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20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
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STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNO 1831-1832
LA RESTAURAZIONE IN ITALIA CENTRALE
E GLI ALTRI STATI
( nei due anni 1831 -1832
)
PARTE
TERZA
IL GRANDUCATO DI
TOSCANA - FERDINANDO II RE DELLE DUE SICILIE
PIEMONTE: IL MANIFESTO DI GIACOMO DURANDO
MORTE DI CARLO FELICE - CARLO ALBERTO SUL TRONO - LE ASPETTATIVE
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IL GRANDUCATO DI TOSCANA
Nel granducato di Toscana, ad AURELIO PUCCINI era successo nella presidenza del Buon Governo TORELLO CIANTELLI, uomo molto severo, nemico d'ogni novità, creatura del Metternich, che lo faceva sorvegliare e consigliare dal conte di SAURAU, ambasciatore austriaco a Firenze presso il Granduca Leopoldo II.
Il CIANTELLI, nel 1830, aveva soppresso l'"Indicatore livornese" ed aveva confinato a Montepulciano per sei mesi FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI per aver pronunciato all'Accademia un'orazione sul generale napoleonico COSIMO DEL FANTE, morto in Russia nel 1812.
Questo rigore del Ciantelli era inopportuno perché nella Toscana - se si eccettua Livorno, dove il Mazzini aveva fondato una Vendita, e Pisa, la cui università era un vivaio di giovani scalpitanti - regnava la più gran tranquillità e i non molti liberali, specie quelli di Firenze, erano di tendenze moderate, quindi contrarie alle congiure e alle violenze.
Avrebbero voluto trascinare pacificamente il Granduca nella via delle riforme e quando ebbero notizia della rivoluzione francese del luglio 1830 idearono un piano, davvero ingenuo, per persuadere il sovrano a seguire le nuove idee.
LEOPOLDO II si trovava allora a Vienna. Avvicinandosi il suo ritorno, i liberali più influenti, quali GINO CAPPONI, COSIMO RIDOLFI, PIER FRANCESCO RINUCCINI, GIOVANNI GINORI, VINCENZO SALVAGNOLI, stimolati da GIOVANNI LA CECILIA, PIETRO GIORDANI e GIUSEPPE POERIO, pensarono di accogliere il Granduca con grandi dimostrazioni di gioia a poca distanza da Firenze, sperando che le accoglienze festose del popolo lo avrebbero indotto a divider la sovranità.
Il disegno non riuscì ad essere effettuato perché i ministri, i quali prima avevano dato il consenso, proibirono poi ogni dimostrazione, temendo che ci fosse sotto qualche cospirazione politica. Il Granduca espresse il desiderio che il denaro raccolto per le feste fosse devoluto a beneficio delle zitelle, e il Ciantelli espulse come perturbatori il La Cecilia, il Giordani e il Poerio.
Dopo questo tentativo abortito, il CAPPONI e gli altri liberali moderati si misero in disparte e cominciarono invece a muoversi gli uomini d'azione, fra cui il GUERRAZZI, spinti dagli emissari dei ducati e delle Legazioni e dal matematico GUGLIELMO LIBRI, giunto in Toscana appositamente dalla Francia.
Per la sera del 3 febbraio - giovedì grasso - del 1831, mentre (com'era nel programma di Ciro Menotti) Modena, Parma e Bologna dovevano insorgere, il Granduca dai liberali fiorentini, mentre quella stessa sera si trovava al teatro della Pergola, doveva più che essere arrestato trattenuto per costringerlo a concedere la costituzione. Ma il progetto, in anticipo sui tempi, fu scoperto della polizia, che inviò al teatro moltissimi agenti; i cospiratori, vistisi scoperti, non si mossero dalle loro case e Leopoldo II, recatosi ugualmente alla Pergola, volle mostrare di non temere nulla scendendo perfino fra il pubblico in platea.
