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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1918 (21)

Come si combattè questa strana guerra, finita in "Vittoria mutilata",
e la grande delusione al ritorno degli ex combattenti




IL SOLDATO TORNA IN PATRIA
E ADESSO POVER'UOMO?

Un interessante studio sui reduci italiani della Prima Guerra mondiale e sulle
Associazioni degli ex-combattenti nate nel caos della crisi post-bellica

di MARCO UNIA

Alla fine di ogni guerra, in qualsiasi luogo e periodo essa sia stata combattuta, i soldati sopravvissuti fanno ritorno nella loro patria e nelle loro case, dove li attende il trionfo riservato ai vincitori o la tristezza che accompagna i vinti. Anche se il rientro del soldato costituisce un rito che si ripete lungo il corso della storia, ci sono momenti in cui esso assume particolari significati e una speciale importanza storica e politica: uno di questi speciali momenti si ebbe alla fine della prima guerra mondiale e si realizzò nell'Italia del primo dopoguerra.

Prima d'essere un reduce particolare- le cui particolarità osserveremo in seguito- il soldato della prima guerra mondiale fu un combattente speciale, impegnato in un conflitto radicalmente nuovo e diverso rispetto a qualsiasi altro delle epoche precedenti. Diverso fu prima di tutto il modo in cui fu combattuta la guerra del 1915-1918, soprattutto sul fronte occidentale e su quello italiano, che furono teatro dello scontro tra le principali potenze europee dell'epoca, da una parte la Francia, l'Inghilterra e l'Italia, dall'altra la Germania e l'Austria - Ungheria. Queste potenze combatterono la guerra più statica nella storia dei conflitti bellici, caratterizzata dall'immobilità fisica delle truppe e dal persistente equilibrio delle forze in campo. Diversamente da quanto era accaduto in passato, i combattenti non si affrontarono quasi mai in campo aperto, ma combatterono la battaglia dietro le rispettive trincee, le quali altro non erano che un labirinto di fossati protetti da mitragliatrici, sacchi di
sabbia e filo spinato, strutture praticamente inespugnabili se non a prezzo di migliaia di vite umane. La difficile conquista delle postazioni nemiche trasformò così il conflitto in una guerra di logoramento, con lo stabilizzarsi del fronte occidentale lungo trinceramenti ininterrotti dal Mare del Nord al confine svizzero e con il blocco di quello italiano lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso.

Questa nuova modalità di combattimento influenzò la psicologia bellica del soldato, spesso costretto a combattere un nemico invisibile al di là della trincea, costretto a periodi molto lunghi di attesa lungo il fronte, giorni e mesi passati in quel modo sotterraneo e lugubre costituito dai cunicoli scavati nel sottosuolo per proteggersi dal nemico. Il fatto di non poter vedere il nemico ne favorì la spersonalizzazione: non più essere umano dotato di un volto, di un corpo e pertanto percepito come proprio simile e in certa misura come amico, ma sconosciuto e dunque reso oggetto di leggende macabre e di proiezioni fantastiche e assurde; possibilità quest'ultima sfruttata a fondo dalla propaganda sugli opposti fronti, che tratteggiava un immagine terrificante o vile del nemico per rafforzare lo spirito combattente dei soldati. Una propaganda a favore della guerra che si fece sempre più forte e sofisticata negli anni della guerra, perché il perdurare del conflitto e le modalità in cui questo veniva combattuto rendevano sempre più frequenti le defezioni e più difficile il mantenimento dell'ordine nelle trincee.

Era infatti sempre più difficile convincere i soldati a lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche, secondo uno schema di combattimento che nel corso dei mesi e poi degli anni di conflitto non aveva portato altro che ad inutili stragi di uomini massacrati dalle mitragliatrici nemiche, senza che questo sacrifico comportasse alcun vero vantaggio strategico per chi lo conduceva. L'inutile strage, che fu ostinatamente perseguita dai vertici militari, che in quell'occasione dimostrarono di non saper conciliare i nuovi mezzi tecnologici a loro disposizione con le vecchie tattiche di combattimento, fu un fattore determinante per la trasformazione prima psicologica e poi sociale e politica dei reduci. L'aver vissuto in prima persona questa assurda tragedia, l'aver visto uccidere uomini in massa e l'aver dovuto subire ordini che portavo inevitabilmente alla morte, tutto questo influì in modo indelebile sulle coscienze dei veterani.

