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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNO 1918 (22)
LE DONNE E LA GUERRA
La partecipazione
delle donne italiane alla Prima guerra mondiale
ANGELI DEL FOCOLARE
IN GUERRA
SENZA USARE ARMI
di SERGIO CHITI
Küche, kinder, kirche, Cucina, bambini, chiesa.
Nel 1915 la donna italiana vive ancora nei limiti imposti dalla regola perfettamente sintetizzata nel vecchio detto tedesco. La società patriarcale (il dominio assoluto del maschio) resiste con tenacia ai mutamenti dei rapporti sociali ed umani che germogliano fra le ciminiere della rivoluzione industriale. Una resistenza che non è soltanto del mondo contadino (il quale è attaccato alla sua organizzazione poiché essa è funzionale ai modi e ai tipi di produzione): tenace difensore delle sue prerogative patriarcali è anche l'operaio, pur essendo egli protagonista di un momento evolutivo politico-economico-sociale nel futuro del quale la donna ha - non soltanto per ragioni etiche ma anche per necessità produttiva - un ruolo non più passivo ma decisionale e creativo.
La causa di questa posizione è chiara, anche se nascosta nell'inconscio di massa. Schiacciato, frustrato dal feroce ritmo della fabbrica, costretto a un rapporto di rigida e disumanizzata dipendenza con la nuova gerarchia industriale, l'operaio rifiuta di perdere quel ruolo di "padrone della famiglia" che gli permette di compensare l'avvilimento giornaliero derivato dalla totale subordinazione e spersonalizzazione imposta dalle macchine e dai vari kapò. La miccia che farà scoppiare la prima guerra mondiale già arde, le donne italiane sono pronte a fronteggiare gli immani sacrifici che la Patria - meglio dire il Governo, la classe dirigente - sta per chiedere loro. Ma l'apartheid continua.
Sono ai margini della società, un esercito di soldati "usi a ubbidir tacendo". Non possono esprimere la loro opinione quando ci sono le consultazioni elettorali. Nel 1912 Giolitti è riuscito a imporre il suffragio universale ma dalla legge ha escluso le donne. Possono votare soltanto gli uomini dai trent'anni in su. Anche se sono analfabeti. Giolitti ha espresso l'atteggiamento del Paese;. una donna, pur se diplomata o laureata, non può "capire le cose della politica". Persino Filippo Turati, l'apostolo del socialismo, ha dei tentennamenti, nel 1910, quando l'adolescente movimento femminista spinge il partito a sostenere il riconoscimento del diritto di voto a tutto il popolo italiano: egli teme che "l'irrompere nell'arengo politico delle masse proletarie femminili dalla coscienza politica e di classe ancora così pigra" possa portare a un peggioramento della situazione e ad un arresto di sviluppo nell'evoluzione democratica e sociale.
Quando cominciano a tuonare i cannoni e in centinaia di migliaia di case restano soltanto vecchi e madri con nidiate di figli, la macchina propagandista degli interventisti di tutte le categorie martella sulle "truppe femminili" per galvanizzarle al massimo. Ma si sta bene attenti a non danneggiare il vecchio rapporto gregario. Si arriva anche al ridicolo, come in questa arringa di una esagitata militante futurista, Valentina De Saint Pont: "Si lasci daccanto il femminismo. Il femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. Non bisogna dare alle donne nessuno dei diritti reclamati dal femminismo... La donna deve abbandonarsi all'istinto, stimolare gli uomini alla guerra, alla lotta violenta col gusto sadico della crudeltà, per farsi stuprare dai vincitori e procreare così degli eroi. All'umanità voi dovete degli eroi. Dateglieli!".