Scoppiata il giorno dopo la concertata rivoluzione nei Ducati e nelle Legazioni, temendosi che i moti si propagassero in Toscana, l'ambasciatore austriaco consigliò il Granduca di richiedere un presidio tedesco; Leopoldo però, che era contrario a qualsiasi intervento austriaco nei suoi domini, non accolse il consiglio, anzi per impedire sconfinamenti inviò alle frontiere dello Stato tutte le sue truppe; e, poiché il paese restava non fornito di forza sufficiente a mantenere l'ordine pubblico, il 22 febbraio fu istituita la Guardia Urbana nelle cui file, in brevissimo tempo, entrò molte migliaia di cittadini.
Questa milizia però, non gradita all'Austria, ebbe breve durata: il 4 maggio il governo ne decretò lo scioglimento con queste parole:
"S. A. I. e R. apprezzando l'esemplare emulazione con cui i Toscani d'ogni ceto hanno fatto a gara nel concorrere alla formazione delle Guardie urbane e locali, ha provata nel suo animo la più gradita soddisfazione. Ha quindi nello stesso tempo dedotta un'ulteriore luminosa dimostrazione del prezioso amore dei suoi fedelissimi sudditi e della civiltà tanto diffusa tra loro da essere certi che i pubblici vantaggi si promuovono nella tranquillità dell'ordine sociale, cui per conseguenza l'onesto accorgimento è portato ad offrire accurata ed efficace tutela. Mentre quest'indole che distingue le popolazioni toscane, S. A. I. e R si compiace di potere ad ogni suo cenno contare sull'attività delle medesime, e sente d'altronde il paterno desiderio di non distrarle senza necessità dalle loro abitudini industriali e domestiche".FERDINANDO II RE DELLE DUE SICILIE
L' 8 di novembre del 1830 (mancavano quattro mesi alla rivoluzione del centro Italia) succedendo sul trono delle Due Sicilie al padre Francesco I, FERDINANDO II lanciò ai suoi sudditi il seguente manifesto:
"Avendoci chiamato Iddio ad occupare il trono dei nostri augusti antenati, in conseguenza della morte del nostro amatissimo padre e re Francesco I, di gloriosa memoria; nell'atto che il nostro cuore è vivamente penetrato della gravissima perdita che abbiamo fatta, sentiamo ancora l'enorme peso che il supremo dispensatore dei regni ha voluto imporre sulle nostre spalle nell'affidarci il governo di questo regno. Siamo persuasi che Iddio, nell'investirci della sua autorità non intende che resti inutile nelle nostre mani, e neppure vuole che n'abusiamo. Vuole che il nostro regno sia un regno di giustizia, di vigilanza e di saggezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne della sua provvidenza. Convinti intimamente dei disegni di Dio sopra di noi, e risoluti di adempierli, rivolgeremo tutte le nostre attenzioni ai bisogni principali dello Stato e dei nostri amatissimi sudditi e faremo tutti gli sforzi per rimarginare quelle piaghe che già da più anni affiggono questo regno.
"In primo luogo, essendo convinti che la nostra santa cattolica religione è la fonte principale della felicità dei regni e dei popoli, perciò la prima e principale nostra cura sarà di conservarla e sostenerla intatta in tutti i nostri Stati e di procurare con tutti i mezzi, l'esatta osservanza dei suoi divini precetti. E siccome i vescovi, per la speciale missione che hanno avuto da Gesù Cristo, sono i principali ministri e custodi della stessa religione, così abbiamo tutta la fiducia che asseconderanno con il loro zelo le nostre giuste intenzioni e che adempiranno esattamente i doveri del loro episcopato.
"In secondo luogo, non potendo esservi nel mondo alcuna bene ordinata società, senza una retta e imparziale amministrazione della giustizia, sarà questa il secondo scopo al quale volgeremo le nostre più attente sollecitudini. Noi vogliamo che i nostri tribunali siano tanti santuari, i quali non devono mai essere profanati dagli intrighi, dalle protezioni ingiuste né da qualunque umano riguardo o interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono eguali, e procureremo che a tutti sia resa imparziale la giustizia.