Anzitutto rese una parte di questi uomini indifferente nei confronti della morte, perché dopo aver assistito allo sterminio di migliaia di compagni nel tentativo, spesso inutile, di conquistare un chilometro di terreno, essi non provavano più alcun sentimento di pietà e di condivisione delle umane sofferenze.
Se fosse possibile entrare nella mente di questi reduci- cosa che parzialmente possiamo fare leggendo i loro diari e le loro testimonianze- ci accorgeremmo che molti di essi non provavano più paura di fronte alla morte, ma non perché dotati del coraggio degli eroi ma perché alienati dalla realtà come automi abituati a combattere senza porsi domande. Se si considera adeguatamente il numero dei morti sul fronte occidentale che ogni nazione dovette subire - si stimano approssimativamente 1.600.000 morti francesi e 1.800.000
morti tedeschi sul fronte occidentale e 250.000 morti e feriti italiani nelle prime quattro offensive dell'Isonzo - ci si rende conto che per i reduci la morte non costituiva più il fatto eccezionale e unico nella vita di un uomo, ma un episodio consueto a cui occorreva abituarsi.

L'indifferenza alla morte fu perciò un fenomeno estremamente diffuso tra i reduci e che ebbe spesso come conseguenza l'affermarsi di comportamenti aggressivi e l'uso di pratiche violente da parte di chi era permeato da questo sentimento. Infatti, se la morte propria e altrui è priva di importanza, l'azione violenta per ottenere qualcosa non trova più limiti nel rispetto della vita altrui. Per una parte consistente dei reduci la guerra fu quindi una palestra dove esercitare i propri istinti violenti e mettere a punto, quasi sempre involontariamente, un'ideologia del potere basata sull'esercizio della forza e della sopraffazione.
Da questo punto di vista è molto interessante osservare i comportamenti e i proclami degli ARDITI, una formazione di ex-combattenti stabilitasi tra coloro che avevano fatto parte di reparti speciali utilizzati per missioni particolarmente rischiose nella guerra del 1915-1918.


Come ha saputo benissimo illustrare Emilio Gentile nel suo testo "Le origini dell'ideologia fascista" la simbologia degli arditi era carica di richiami alla morte e nei discorsi dei membri dell'associazione tornava costantemente il tema dello sprezzo del pericolo e del coraggio, a cui faceva da sfondo una visione elitaria del potere e del comando. Ritornati in patria al sopraggiungere della pace, gli arditi si dimostrarono insofferenti verso le regole del vivere civile e tentarono di conquistare attraverso i mezzi violenti che gli erano propri quei ruoli di prestigio a cui si ritenevano destinati per aver combattuto in guerra.

Non tutti i reduci trassero però da questa esperienza inumana di violenza e di morte le stesse conclusioni e non svilupparono i medesimi comportamenti, seppure nella storiografia italiana si tenda spesso ad associare il fenomeno del reducismo con gli sviluppi del fascismo. Per molti soldati infatti, l'esperienza della morte di massa si incise come un monito indelebile contro ogni pratica di guerra e contro ogni esperienza di violenza, dando origine ad un pacifismo diffuso sia tra i vincitori che tra i vinti. Il desiderio di non ripetere più gli errori del passato e di non lasciarsi coinvolgere in nuovi conflitti si diffuse allo stesso modo in Inghilterra, Francia e Italia, che pure erano uscite vittoriose dalla guerra. Paradossalmente possiamo dire che tale sentimento pacifista, condiviso anche dalla popolazione civile che aveva subito i danni indiretti prodotti dalla guerra, ebbe delle conseguenze che in seguito risulteranno determinanti per l'istaurarsi dei fascismi e nello sviluppo della seconda guerra mondiale.

La ferma volontà di evitare la guerra era così diffusa nella società francese del primo dopoguerra e in parte anche in quella inglese che i rispettivi governi cercarono con ogni mezzo di evitarla, anche a costo di lasciare a Hitler quegli spazi di manovra in politica estera e interna che resero possibile una ripresa della potenza bellica tedesca. Ancor oggi è infatti condivisibile la critica di Churchill, che accusò i governi anglo- francesi di essere troppo accondiscendenti verso la Germania nazista e di favorirne in tal modo le mire aggressive. A proposito degli accordi di Monaco del 1938, che sancivano l'annessione forzata del territorio dei sudeti alla Germania ( territorio che rientrava sotto il controllo della Repubblica Cecoslovacca), lo statista inglese commentò infatti profeticamente: " Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra."

