanze di comandanti improvvidi, errori marchiani, sottovalutazioni del nemico; ed era anche una versione per nulla strana in un ambiente, quale quello militare di allora, in cui il semplice soldato era considerato poco più che un numero, una delle gocce che dovevano formare quelle ondate d'urto destinate solo all'assalto e al sacrificio. Fu una mentalità di questo genere, per fare un esempio, che causò le centinaia di migliaia di morti nel terribile carnaio delle battaglie dell'Isonzo.
Ebbene, accettata la tranquillizzante spiegazione della disfatta di Caporetto dovuta ad una truppa vile e incline alla diserzione, nulla vi era di strano nel fatto che l'Italia non fornì alcun aiuto alimentare a quei suoi figli, prigionieri del nemico. Mentre i prigionieri francesi e inglesi ricevevano dai rispettivi governi gli aiuti tramite la Croce Rossa, la sorte degli italiani fu nerissima, né Austro - Ungheresi e Germanici, a loro volta ridotti alla fame, avevano di che nutrire quei prigionieri.
Nulla di strano, dicevamo. Del resto, a ricordarci in quale considerazione fosse tenuto il soldato e con quale rudezza estrema fosse intesa la disciplina, Pavan ci riporta un ottimo esempio, la circolare num. 3525 del 28 settembre 1915, con la quale il generalissimo Cadorna, comandante supremo, ricordava che "ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto - prima che si infami - dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell'ufficiale".
Con queste premesse, con questi livelli di umanità, facilmente si arrivava alla conclusione che era "meglio che crepassero di fame, quei vigliacchi di Caporetto", anche come monito per tutti: disertare non conveniva, se non si veniva uccisi dai propri commilitoni o ufficiali, si finiva prigionieri e affamati. E la fame, già patita nei lunghi viaggi verso i campi, diviene la compagna ossessiva di una prigionia resa ancora più dura dalla sensazione di essere soli, dimenticati da una patria ingrata.
La fame strema i corpi e le coscienze, i rapporti umani si sfalsano, la dignità, la solidarietà, il rispetto, l'amicizia, divengono parole vuote, di fronte alla lotta per sopravvivere, alle dispute per suddividersi le miserrime razioni fornite da carcerieri a loro volta affamati.
La fame ricorre di continuo nei diari riportati alla luce dall'autore, non è "un argomento", ma diviene ben presto "l'argomento". La fame condiziona giorno per giorno la vita dei prigionieri. Il capitano Gaetano Tassinari, prigioniero in Germania, a Schwarmstedt, scrive al primo ministro Orlando una lettera che sarà bloccata dalla censura:
"… ogni istanza diretta ad ottenere un vitto meno scarso non ha ottenuto alcun esito: le autorità tedesche rispondono che non possono dar di più ai prigionieri ed esortano gli ufficiali a rivolgersi alla madre patria… tali condizioni di vita, poste a confronto con quelle dei prigionieri Francesi, Russi, Inglesi e Belgi, i quali dai loro governi ricevono abbondante vitto e vestiario, costituiscono uno stridente contrasto… (da eliminare) ad evitare che la tensione degli animi, cagionata dalle sofferenze, possa offendere il decoro del nostro paese…"
Ma se il capitano Tassinari si preoccupava ancora del decoro, altre voci ci portano a conoscere una realtà ben più drammatica, dove ormai si parla solo di sopravvivenza. Sisto Tacconi, internato a Rasttat-Russenlager:
"… la fame continuata non ci faceva pensare più che al mangiare, al mangiare, al mangiare; si parlava di questo, si pensava questo, si ricordava questo; si viveva per una misera scodella di sbobba da maiali che veniva data due volte al giorno e per un tozzo di pane nero dal peso di 350 grammi…".
La pagnotta andava divisa tra cinque persone e troviamo la descrizione del rito per tagliare le cinque fette, stando ben attenti a non perdere neppure una briciola di un "pane" composto perlopiù da patate, acqua e ghiande, con aggiunta di legno e paglia.
La fame fa escogitare un macabro espediente: nascondere il più possibile i cadaveri dei commilitoni, per poter usufruire per qualche giorno anche delle razioni che sarebbero spettate ai morti:
"… spesso questi morti non vengono denunciati subito: per poter fruire della loro razione di rancio, i compagni li tengono nascosti, ficcati sotto i pagliericci, finché il processo di decomposizione non rende insopportabile la loro presenza…"
La disfatta, i patimenti, le privazioni, la fame spingono il tenente Falchi a riportare nel suo diario una citazione dell'Apocalisse:
"E in quei giorni gli uomini cercheranno la morte, e non la troveranno; e desidereranno di morire, e la morte fuggirà da loro".