"Finalmente il ramo delle finanze richiama le nostre particolari attenzioni, essendo quello che dà moto e vita a tutto il regno. Noi non ignoriamo che sono le piaghe profonde che si devono curare e che il nostro popolo aspetta da noi qualche mitigazione dei pesi, ai quali per le passate vertigini è stato sottoposto. Speriamo con l'aiuto e l'assistenza del Signori di soddisfare a questi due oggetti tanto preziosi al paterno nostro cuore, e siamo pronti a fare ogni sacrificio per vederli adempiti. Speriamo che tutti imiteranno, per quanto possono, il nostro esempio alfine di restituire al regno quella prosperità che deve essere l'oggetto dei desideri di tutte le persone virtuose ed oneste.
"Riguardo poi alla nostra armata, alla quale già da diversi anni abbiamo consacrato le particolari nostre cure, siccome con la sua disciplina ed ottima condotta già si è resa degna della nostra stima e particolare compiacenza, così dichiariamo che non cesseremo di occuparci di lei e del suo bene, sperando che dal suo canto che ci darà, in tutte le occasioni, le prove della sua inviolabile fedeltà e che non macchierà mai l'onore delle sue bandiere".
Alla morte del padre, FERDINANDO II aveva 20 anni quando salì al trono, e iniziativamente -come vedremo- era aperto ad una politica innovatrice. Solo dopo assunse un indirizzo reazionario, instaurando un regime poliziesco, isolandosi sempre di più in Italia e in Europa, e dovrà (ma bisogna dire, resistendo fortemente alle prepotenze straniere) durante il suo regno vivere tutti gli eventi del 1848, fino a quelli del 1859 (di cui parleremo molto più avanti).
Questo manifesto del ventenne re -appena salito sul trono- era tutto un programma di governo, e il re cominciò subito ad attuarlo. Volle subito conoscere in tutta la sua realtà, la situazione della tesoreria generale, e per quanto trista fosse, non ne fece mistero. Il deficit era di ducati 4 milioni 345 mila 251. Ridusse le spese della corte, rinunziò ai centottantamila ducati annui del suo appannaggio, abolì le cacce riservate di Mondragone, Persano e Venafro, impose una ritenuta progressiva sugli stipendi di tutti gli impiegati, abolì il cumulo delle pensioni e riuscì così non solo a raggiungere il pareggio fra le entrate e le spese nel corso del suo primo anno di governo -1831- ma anche diminuire della metà il dazio sul macinato (quest'ultimo uno dei principali temi di questo simpatico giovane, per farsi amare da popolo; fra l'altro goliardicamente più che democraticamente non era raro vederlo frequentare le bettole del porto e dei bassi).
Pur così attento al progresso e alla modernizzazione, geloso della propria indipendenza, paradossalmente si chiuse poi in un isolamento politico, il suo regno divenne un governo poliziesco (ma bisogna dire che non mancavano le pressioni e le arroganze straniere) che diventò a lungo andare poi dannoso anche sul piano economico; quindi la causa di tanti fermenti sociali che si assommarono a quelli rivoluzionari verso la fine del suo regno si allargarono a macchia d'olio.
Forse all'inizio pur avendo scatenando qualche entusiasmo liberali, non seppe capire il proprio tempo, e neppure seppe approfittare di certi entusiasmi (come del resto -negli stessi anni- aveva fatto Carlo Alberto in Piemonte).
A partire dal 1837 (a 27 anni) Ferdinando II, iniziò a reprimere con disumana severità tutte le rivolte costituzionaliste e quelle autonomiste siciliane. Si meritò (ma era una bell'orchestrata pubblicità negativa inglese a diffonderla) il titolo di "Re Bomba" o come lo definì lo statista inglese Gladstone una "Negazione di Dio". (forse non potendo mettere le mani sulla Sicilia, come aveva tentato di fare il suo predecessore con Ferdinando I e Maria Carolina (Lord BENTINCK).