A ciò si deve aggiungere che numerosi storici francesi hanno ormai riconosciuto il ruolo preponderante svolto dal desiderio di pace e di tranquillità nella resa quasi immediata e senza resistenza dell'esercito e della popolazione civile francese di fronte all'avanzata tedesca: essi preferirono arrendersi ai tedeschi piuttosto che impegnarsi in un nuovo conflitto.
Il diffondersi del pacifismo nel primo dopoguerra, di cui si fecero portatori soprattutto i partiti di sinistra europei, contribuì a screditare la classe politica che aveva condotto il paese in guerra, anche quando essa si era conclusa con una vittoria, come nel caso dell'Italia.
Guardando proprio all'Italia si può osservare come in molti reduci si fosse sviluppata una forte indifferenza, che spesso sfociava in una vera ostilità, nei confronti della vecchia classe politica, responsabile a loro parere non solo di aver condotto il paese in guerra ma soprattutto colpevole di non aver mantenuto le promesse fatte prima e durante il
conflitto. La mancanza di fiducia e l'odio verso le tradizionali forme di governo e le istituzioni venne fomentata in Italia anche dai partiti di massa che si andarono formando all'indomani del conflitto e che cercarono di catturare il consenso dell'opinione pubblica e delle masse dei reduci.

Il partito socialista - che nel primo dopoguerra accrebbe impetuosamente il numero di iscritti e che moltiplicò i suoi consensi nelle elezioni politiche del '19 - accusò la classe dirigente liberale di aver condotto il paese in un conflitto inutile e devastante per le sorti della nazione e criticò pesantemente il nazionalismo e l'esasperato patriottismo a cui contrappose un cosmopolitismo transnazionale su base classista. Tale propaganda, pur contenendo elementi condivisi da ampi strati della popolazione e in particolare dal proletariato urbano e in misura minore dalla popolazione contadina, risultava però piuttosto difficile da accettare alla gran massa dei reduci, in quanto finiva per sminuire e rendere inutile la guerra che essi stessi avevano combattuto e per la quale avevano fatto tanti sacrifici.

Un più ampio consenso incontrarono invece le critiche mosse al governo dai quei movimenti e da quelle personalità che maggiormente insistevano sulla vittoria tradita e sulla corruzione morale della classe politica che approfittava del sangue dei caduti per arricchirsi e prosperare. Com'è noto, il tema della vittoria tradita riguardava l'esito degli accordi di pace di Versailles e la mancata annessione all'Italia della città di Fiume, posta sul confine con l'Istria. Tale battaglia politica ebbe come suo uomo simbolo Gabriele D'Annunzio, il quale giunse ad occupare Fiume nel settembre del 1919 con l'aiuto di reparti dissidenti dell'esercito italiano e grazie al sostegno di molti volontari di estrazione e nazionalità diverse. Tale esperienza, che qui non può essere analizzata nel dettaglio, è però il sintomo anche di un'insoddisfazione latente da parte di molti reduci rispetto agli esiti politici del conflitto, come dimostra la presenza di numerosi veterani nell'esperienza fiumana: in questo gesto infatti si condensa tutta la diffidenza dei combattenti nei confronti della classe di governo, ritenuta incapace di tratte i giusti vantaggi all'Italia della vittoria tanto faticosamente conseguita.

D'altronde questa diffidenza non rappresentava un fatto nuovo e sorto d'improvviso con il ritorno alla pace, ma era già ben viva e presente nella mente dei soldati impegnati al fronte. Nelle trincee erano in molti a sospettare che i cosiddetti imboscati approfittassero della guerra per arricchirsi sulle spalle dei soldati. Come ha saputo ben evidenziare Leed nel suo testo " Terra di nessuno", molti combattenti della prima guerra mondiale erano convinti che i loro compatrioti, e in particolare la classe dirigente, l'alta borghesia e gli industriali, lucrassero sul conflitto per ottenere ricchezza, privilegi e potere. Anche se tale ipotesi meriterebbe un capitolo a parte per essere verificata o smentita nella sua fondatezza, ciò che qui ci interessa è comprendere come la diffidenza del reduce avesse origini lontane, derivate dall'esperienza dal fronte. Ciò spiega inoltre il rancore nei confronti della società tipico di molti reduci e quel potenziale eversivo e rivoluzionario che poi venne sfruttato nella fase iniziale dal fascismo.