Ma la morte non fuggì: centomila di quegli infelici morirono nei campi di prigionia, il quintuplo dei prigionieri delle altre nazioni, che non dimenticavano i loro figli in disgrazia. Le cause principali di morte furono due: la tubercolosi e la fame. Ma in quest'ultimo caso si annotava pudicamente nei registri una morte per "odem", edema, perché la morte "per fame" ufficialmente non poteva esistere. Quanto alla tubercolosi, nota l'autore, "è difficile non identificare in questa tubercolosi di massa il processo finale di mesi e mesi di stenti, aggiunti al clima rigido dell'Europa centro settentrionale, affrontato senza le più elementari protezioni…"
Ma prima di entrare nel girone infernale dei lager, ci narra Camillo Pavan, i prigionieri, che già avevano vissuto l'angoscia della resa, sperimentano i diversi comportamenti, ora vili, ora di splendida solidarietà umana, delle diverse popolazioni che incontrano sul lungo cammino verso i campi di concentramento. La fruttivendola di Gorizia che, fiutato il cambio del vento, rifiuta di dare qualche aiuto "a voi italiani", contrasta con la generosità degli abitanti di Lozzo, che cercano in ogni modo di dare conforti a quelle colonne di uomini stanchi e angosciati. E ciò che avviene a Lubiana, dove non pochi abitanti danno cibo ai prigionieri solo in cambio di quel che poco che essi ancora possedevano (una coperta, una mantellina, qualche capo di biancheria), fa scrivere al sergente Pennasilico sul suo diario una vera invettiva contro la città:
"Ricordalo Lubiana! Hai denudato infelici affamati sulla via dell'esilio! E questo mentre si avvicina il Natale, mentre le campane delle tue cento chiese chiamano i fedeli alla preghiera, insegnando loro ad amare il prossimo!".
Grazie, dunque, a Camillo Pavan, perché il suo nuovo libro ci permette di leggere un grande evento come Caporetto da un angolo di visuale finora nascosto, prima per voluta falsificazione della storia, persa nell'orgia di retorica risorgimentale (funzionale a tante altre cose… ), poi perché il tempo rischia sempre di seppellire tutti i ricordi. E leggendo il libro facciamo anche omaggio alla memoria di tanti nostri fratelli, morti dimenticati, se non addirittura ingiustamente bollati col marchio di disertori.
E per cercare di capire l'angoscia di quegli uomini, riportiamo ancora dal libro di Pavan un brano del diario del sergente Alessandro Pennasilico, che racconta l'ingresso al campo di concentramento di Milowitz (ora Milovice, nella Repubblica Ceca):
"Passiamo accanto a un cimitero, un abbandonato cimitero, senza monumenti, senza recinto. Molte croci di legno, tutte eguali. Domandiamo se quello è il cimitero del paese e ci vien detto che è cimitero dei russi, morti in prigionia. Questa notizia ci rattrista profondamente. Tutte queste croci si sono conficcate nel nostro cuore. E una tristezza ci accompagna, mentre le braccia delle croci affiorano nella neve, chiedendo pietà. Forse morremo anche noi in questo esilio, lontani da tutti, dalla Patria, dalla mamma. Con questi dolorosi pensieri, con questo stato d'animo così angosciato, entriamo (diciassettemila persone) nel recinto del campo di concentramento che è enorme. Sul cancello si legge: K.u.K. Kriegsgefangenenlager Milowitz. Un'immensità di baracche. Nere. Come il nostro umore. Reticolati altissimi, doppi, sentinelle ad ogni passo…".
Leggiamolo questo libro e riflettiamo su cos'è la guerra, scremata da ogni discorso di politica, arte militare, strategia: sofferenza, umiliazione, degrado, morte. Nella sua narrazione, profondamente partecipata, Camillo Pavan ci parla di un'umanità sofferente, in cui spesso prigioniero e carceriere si potrebbero scambiare i ruoli l'uno con l'altro, vittime entrambi di una follia che devastò l'Europa, e che non fu che il prodromo di un'altra follia, ancora più devastante, dopo neppure trent'anni.
Sbaglierebbe chi volesse qualificare l'opera di Pavan come "antimilitarista": tutte le definizioni impoveriscono. Noi crediamo che I prigionieri italiani dopo Caporetto si possa piuttosto definire un diario dell'uomo, tragico e splendido a un tempo, una narrazione della miseria umana, non di rado illuminata da sprazzi di fratellanza e di solidarietà, che incredibilmente riescono a sopravvivere anche negli orrori più profondi.
Infine è opportuno segnalare che i prigionieri italiani dopo Caporetto è anche un ottimo supporto per quanti, studiosi, appassionati, desiderassero approfondire gli argomenti trattati, nonché per chi desiderasse rintracciare il luogo di sepoltura di un disperso (e furono migliaia).