Eppure Ferdinando II ristaurò la pubblica finanza, reintegrò la fiducia generale, da far quasi duplicare il corso dei fondi pubblici dal 68 al 118, cosa non mai più verificatasi in alcun altro paese. Soddisfatti i bisogni, compiute opere di nazionale utilità e decoro, riuscì a ben bilanciare le entrate con le spese, anzi ad aumentare le prime assai al di sopra delle seconde. Il gran libro, la cassa di sconto, quella di ammortizzamento furono così mirabilmente regolate, che il Debito pubblico napoletano per le sue operazioni e per la sicurezza raggiunge l'apice del credito europeo, ispirando incrollabile fiducia meglio dei più opulenti Stati.
Non per nulla quel sommo politico della Gran Bretagna, che era Sir Roberto PEEL, quando da primo ministro sostenne il principio del libero scambio, ebbe a pronunziare le memorande parole: "Io debbo dire, per rendere giustizia al Re di Napoli, di aver visto un suo documento autografo, che racchiude principi così veri, come quelli sostenuti dai professori più illuminati dell'economia pubblica."
Ma non era l'unico fra gli uomini più illustri che rendevano giustizia alle reali qualità di Ferdinando II. Cobden, il celebre economista Inglese, si diceva stupefatto dalle sue risposte sul libero scambio; e l'Arciduca Carlo, in visita a Napoli nel 1840, ne ripartiva innamorato della persona e delle qualità del Re; e riceveva pure le più belle impressioni l'Imperatore Niccolò di Russia, quando l'ospitò nel 1847.
Né quanto abbiamo detto all'inizio fu tutto. Appena salito al trono, il coraggioso "ventenne" licenziò il principe RUFFO di SCALETTA, ministro della guerra, accusato di concussione e lo sottopose pure a giudizio, ma, poiché lo scaltro imputato aveva (o millantava) compromettenti documenti che danneggiavano la fama di Francesco I, il processo non ebbe seguito. Il Ruffo non fu il solo ministro congedato; quasi tutti gli altri furono mandati via e i ministeri furono affidati a uomini che godevano la stima del paese. Presidente del Consiglio fu nominato il PIETRACATELLA, alla Guerra fu messo il generale FARDELLA, alle Finanze il D'ANDREA, agli Esteri il principe di CASSARA, all'Interno il marchese TOMMASI.
Il 10 dicembre pubblicò un editto, con il quale annunziava che...
"volendo consacrare per atti di clemenza il suo avvenimento al trono, era venuto nella deliberazione di far risentire gli effetti della sua indulgenza a quelli fra suoi amatissimi sudditi, i quali, per reati politici si trovavano in diversi tempi o condannati o sotto il peso della giustizia o in esilio o nelle isole o incarcerati o privati dell'esercizio delle funzioni pubbliche"; quindi decretava: condonata metà della pena a tutti i condannati per reati politici, la pena dei condannati all'ergastolo ridotta al massimo, commutata in semplice prigionia la pena dei ferri o della reclusione, ridotto a cinque anni. Con quello dell'8 novembre 1830, aveva già abolito l'esilio perpetuo, medesima riduzione per gli esiliati a tempo, abolita l'azione penale per tutti i colpevoli di reati politici, riabilitati coloro che per causa di pubblico interesse si trovavano in stato di prevenzione politica o nelle isole o in esilio o detenuti, fatta però eccezione di alcuni individui; eliminato ogni ostacolo all'ammissione nei pubblici impieghi, riammessi gl'impiegati destituiti, compresi i militari per le medesime ragioni politiche; modificati i regolamenti riguardanti il porto delle armi con il concedere la licenza ai proprietari quando la moralità degli individui e la pubblica sicurezza potevano consentirlo.