Il reduce ritornato in patria, anche se vincitore come nel caso italiano, invece di trovare accoglienza e onori si ritrovava emarginato in una società che di fatto aveva imparato a vivere senza di lui e che anzi guardava con una certa preoccupazione la smobilitazione dell'esercito. Un primo problema legato al ritorno in patria dei soldati era quello del lavoro, perché il reinserimento era ostacolato da due diverse questioni: da una parte infatti le donne, che erano state chiamate nelle fabbriche per sostituire i soldati, non volevano abbandonare l'impiego conquistato (con le possibilità di indipendenza che esso offriva), e al tempo stesso la riconversione dell'industria bellica imponeva una riduzione del numero degli impiegati in settori strategici come quello siderurgico e meccanico. Il problema della disoccupazione e del reinserimento era potenzialmente sovversivo per l'ordine sociale e di ciò era consapevole la classe politica, che tentò di gestirlo rimandando il più possibile e diluendo nel tempo la dismissione degli eserciti, non tanto per esigenze belliche quanto per ridurre l'impatto del fenomeno sociale.

La mancanza di provvedimenti di carattere positivo nei confronti dei combattenti, come ad esempio la mancata assegnazione di terre nel meridione ai cosiddetti contadini-soldato (assegnazione che pure era stata ventilata dalla propaganda durante il conflitto) e i ritardi nell'erogazione di finanziamenti a loro favore, esasperarono gli animi degli ex-combattenti.
La guerra per la quale avevano versato il loro sangue, per cui avevano sacrificato la loro gioventù e in cui avevano dato prova di eroismo non era dunque servita a niente? Di fronte a questa situazione i reduci reagirono in modo diverso, anche se si può dire che in genere tutti furono ugualmente delusi per l'evolversi della loro particolare situazione.

Nell'insieme la maggioranza di essi si convinse di rappresentare la parte migliore e onesta
del paese, costretta a lottare contro una società corrotta e guidata esclusivamente da motivazioni di carattere economico, che i reduci identificavano con la speculazione sulle loro pelle. La società, i borghesi imboscati, le donne e gli anziani che non avevano combattuto rappresentavano per i reduci il mondo vecchio, che non si era rigenerato nella guerra, che per quanto terribile aveva fatto crescere e maturare chi vi aveva partecipato. Il reduce si sentiva una persona diversa rispetto agli altri e sentiva il diritto e il dovere di prendere in mano i destini della nazione per risollevarla economicamente ma soprattutto moralmente. Si trattava di aspirazioni comprensibili e in molti casi animate da un sincero spirito patriottico, ma che si prestavano facilmente ad una manipolazione di carattere politico e demagogico.

Molti partiti e movimenti del primo dopoguerra cercarono di sfruttare il malcontento dei reduci proponendosi in qualità di loro interlocutori, nella speranza di conquistare un elettorato che era numericamente molto consistente. In questa impresa ebbe un discreto successo Mussolini, anche se nei primi anni esso non si tradusse in fortune elettorali. Mussolini fu abile nel dar voce e nel fomentare il mito delle due Italie, dell'Italia che aveva fatto la guerra e che quindi aveva diritto a governare e dell'Italia che non aveva combattuto, l'Italia ciò dei pescecani e degli imboscati. Appare quindi evidente il tentativo mussoliniano di conquistare il consenso dei reduci, tentativo che era sostenuto anche dalle campagna di stampa del " Popolo d'Italia" di cui Mussolini era il direttore e che dava sempre abbondante spazio alle lettere di protesta dei reduci di guerra.

Alla fondazione del movimento dei Fasci da Combattimento, avvenuta a Milano nel marzo del 1919 presso piazza San Sepolcro, parteciparono non a caso numerosi reduci, anche se il numero complessivo dei presenti era comunque di modeste proporzioni. Con la creazione del movimento sansepolcrita Mussolini cercava di conquistare il consenso dei reduci facendo leva sulla loro delusione e sulla loro rabbia, proponendosi come un'alternativa ai vecchi partiti e assumendo talvolta toni rivoluzionari nei confronti delle istituzioni e della società. Anche se strutturata in modo corretto, tale campagna politica non ebbe nell'immediato un grande successo, come dimostra la storia non certo trionfale del movimento sansepolcrita e i primi risultati elettorali del partito fascista che ne rappresentò l'evoluzione: tuttavia essa agirà con maggior successo sul lungo periodo, diventando uno dei cardini di quella che taluni storici hanno definito come l'anima sovversiva del fascismo.