Il già citato elenco dei campi di concentramento è arricchito dall'elenco delle ambasciate e consolati d'Italia, che potranno dare assistenza a chi voglia condurre ricerche specifiche e localizzate nei vari paesi in cui i prigionieri vissero la loro odissea.
Abbiamo letto questo libro con vivo interesse e lo consigliamo a tutti i nostri lettori; aspettiamo l'amico Camillo Pavan al prossimo appuntamento, nella certezza che vorrà ancora farci partecipi delle sue fatiche di storico acuto e scrupoloso.
SERGIO CHITI
RIFERIMENTO:
I prigionieri italiani dopo Caporetto, di Camillo Pavan - Camillo Pavan Editore, Treviso 2001
Questa pagina
(concessa solo a Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net
ultima ora
un navigante dopo aver letto questa pagina mi manda via e-mail dall'Ungheria
questa singolare testimonianza:
"Egregio Signori di Cronologia
Scrivo da una cittá ungherese, che si chiama Pécs. Leggendo la Vs pagina sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale vorrei informarVi che qui da noi nel cimitero giacciono soldati italiani caduti durante quella tragica guerra.
Ci sono 65 tombe di italiani qui seppelliti. Purtroppo sulle tombe sono scritti solo i nomi dei soldati senza data di nascita di morte nè la loro provenienza.Nessuno li ha mai onorati nè li ha mai reclamati!!
Dimenticati dalla Patria!Elenco dei soldati italiani
( dimenticati ! )
seppelliti a Pécs (Ungheria)
Avalloni Giovanni sergente
Dalponte Ambrogio caporale
Baggiachi Francesco
Barbario Salvatore
Belfiglio Eugenio
Benetti Alberto
Bersoni Giulio
Biffi Pietro
Bilotti Emilio
Birbi Pietro
Borsotto G. Battista
Bruni Luigi
Camorati Saverio
Capraro Giovanni
Carre Antonio
Chiarelli Tomaso
Cikovic Armando
Concini Secondo
Dal Brun Antonio
Diani Luigi
Dinarich Oscare
Dinopati Santino
Emaldi Natale
Friello Stefano
Galotti Giacomo
Garanti Luigi
Guidi Giuseppe
Host Antonio
Jankivich Giulio
Lai Antonio
Langomarino Giacobbe
Lansotti Emilio
Lasol Romano
Ligabue Umberto
Livi Gioacchino
Madalio Rocco
Magovero Matteo
Mambretti Azelmo
Marcucetti Giuseppe
Masi Ariomeno
Michelic Rodolfo
Moglia Francesco
Montanari Francesco
Monton Vizzorio
Nicolo Alfonso
Petraccio Placido
Pogorzevac Giovanni
Raccioppi Andrea
Rakicic Alessandro
Rossi Americo
Rulli Oreste
Sambasile Vincenso
Scaramucic Andrea
Scarigatore Luca
Scoppi Gaetano
Seegner Adalberto
Soave Zelindo
Svara Giuseppe
Tarasconi Massimo
Valtorta Giuseppe
Venuti Giuseppe
Vurtacin Andrea
Zanata Vittorio
Zoldan Quirino
Zudic Giovanni
Saluti: Sárics Jenõ
Pécs (Ungheria) 13-11-2006
"TI FACCIO SAPERE QUALCOSA DI PIU' NEI PROSSIMI GIORNI
DOPO AVER FATTO ALCUNE RICERCHE NEI REGISTRI DEL CIMITERO".
12-12-2006
"ecco cosa sono riuscito a leggere - ma a breve intensificherò ancor più le ricerche, visto che sei stato così sensibile ad occupartene.
"ECCO COSA HO TROVATO ! 53 I NOMI DEI SEPOLTI
PROBABILMENTE I NOMI DEI PAESI E CITTA' SONO DISTORTI"
"COME VEDI DALLE DATE SONO TUTTI MORTI (dopo chissà quale "odissea" - denutrimento, malattie, angosciosa solitudine, ecc.) NEL CORSO DEL PRIMO e SECONDO ANNO".