Le donne dell'alta borghesia sono entusiaste della guerra: primo perché la loro classe vede nell'esito del conflitto forti vantaggi economici derivanti dall'apertura di nuovi mercati; secondo perché, nella maggioranza dei casi, i loro mariti alla guerra non ci vanno in quanto necessari al fronte interno nella loro veste di tecnici, dirigenti industriali, nobili di grande influenza politica, "padroni delle ferriere". I loro abiti eleganti e infiocchettati spiccano ovunque ci sia qualche adunata di militari (come la partenza di una delle lunghe e tristi tradotte dirette verso "la fronte" del Piave) infagottati nelle divise grigioverdi appena uscite dai magazzini. "...sono molte le patriote che circolano con una cassettina tricolore al collo o in mano, ricordano Giuliana Dal Pozzo ed Enzo Rava ne "Le donne nella storia d'Italia", Teti editore) a fare la questua per i regali da mandare ai soldati, segnando con un nastrino sul bavero chi ha versato. Organizzano anche spettacoli di beneficenza, fiere, lotterie e pesche reali vendendo un bacio, sempre patriottico, a cento lire. I giornali incitano le ragazze che non hanno fidanzato a scegliersi un figlioccio e a fargli da madrina di guerra, sicchè la corrispondenza fra le retrovie e il fronte diventa molto intensa; in realtà la maggior parte delle italiane non sa scrivere e deve ricorrere a qualche amica, al parroco o a uno scrivano pubblico".
Naturalmente i giornali dell'epoca sono interventisti ("Corriere della Sera", "Giornale d'Italia", "Resto del Carlino", appartengono a gruppi di industriali e finanzieri) e fanno il possibile per diffondere entusiasmo bellico anche fra le donne dei ceti inferiori, le casalinghe mogli di operai, le contadine, le mondine che raccolgono riso e reumatismi nelle grandi risaie del nord. Ma fra queste donne non si riesce a far scattare il "gusto della guerra" perché sono donne normali, equilibrate, rese adulte dalla lotta quotidiana per sopravvivere in una realtà fatta di scarso pane, di case umide e miserabili, di lavoro sfiancante (nel 1906, le mondine del Vercellese cantano "se otto ore vi sembran poche/ provate voi a lavorar/ e troverete la differenza/ di lavorar e di comandar").
Sanno che la guerra non è, come dicono i futuristi in preda alla loro isteria di gruppo, "la grande festa della giovinezza, della virilità, dell'energia fisica, il bagno di sangue che rigenera la stirpe", ma soltanto un orrido macello che si lascia dietro fosse comuni o geometrici boschi di croci, mutilati abbandonati alla carità e alla pietà pubblica, orfani, vedove, miseria che si assomma alla precedente. Le donne del popolo rifiutano la guerra e lo dicono da sempre, o lo ridicono ora con i loro vecchi canti di protesta, come questo, proveniente dall'Appennino tosco romagnolo, datato 1905; "Vittorio che comandi il re dei regni/ oh quanta gente mandi a macellar!/ Se vuoi soldati fatteli di legno/ ma quel biondino lasciamelo star".
La paura della guerra esce anche da un altro canto toscano, pressappoco della stessa epoca: "E anche al mi' marito tocca andar/ a fa' barriera contro l'invasore/ ma se va a fa' la guerra e po' ci more/ rimango sola con quattro creature".
Ma queste stesse donne, proprio perché abituate a lottare, proprio perché sono profondamente, atavicamente comprese nel ruolo di custodi della sicurezza e della sopravvivenza familiare, si buttano con coraggio a risolvere le enormi difficoltà che la guerra crea sul fronte interno, nei campi, nelle fabbriche, nel settore dei servizi. Il trasferimento al fronte di centinaia di migliaia di uomini ha lasciato grandi vuoti che minacciano di bloccare, o per lo meno di rallentare fortemente, la vita del Paese: tuttavia la macchina produttiva continua a marciare sotto la spinta di reggimenti di donne che, lasciata la cucina, vanno nei campi ad arare, seminare, raccogliere; nelle fabbriche a manovrare i marchingegni creati dalla tecnica moderna; migliaia e migliaia di donne prendono il posto dei campanari, dei tassisti, dei medici, dei cancellieri di tribunale, dei telegrafisti, dei cantonieri, dei maestri e degli infermieri.