Viene però spontaneo domandarsi come mai Mussolini non riuscì a conquistare immediatamente il consenso dei reduci, pur avendo condotto una campagna politica incentrata su temi e aspirazioni a loro molto cari. Tralasciando una spiegazione legata alla mancanza di adeguate strutture organizzative da parte del movimento di Mussolini - problema che certo vi fu ma che non riguarda quella psicologia del reduce che ci proponiamo qui di analizzare - bisogna invece concentrare la propria attenzione su quel rifiuto della politica e dei partiti che fu proprio della mentalità degli ex-combattenti.
Anche se la retorica dell'antipartito fu un altro tema caro a Mussolini e caratteristico degli esordi del fascismo- si ricordi la reticenza di diversi membri storici del movimento ad accettarne la trasformazione in partito- nel caso dei reduci si può supporre che questo sentimento giocasse a sfavore di Mussolini, favorendo maggiormente l'aggregazione dei reduci in associazioni piuttosto che intorno a movimenti e a partiti.

Disillusi dal comportamento dei partiti e del governo in particolare, molti reduci preferirono aggregarsi in associazioni il cui scopo iniziale e primario fosse quello di ottenere il riconoscimento delle loro spettanze, senza impegnarsi in progetti politici di vasta portata ai quali spesso guardavano con indifferenza o con ostilità. Tale atteggiamento era determinato in parte dalla composizione sociale della massa dei reduci, che proveniva in gran parte dalla classe contadina, da sempre poco propensa alle trasformazioni della società e orientata molto più in senso conservatore che in senso rivoluzionario. Un'ulteriore analisi della composizione sociale dei reduci rivela la presenza di una maggioranza meridionale, cioè da regioni a scarsa partecipazione politica e in cui la politica stesa era percepita soprattutto come rapporto di clientelare con il notabile locale.
Inoltre, a rendere più facile il costituirsi in associazioni da parte dei reduci piuttosto che nel trasformare il loro risentimento in attivismo politico, fu un altro caratteristica che essi ereditarono dalla guerra: la vocazione al cameratismo. Come accennato in precedenza, la prima guerra costrinse i soldati a lunghi periodi di permanenza immobile lungo la linea del fronte, trasformando il conflitto da momento di aggregazione temporanea in una quotidianità che riprendeva, deformata e trasformata, la quotidianità della vita civile. La
particolare forma di conflitto imponeva ai soldati una socialità forzata, ma che spesso non fu avvertita come tale ma anzi come unico fattore positivo della guerra. La vita del soldato di trincea era scandita da incombenze tipiche della quotidianità civile- procurarsi gli alimenti, cucinare, mangiare, riposare, adempiere alle proprie incombenze- trasposte però in un diverso contesto geografico e finalizzate a scopi bellici ed eterodiretti. L'assurdità di questa convivenza nella guerra non impediva tuttavia lo sviluppo di un forte legame sociale con i compagni di reparto, ma finiva anzi per favorirlo.

Come raccontano le pagine di tanti romanzi e diari di scrittori italiani, da Corrado Alvaro a Emilio Lussu a Carlo Gadda, l'esperienza della guerra favorì la coesione e l'unione tra i soldati, anche in ragione dell'uguaglianza di fronte alla morte e alla necessità di restare uniti di fronte al pericolo. In questi termini si può spiegare il forte cameratismo che legò i soldati al fronte e che continuò a farsi sentire nei comportamenti e nella mentalità dei veterani all'indomani della guerra.
Il raggrupparsi intorno alle associazioni di ex-combattenti fu dunque un modo per mantenere vivo tale sentimento di fraternità che era nato sul fronte, continuando quella contrapposizione tra mondo del soldato e mondo civile in cui si era in qualche modo scissa la realtà mentale del combattente.
Una volta comprese le ragioni che favorirono lo sviluppo delle associazioni dei reduci, che furono particolarmente forti e numerose nell'Italia del dopoguerra anche per la particolare fragilità delle istituzioni democratiche e per le trasformazioni politiche che si stavano realizzando, è opportuno osservare più da vicino lo sviluppo di alcune di esse per meglio comprenderne il ruolo sociale e politico che ebbero all'indomani del conflitto

Le associazioni italiane degli ex-combattenti

Tra le numerose associazioni sorte nel primo dopoguerra la più importante, in termini di iscritti, di peso politico e di durata fu certamente l'Associazione Nazionale Combattenti, in sigla ANC.
L'ANC nacque grazie all'iniziativa del comitato dirigente dell'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra (in sigla ANMIG), che a partire dalla fine del 1918 iniziò a progettare la creazione di un'organizzazione che si occupasse specificamente dei reduci e del loro reinserimento nella società. La derivazione dall'ANMIG costituì un punto di forza per la nascente associazione dei reduci, perché le permise di appoggiarsi su una struttura organizzativa capillare e già consolidata, dato che l'Associazione Mutilati e Invalidi era operante in Italia sin dai primi mesi di guerra.
Data la stretta correlazione tra le due associazioni e tra i due gruppi dirigenti, non è facile stabilire con precisione la nascita e l'inizio di un corso autonomo dell'ANC, che tende per un certo periodo a confondersi con quello dell' ANMIG: tuttavia, il mese di novembre del 1918 può essere considerato come un momento estremamente importante per la nascita dell'ANC.

