1887- 1900
Liberismo e |
in breve
La scelta di proseguire una politica doganale liberista, peraltro in vigore da 10 anni nel Regno di Sardegna, accrebbe gli scambi commerciali con l'Europa, ma danneggi� gli impianti di notevoli dimensioni, tecnologicamente pi� arretrati, e le industre meridionali, le quali, dopo decenni di protezionismo, si trovarono improvvisamente esposte a un'agguerrita concorrenza internazionale. Nell'insieme la politica delle "porte aperte" si rivelava poco efficace, incapace di promuovere una modernizzazione dei settori produttivi affinch� potessero competere in un libero mercato con paesi ben pi� avanti nel processo d industrializzazione e pi� ricchi di materie prime.
La politica economica dell'et� della destra fin� per favorire soprattutto gli interessi dei proprietari terrieri, grazie ad una politica doganale che incentivava in particolare modo le esportazioni di prodotti agricoli e ad una fiscalit� assai permissiva nei confronti della grande propriet� fondiaria mentre era implacabile nei confronti dei redditi industriali, commerciali e professionali e addirittura punitiva dei consumi popolari (il massiccio ricorso all'imposizione indiretta tocc� il suo apice nel 1868 con l'introduzione dell'imposta sul macinato).
La scelta del libero scambio fu pagata dall'agricoltura e dai consumi delle zone pi� arretrate. L'Italia era allora paese prevalentemente agricolo e per esso il libero scambio si traduceva in esportazione di prodotti agricoli e importazione di prodotti industriali. In realt� se ne avvantaggiavano solamente le produzioni agricole specializzate, rivolte all'esportazione (il mercato dei cereali era occupato dai grandi paesi produttori e l'Italia, non essendo autosufficiente, era tra i maggiori importatori).
Negli anni ottanta, a vent'anni dall'unit� nazionale e dopo una lunga fase di liberismo intransigente, il livello dello sviluppo economico appariva ancora insoddisfacente. Allo scopo di incentivare la crescita occorreva una decisa svolta verso una pi� rapida industrializzazione, tanto pi� di fronte alla crisi agraria che veniva manifestandosi in diversi paesi europei. In assenza di una iniziativa privata, toccava allo Stato agire come fattore propulsivo, introducendo nella struttura industriale elementi di dinamismo su cui fondare lo sviluppo successivo.
Adottando la tariffa generale del 1887 e aumentando il dazio sul frumento, Depretis, per l'ottava e ultima volta a capo di un governo, decideva di affrontare le difficolt� dell'industria e della cerealicoltura nazionali tramite una consistente protezione doganale.
* Le difficolt� derivavano in parte dalla crisi agraria in atto su scala europea nel periodo 1880-1894 e in parte dalle condizioni di arretratezza dell'economia italiana.
* La tariffa esentava da dazio la maggior parte delle materie prime utili all'industria e colpiva le importazioni di frumento, zucchero, di minerali, alcolici, caff� e altri prodotti coloniali;
* Dazi protettivi sulle importazioni salvaguardavano quasi l'intera produzione industriale, ma in particolare quella tessile e siderurgica.
La scelta protezionistica rinsaldava su nuove basi l'alleanza fra agrari e borghesia industriale del Nord che si era stabilita in seguito al processo di unificazione. Stabiliva anche le basi di una alleanza dei gruppi capitalistici agrari e industriali del Nord con i settori del latifondo meridionale. Infatti, mentre le tariffe protettive sui manufatti testimoniano una accresciuta influenza politica della borghesia industriale, il dazio sul grano andava incontro agli interessi della propriet� terriera, impegnata principalmente nella cerealicoltura (in particolare veniva avvantaggiata la grande propriet� assenteista).
Richiesto tanto dai proprietari del nord quanto dai latifondisti del sud per superare la concorrenza nordamericana e russa, nei fatti il dazio sul grano venne messo a frutto solo dalle aziende agricole della Val Padana, le quali utilizzarono l'incremento di reddito per introdurre nuove tecniche e superare pi� rapidamente le forme tradizionali di conduzione.
Gli economisti dellepoca e poi gli storici hanno discusso a lungo sul ruolo svolto dal protezionismo nello sviluppo economico italiano, concordando per lo pi� nellattribuirgli una funzione essenziale per laffermazione e il consolidamento di alcune attivit� industriali. Esso per� ebbe anche risvolti negativi per leconomia nel suo complesso, in quanto sacrific� le colture specializzate dellItalia meridionale, private, in seguito alle ritorsioni francesi, della possibilit� di esportazione in Francia.
I giudizi fortemente critici verso la politica protezionistica espressi in campo liberista (ricordiamo le tesi di Luigi Einaudi e Epicarmo Corbino) sono stati ampiamente condivisi da studiosi di varia formazione, compresa quella marxista (Emilio Sereni).
Il protezionismo � stato generalmente ritenuto la causa del moltiplicarsi di squilibri tra settori produttivi e aree geografiche, ed � stato addotto a riprova dellassalto portato allo stato liberale da parte di gruppi di interesse particolare, spesso in contrasto tra loro, e di come questo assalto avrebbe conferito allintervento pubblico un carattere di scarsa coerenza. Alcuni studiosi hanno invece sottoposto a severa critica non lintroduzione di tariffe protezionistiche in quanto tale, giudicata di per s� legittima, ma la scelta delle produzioni da proteggere. Questultima infatti avrebbe finito col favorire settori inefficienti o costosi, quali il tessile e la siderurgia, a scapito di settori pi� dinamici e capaci di svolgere un ruolo trainante, come quello meccanico. Lintervento dello stato, viene giudicato sporadico e irrazionale, tale che avrebbe creato inceppi pi� che impresso slanci allindustrializzazione.
Pi� recenti indagini, basate sui tassi di crescita dellindustria meccanica e chimica e sui trattati commerciali, tendono infine a mettere in dubbio il fatto che il protezionismo abbia avuto davvero effetti negativi sullo sviluppo economico.
Oggi �, in generale, largamente condivisa una considerazione pi� realistica dellimportanza del ruolo giocato dallo stato nel processo di industrializzazione di un paese come lItalia che, mancando di adeguati capitali agricoli e commerciali, del relativo risparmio e della capacit� di iniziativa privata, non era nelle condizioni di ripercorrere il modello di sviluppo inglese. Il caso italiano ripropone la centralit� dello stato nello sviluppo dei paesi che sono giunti secondi alla rivoluzione industriale.
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