nome |
localit� di nascita' |
anni |
morte |
Avalloni
Giovanni sergente |
|
22 |
1918 06 27 |
Anafossi Carlo | Lardirago | 36 |
1918
05 25 |
Ansoldi Enrico | Cremona | 34 |
1918
04017 |
Baggiachi
Francesco |
Pietralunga |
36 |
1918 05 28 |
Barbario
Salvatore |
Cefala'
Diana |
26 |
1918 05 26 |
Belfiglio
Eugenio |
|
21 |
1918 07 10 |
Bersoni
Giulio |
|
42 |
1918 02 21 |
Biffi
Pietro |
Bari |
22 |
1918 10 26 |
Bilotti
Emilio |
Merano
Principiato ? |
25 |
1917 06 27 |
Borsotto
G. Battista |
Barnetto
? |
35 |
1918 04 15 |
Bruni
Luigi |
|
|
1918 10 24 |
Camorati
Saverio |
|
|
1918 11 06 |
Capraro
Giovanni |
Belluno
Palacastello ? |
20 |
1919 01 27 |
Caranta Luigi | Torino | 20 |
1918
09 11 |
Carre
Antonio |
Pecanca
Riggo ? |
22 |
1918 09 08 |
Chiarelli
Tomaso |
|
|
1918 11 06 |
Cikovic
Armando |
|
24 |
1918 14 11 |
Dal
Brun Antonio |
Sarcedo
�Ve....? |
20 |
1918 05 02 |
Dalponte
Ambrogio caporale |
(Vichiano)
Bellino ? |
24 |
1918 11 18 |
Diani
Luigi |
|
22 |
1916 06 28 |
Dinopati
Santino |
Pernate |
30 |
1918 11 03 |
Friello
Stefano |
Caiazzo
(Caresto) |
30 |
1918 06 28 |
Galotti
Giacomo |
Bari |
23 |
1918 05 17 |
Grosso Michele |
Grammichele | 21 |
1918
04 27 |
Guidi
Giuseppe |
Alessandria |
30 |
1918 03 29 |
Host
Antonio |
|
47 |
|
Jankivich
Giulio |
|
|
1917 04 13 |
Lai
Antonio |
Perves
Dio Iogo ? |
26 |
1918 07 17 |
Leoppi Gaetano | Borgetto | 21 |
1918
11 05 |
Ligabue
Umberto |
Rozemili
? |
|
1918 06 06 |
Livi
Gioacchino |
Barbano
di Lulu ? |
36 |
1918 10 18 |
Madalio
Rocco |
|
24 |
1918 10 07 |
Magovero Matteo | Castelnuovo | 23 |
1917
09 15 |
Mambretti
Azelmo |
Caldarette
Varesi ? |
24 |
1918 06 05 |
Marcucetti
Giuseppe |
(Ortu�nasina)
? |
24 |
1919 03 06 |
Masi
Ariomeno |
|
20 |
1918 07 14 |
Moglia Francesco | Cremona | 27 |
1917
05 22 |
Montanari
Francesco |
Mazzia
Carbe ? |
40 |
1918 10 06 |
Monton
Vizzorio |
Fiume |
29 |
1916 07 06 |
Nicolo
Alfonso |
|
? |
1918 06 02 |
Petraccio Placido | 20 |
1919
06022 |
|
Raccioppi
Andrea |
|
34 |
1918 07 05 |
Romano Barol | Longarone | 24 |
1918
11 02 |
Rossi Americo | Aforense Osento (?) | 26 |
1918
06 23 |
Sambasile Vincenso | Lentine | 26 |
1918
12 13 |
Scaramucic Andrea | 39 |
1917
04 04 |
|
Scarigatore Luca | Reggio Emilia | 30 |
1918
11 26 |
Soave
Zelindo |
|
22 |
1917 07 10 |
Tarasconi Massimo | Parma | 21 |
1918
05 09 |
Valtorta
Giuseppe |
|
29 |
1918 08 13 |
Venuti Giuseppe | Sanpietro | 27 |
1915
02 23 |
Vurtacin Andrea | Rastelenzo (?) | 22 |
1919
02 16 |
Zanata Vittorio | Treviso | 27 |
1918
11 15 |
Zoldan Quirino | Langarano(?) | 19 |
1918
06 24 |
"Poveri figli d'Italia! La cui unica colpa fu di cadere prigionieri del nemico -avrebbe potuto accadere a tutti, anche a quelli ora sepolti nei sacrari, che oggi vengono visitati da turisti, parenti e studiosi. NON VA BENE. Non va per niente bene. Secondo me non furono ne' i peggiori, ne' i migliori a cadere prigionieri. Fu un colpo di sfortuna, di esser al posto sbagliato al momento sbagliato. Per questo trovo oltraggiosa questa discriminazione tra caduti di serie A e caduti di serie B".(Un sottoscrittore)
(Pecs, è una bellissima bimillenaria città ungherese di 160.000 abitanti, la sua provincia confina con la Croazia; al tempo dell'impero romano era la capitale della Pannonia. Singolarità - la bandiera ungherese ha gli stessi colori di quella italiana: bianco, rosso e verde, in fasce orizzontali).