Il 4 novembre 1918 infatti si riunisce a Milano il Comitato Centrale dell'AMIG, decidendo la redazione di un "Manifesto al paese", nel quale si esprimono le considerazioni dell'associazione sulla guerra appena finita e soprattutto sulla futura ricostruzione e sul rinnovamento dell'Italia che ne deve seguire. Il programma - dai tono e dai contenuti moderati rispetto ai molti manifesti incendiari che circolano nello stesso periodo in Italia - auspica un rinnovamento politico e morale del paese, celebra i meriti dei combattenti e chiede che essi abbiano, oltre alla dovute ricompense per i sacrifici patiti, un ruolo centrale nella ricostruzione del paese. Il manifesto insiste in particolare sull'autonomia dei combattenti da qualsiasi partito politico e da qualsiasi governo, perché " chi ha per tre anni e mezzo dato il suo braccio e il suo sangue e il suo dolore alla causa della giustizia e della libertà non vuole e non deve, quando l'ora della libertà è suonata, ridiventare strumento delle forze del passato, prestarsi al salvataggio e alla conservazione dei partiti e degli interessi che hanno avuto in loro balia l'Italia di ieri".

Da queste e da simili considerazioni nasce quindi l'esigenza di creare un organizzazione autonoma dei combattenti, che inizia a prendere forma a partire dal 12 novembre, quando il Comitato Centrale dell'ANMIG comunica "le norme provvisorie per la costituzione dell'Associazione Nazionale Combattenti", invitando tutti i combattenti a riunirsi in questa nuova associazione, che inizialmente utilizzerà gli spazi e i locali della stesso ANMIG e di cui si dovranno costituire in breve tempo un Comitato Centrale.
A seguito di questa comunicazione si iniziano a sviluppare tra il dicembre 1918 e il gennaio 1919, le prime sezioni dell'Associazione Nazionali Combattenti, con sedi a Torino, Parma, Bari e Pisa, a cui se ne aggiungono nel giro di pochi mesi una sessantina,
diffuse soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia e Toscana e quasi del tutto assenti nel sud Italia.

La lentezza dello sviluppo dell'ANC nel sud non deve tuttavia trarre in inganno, perché determinato da questioni di arretratezza organizzativa piuttosto che da disinteresse verso l'associazione, che infatti a partire dal marzo 1919 aumenterà enormemente i propri consensi, trovando nei contadini meridionali la base più numerosa di iscritti e simpatizzanti. Sempre nel marzo del 1919 si tiene a Milano una riunione nazionale con i rappresentanti di una trentina di sezioni, che decidono di indire per il maggio dello stesso anno il primo congresso nazionale da tenersi a Roma ed eleggono un Comitato Centrale provvisorio composto da quindici membri.
Prima di seguire i successivi sviluppi dell'ANC occorre però fare un passo indietro, per seguire la nascita delle altre associazioni di reduci che si svilupparono in Italia nel primo dopoguerra e che svolsero un ruolo antagonista rispetto alla costituenda ANC.

Una di queste associazioni fu la Lega proletaria, sorta anch'essa nel novembre del 1918 a Milano in chiara contrapposizione con la stessa ANC, accusata d'essere un'organizzazione borghese creata per contrastare le organizzazioni dei lavoratori attraverso lo sfruttamento della buonafede dei reduci. La finalità della Lega proletaria, così come viene espressa sulle pagine dell'Avanti, è dunque quello di impedire che " la borghesia, lo stato e i padroni (il che è tutt'uno), possano in tutte le questioni relative al collocamento, ai salari, alla rieducazione e all'impiego specifico dei lavoratori mutilati o semi-invalidi scavalcare le organizzazioni del lavoro…" ed era compito della Lega ricordare che il problema dei reduci è "un problema spiccatamente di classe" e come tale doveva essere risolto.
Lo stretto collegamento tra organizzazione dei lavoratori (CGL) e Lega proletaria, il richiamo costante alla lotta di classe e i legami strettissimi con il Partito socialista non favorirono però lo sviluppo di quest'associazione di reduci. Gli steccati ideologici rendevano infatti difficile accogliere all'interno della Lega i rappresentanti della piccola borghesia- che pure era stata molto danneggiata dalla guerra- mentre il rapporto stretto con il PSI risultava controproducente per le posizioni di intransigente pacifismo e di denuncia del conflitto assunte dal partito: alla gran parte dei reduci non faceva infatti piacere sentire denigrare una guerra per la quale avevano speso il loro valore e il loro coraggio, anche se in linea di massima potevano condividere alcune delle critiche mosse dai socialisti ai governi e agli esponenti dell'interventismo.