Qualche dato su questo fenomeno che cambia profondamente la "dimensione donna": l'indice della manodopera femminile presente nei campi sale a 6 milioni di unità (e questo dimostra perchè la produzione agricola del periodo 1915-1918 non è mai scesa al di sotto del 90 per cento del totale prebellico); per effetto delle massicce commesse militari che impegnano anche l'industria tessile la percentuale delle operaie aumenta del 60 per cento; negli uffici su 100 impiegati 50 sono donne; le 651.000 donne che già nell'aprile del 1916 lavoravano nel settore dell'industria aumentano, nell'ottobre dello stesso anno, a 972.000, nel gennaio del 1917 salgono a 1.072.000 e superano largamente il 1.240.000 tre mesi dopo; nel delicatissimo settore della produzione bellica la presenza femminile passa da 23.000 unità iniziali alle 200.000.
I codini di vario tipo, i moralisti e sessuofobi di questa o quella confessione, i ginecofobi, assistono a questa "rivoluzione" con profondo orrore. La donna-spazzino va anche bene, per costoro, perchè il ramazzare è un'incombenza "congeniale alla femmina", ma la donna-postino, la donna-tramviere... "santiddio, la prima, dato che le 'donne sono curiose, ti legge la posta, la seconda ti porta a sicura morte e se fa il bigliettaio è certamente una donna di facili costumi che sparge il microbo della lussuria fra i passeggeri timorati".
Tuttavia la gente timorata non si scandalizza di fronte alle notizie, confermate dai militari in licenza, dalle quali si apprende che vengono avviati al fronte anche numerosi plotoni di prostitute incaricate di tener alto il morale dei combattenti. Fra gli osanna dei fanatici, le polemiche dei pacifisti, le querimonie dei pensosi della morale pubblica, le profezie degli strateghi da caffè, malapianta di tutti i tempi, che si elevano dalle varie categorie di parassiti, le donne portano il peso di una situazione che, dopo gli ottimismi iniziali, si presenta sempre più pesante. Una situazione nella quale l'angelo del focolare deve nello stesso tempo assumersi tutte le responsabilità del paterfamilias, oltre quella di accudire ai figli e alla casa, il che vuol dire fare tutto quello che è necessario alla sopravvivenza della sua piccola collettività. La moglie del soldato si trova quindi in una posizione socialmente conflittuale: il sussidio che passa lo Stato non è sufficiente per mangiare, coprirsi, pagare l'affitto, mandare a scuola i bambini e di conseguenza deve lavorare fuori casa, ma lavorare in fabbrica, in campagna o in ufficio significa non riuscire a coprire il ruolo di angelo del focolare.
Per far fronte a queste due responsabilità la maggioranza delle donne italiane impegnate sul fronte produttivo si sottopongono a sacrifici che, a parte il rischio della vita, non sono minori di quelli dei soldati. D'altronde il momento non lascia altre soluzioni. Sussidi e salari aumentano con grande lentezza rispetto al lievitare del costo della vita. Le casalinghe che hanno la possibilità di evitare il lavoro esterno riescono a scoprire sempre nuovi sistemi per mettere qualcosa in tavola che non incida troppo sul bilancio familiare, dalle erbe che si trovano nei prati alle bucce di piselli cotte in modo da renderle "appetitosi". Ma le operaie che fanno otto-dieci ore di fabbrica, o le contadine o le impiegate, hanno i minuti contati e non possono certamente andare a caccia di viveri.
Cominciano così le prime grandi proteste. Più che giustificate se si considera che nel corso della guerra il potere d'acquisto dei salari va dimezzandosi, che casalinghe c operaie si trovano a pagare, nel 1917, 40 lire un chilo di lana che nel '14 si pagava 10 lire, mentre è quadruplicato il prezzo della carne e quintuplicato quello dei fagioli secchi. Si vedono così i grandi scioperi femminili, gli scioperi di quelle masse proletarie femminili che Filippo Turati affermava avere "coscienza politica e di classe ancora così pigra".
Nell'agosto del 1915 le donne fermano le macchine e incrociano le braccia nelle fabbriche tessili dell'alto Milanese, nel novembre successivo succede la stessa cosa nel Novarese. Numerose le astensioni dal lavoro delle risaiole e delle operaie delle manifatture tabacchi. Gli anni di questa guerra che il popolo italiano non ha voluto, come la storia ha definitivamente dimostrato, portano alla ribalta le donne non soltanto per la capacità di dare forza-lavoro ma anche per la dimostrazione di coscienza critica, di capacità di reazione contro uno Stato incapace di dare giustizia sociale, di proteggere imparzialmente gli interessi di tutte le categorie di cittadini.