Questi problemi non impedirono però alla lega di svilupparsi in maniera abbastanza rapida a partire dalla prima metà del 1919, con la nascita di sezioni in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Emilia, in Toscana. La Lega svolse un'intensa attività a favore dei reduci, formulando richieste che erano simili a quelle di tutte le altre associazioni: fornitura del pacco vestiario per gli ex combattenti, polizze di guerra, premio per la smobilitazione e blocco degli affitti. Queste richieste furono appoggiate dall'attività parlamentare di alcuni deputati del PSI, che ottennero buoni risultati pur dovendo far fronte ad una latente ostilità del governo, che privilegiava le organizzazioni apartitiche come l'ANC che non costituivano una minaccia per la pubblica sicurezza.
In realtà la Lega Proletaria, nonostante il tono vagamente insurrezionale dei suoi proclami non mise mai in atto pratiche rivoluzionarie, ma si limitò a svolgere un' azione di rivendicazione dei diritti dei combattenti, ricorrendo talvolta anche ad azioni di pressione e di protesta di origine sindacale, come scioperi o manifestazioni di piazza.
A partire dal 1920 la sua importanza andò declinando, perché essa fu vittima delle pressioni e delle azioni violente messe in atto dal movimento fascista nei confronti di tutte le organizzazioni di sinistra.
Un'altra associazione di un certo peso in Italia, che pure iniziò la propria attività con un certo ritardo rispetto alle altre, fu quella dell'Unione Reduci, organizzazione di matrice cattolica.

Il ritardo nella creazione di questa fondazione fu determinato dall'atteggiamento incerto che i cattolici in genere e il Partito Popolare nello specifico tennero nei confronti dei reduci. I popolari diedero inizialmente un tiepido appoggio all'ANC, che nel momento della sua creazione sembrava orientata a mantenere un atteggiamento apolitico e rispettoso delle istituzioni, che ben si adattava alle scelte politiche dei cattolici, che non volevano la politicizzazione dei reduci. Ma il crescente peso politico dell'ANC e le sue dichiarazioni anticlericali, così come la nascita della Lega Proletaria, convinsero i cattolici a creare l'Unione dei Reduci di Guerra, il cui primo congresso si tenne a Roma tra il 17 e il 20 ottobre del 1919. Durante il congresso vi furono prese di posizione molto critiche nei confronti dell'ANC, accusata appunto di politicizzare i reduci e, in contrapposizione a tale atteggiamento, si decretò la completa apoliticità dell'Unione Reduci, che in realtà era un proclama assai discutibile, visto lo stretto legame con il Partito Popolare.

Pur partendo con un consistente ritardo rispetto alle altre associazioni, l'Unione seppe
guadagnarsi a partire dagli anni '20 un certo consenso soprattutto nel Mezzogiorno e riuscì a sopravvivere per qualche anno alla svolta autoritaria impresso dal regime fascista.
Oltre alle tre principali organizzazioni già citate, nell'immediato dopoguerra sorsero in Italia numerosissime associazioni di reduci, la maggior parte delle quali ebbero però vita breve e scarso peso politico.
Tra queste è da ricordarsi ANRZO (associazione nazionale reduci zona operante) che ebbe sede a Torino e che si sviluppo soprattutto in Piemonte. L'associazione fu una delle prime del genere in Italia, essendo nata già nell'aprile del 1917, ma non riuscì ad organizzare una valida rete organizzativa, rimanendo confinata all'interno di poche regioni in cui aveva storicamente ottenuto un discreto consenso. La storia dell'ANRZO a partire dal 1919 si caratterizza per il rapporto con l'ANC, che alterna fasi di riavvicinamento e proposte di fusione con momenti di forte critica e presa di distanza: la storia dell'ANRZO terminerà di fatto con la fusione nell'ANC negli anni '20.

Altre associazioni si caratterizzarono invece per il tono di forte polemica e di contrapposizione con il partito socialista, polemica che fu così forte da caratterizzare queste associazioni più come movimenti antibolscevichi che come gruppi di ex combattenti. Tra queste si può citare l'Unione Nazionale tra soldati e ufficiali (UNUS) e l'Associazione Nazionale Volontari di Guerra.
Altrettanto carente sotto il profilo organizzativo ma ben più importanti per l'influenza esercitata sulla società civile e sul movimento combattentista fu l'associazione degli Arditi d'Italia, a cui si è già fatto accenno in precedenza. Gli arditi furono in Italia i primi sostenitori di una "aristocrazia del combattentismo" (così definita nel già citato saggio di Emilio Gentile), che mirava a distinguere l'esperienza di guerra delle masse da quella eroica di un ristretto gruppo di combattenti. Tale distinzione tra masse passive e ubbidienti e uomini superiori destinati a grandi imprese era la base ideologica su cui gli arditi fondavano il loro programma per l'Italia del dopoguerra.

Secondo gli arditi era infatti necessario che le ristrette elites di combattenti, il cui spirito si era plasmato nelle imprese e nei pericoli della guerra, assumessero un ruolo politico di primo piano nella società e nella politica italiana. Se da un punto di vista strettamente politico tale progetto risultò fallimentare, perché essi non riuscirono mai a conquistarsi il consenso dei reduci, la loro simbologia e i loro slogan furono ripresi e ampiamente utilizzati dal nascente fascismo, sia quello dei Fasci da Combattimento sorto nel 1919 sia da parte dell'anima sovversiva del Partito Fascista costituitosi nel 1921.

Il mito della giovinezza piena di vigore e coraggio contrapposto alla vecchiaia "borghese" preoccupata esclusivamente di conservare l'agio e la sicurezza ebbe largo successo soprattutto tra le generazioni più giovani desiderose di assumere un ruolo attivo nella trasformazione del paese; e altrettanto successo ebbe presso i giovani l'esaltazione dell'azione, dell'agire contrapposto alla statica discussione, slogan ripreso più volte da Mussolini per descrivere l'ideologia del primo fascismo e utilizzato come arma politica per denunciare quelle che a suo dire erano "sterili verbosità parlamentari".

Ancora più importante, per influenza esercitata sul fascismo, fu la ripresa dello stile di vita dell'ardito, che si caratterizzava per l'uso spregiudicato della violenza, per la mancanza di rispetto delle norme del vivere civile, per l'insofferenza per ogni forma di limitazione della propria volontà individuale: un mito del guerriero che seppe esercitare la sua influenza soprattutto sulle generazioni che non avevano combattuto la guerra.

Nella storia del combattentismo del primo dopoguerra un ruolo simile a quello degli arditi fu svolto dal movimento futurista, che pur non costituendosi in associazioni per la difesa dei reduci seppe influenzarne l'ideologia e i progetti politici. Il futurismo politico e l'arditismo si incontrarono in primo luogo sul piano del nazionalismo, di cui furono fervidi sostenitori e che li vide uniti nel criticare violentemente il pacifismo internazionalista di matrice socialista.
Molte delle manifestazioni patriottiche del primo dopoguerra furono egemonizzate dall'unione tra arditi e futuristi, che spesso contribuirono a trasformarle in manifestazioni violente e aggressive, come avvenne nel 1919 a Milano con l'assalto alla redazione del giornale socialista "L'Avanti". Come gli arditi, anche i futuristi utilizzavano metodi di lotta squadrista, basati su aggressioni fisiche contro gli avversari e contro le strutture delle organizzazioni politiche, modalità di "lotta politica" di cui il fascismo fece ampio uso a partire per affermarsi sulla scena italiana ( si pensi alle origini del fascismo agrario).

Il legame tra fascismo e futurismo politico si tradusse anche concretamente sul piano dell'organizzazione, perché i Fasci da Combattimento istituiti da Mussolini si appoggiarono e si unirono ai Fasci politici futuristi, che erano stati precedentemente fondati e che disponevano già di alcune strutture da mettere a disposizione del movimento. Si trattò di un reciproco riconoscimento di interessi comuni, perché i futuristi videro in Mussolini "l'uomo nuovo che il futurismo ha pensato e adora", mentre Mussolini riprese molti elementi del programma futurista per illustrare il programma dei Fasci da Combattimento. Ma, con la costituzione dei Fasci del 1919 - insieme con la presa di Fiume da parte di D'Annunzio e con i congressi dell'ANC del giugno 1919 e quello successivo del 1920 - inizierà una nuova stagione del combattentismo in Italia e si chiuderà la prima fase del dopoguerra. Di questo periodo ci occuperemo.....

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