Le donne che si riversano sotto le finestre dei Municipi a reclamare gli aumenti dei miseri sussidi, che dovrebbero sostituire il salario guadagnato dal marito prima di essere richiamato alle armi, sono le stesse che fanno affollati e aggressivi cortei lungo le strade delle città italiane per protestare contro gli incredibili aumenti dei prezzi, sono le stesse che impongono agli operai delle fabbriche militarizzate di uscire dai reparti per sabotare un lavoro nel quale esse identificava la causa della continuazione del conflitto; sono le contadine, le operaie, le impiegate, quelle donne che si trovano addosso la doppia responsabilità di far sopravvivere la famiglia e di assicurare al Paese rifornimenti alimentari, prodotti industriali, civili e militari di tutti i generi, e tutti quei servizi indispensabili al funzionamento della macchina nazionale.
Sono anni durissimi che le donne italiane superano con una forza morale e una coscienza civile di dimensione tale da poter essere definita eroica senza timore di fare dell'enfasi. Di questo eroismo silenzioso, privo di spettacolarità ma che ha contribuito alla vittoria e alla maturazione civile del Paese, la letteratura postbellica (che ha prodotto fiumi di retorica, creato eroi dal nulla, ha glorificato, giustamente, senza dubbio, le crocerossine di guerra) ha raccontato molto poco ed ha lasciato nella storia un "buco nero" che può essere spiegato soltanto andando a frugare nelle inconsce paure dello scrittore maschio dell'epoca, ancora impastoiato dai tabù della società patriarcale.
Ma, a dispetto della letteratura e del codice civile, alla fine della guerra qualcosa è cambiato nella cultura contadina della vecchia Italia, nell'arcaico costume si vede qualche scucitura. Se dopo la grande battaglia molte donne hanno ripreso il ruolo di gregario senza diritti, molte si sono rese conto che "donna è uguale a uomo" dal momento che hanno dimostrato di essere capaci di amministrare e di garantire la vita della famiglia da sole, di guidare tanto un tram quanto una grande protesta popolare. Da questo momento, da questa presa di coscienza, inizia, sia pur con grande lentezza e non senza dure reazioni, la decadenza della società patriarcale italiana. Ne prende atto Vittorio Emanuele Orlando, liberale, conservatore non sospetto di simpatie "femministe". Nella riunione del consiglio dei ministri del quale è presidente, il 2 aprile 1918 sostiene che, almeno in linea di principio, bisogna riconoscere alle donne il diritto di partecipare alle elezioni.
"Per quanto riguarda il voto - egli dice - ero contrario nel mio libro giovanile, ora sono venuto mutando opinione... Non tanto è mutata opinione, quanto sono mutati i tempi... La donna di tipo patriarcale, figura incapsulata nella famiglia, non aveva bisogno del voto elettorale; il suo voto, se madre, si confondeva con quello del figlio; se figlia con quello del padre; se moglie con quello del marito, Ma ora che, sotto la pressione di una evoluzione sociale sempre più incalzante, abbiamo il fenomeno sociale del lavoro femminile, ora che alle falangi dei lavoratori si aggiungono falangi di lavoratrici, ora dico di aver cambiato opinione".
Qualche anno dopo le parole di Orlando saranno soltanto un ricordo di pochi democratici irriducibili. Una volta al potere Mussolini, duce del fascismo, deciderà di assegnare alla donna il ruolo di "fabbricante" dei legionari che dovranno costruire il "nuovo impero romano". E il processo evolutivo della società femminile entrerà in una fase di stallo. Ma la fiamma accesa dalla Grande Guerra non è spenta. La vittoria arriverà. Ci vorrà un'altra Grande Guerra mondiale, la seconda, che farà cadere il fascismo. Poi, nel 1948, gli italiani avranno una Costituzione democratica. E le donne avranno diritto di voto.
SERGIO CHITI
Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net