Cacciò inoltre i tristi cortigiani, richiamò in servizio il generale FILANGERI e parecchi ottimi ufficiali (ex murattiani)che erano stati allontanati dall'esercito negli ultimi tempi, richiamò dalla Sicilia l'odiato luogotenente marchese UGO DELLE FAVARE e diede la luogotenenza dell'isola al più moderato fratello LEOPOLDO di Siracusa; volle visitare senza seguito e senza sfarzo ma come un cittadino comune, le province per conoscere meglio bisogni dei sudditi; diminuì i pesi dei comuni, diede udienza a chiunque andasse a chiedergli giustizia e in breve si accattivò la simpatia delle popolazioni e specie fra le classi più basse s'acquistò grande popolarità.
Per tutti questi motivi, proprio negli anni in cui ovunque in Italia avvenivano i noti movimenti rivoluzionari, il suo regno si mantenne tranquillo. Anzi i liberali del regno e quelli degli altri stati della penisola ebbero l'illusione, per un momento, che quel giovanissimo illuminato monarca fosse destinato a dare indipendenza ed unità all'Italia.
Ma FERDINANDO II era freddo e calcolatore e seguiva la politica che poteva giovare ai suoi interessi. Volendo evitare di dovere ricorrere all'intervento straniero (e abbiamo abbondantemente visto che mali procurava), dedicava tutte le sue cure all'esercito e alla flotta; volendo togliere ai sudditi ogni causa di malcontento, assestava le finanze e amministrava saggiamente la giustizia; desiderando la stima del popolo, diminuiva gli aggravi, rinunciava agli appannaggi ed assumeva atteggiamenti democratici.
Contemporaneamente lasciava che i carbonari e i moderati lo credessero loro amico e che quelli gli suggerissero, per mezzo del principe di SIRIGNANO, di ristabilire la costituzione del 1820 e questi, per mezzo del ministro di polizia NICOLA INTONTI, lo incitassero a concedere larghe riforme, dando libertà di stampa e istituendo la Guardia civica, un Consiglio di Stato e rappresentanze elettive provinciali.
Intanto (ripetendo così quella difficilissima situazione vissuta da suo nonno omonimo Ferdinando I e nonna Carolina) si barcamenava astutamente tra la Francia e l'Austria che avrebbero voluto attirarlo a sé.
Appena Ferdinando salì al trono, Luigi Filippo per congratularsi con lui gli mandò come ambasciatore straordinario il celebre MONTESQUIEU, latore di una lettera nella quale gli dava il consiglio di concedere ai sudditi un regime rappresentativo.
Anche l'imperatore austriaco (sua nonna Carolina era austriaca) mandò calde congratulazioni al re delle Due Sicilie e per condurlo alla propria politica lo fece sperare in un futuro ingrandimento del regno. Più tardi il METTERNICH incaricava il conte di SEIBZELTERN, ambasciatore austriaco alla corte di Napoli, di adoperarsi per persuadere Ferdinando a stringere una lega offensiva e difensiva con l'imperatore.
FERDINANDO II, che desiderava tenersi indipendente, fece scrivere dal suo ministro degli Esteri all'ambasciatore francese che "i consigli del re dei francesi erano eccellenti ed era pronto a giovarsene all'opportunità; che il suo regno era in piena tranquillità; e se si avveravano i tanto temuti moti di ribellione avrebbe fatto in modo di vincerli con le proprie forze; e in ogni caso non avrebbe accettato, se non con estrema riservatezza e ripugnanza, gli aiuti dell'Austria sempre ingrata ed interessata".
Era una ottima politica, ma sceglierne un'altra non era impresa facile, anche a un consumato sovrano. Lo abbiamo visto, ognuna delle cinque potenze, era gelosa dei successi dell'altra.
Rispondendo alla lettera di Luigi Filippo, diceva rispetto all'Austria: "Sua Maestà l'Imperatore d'Austria mi ha fatto rivolgere dai suoi ministri parole assai lusinghiere: inoltre mi ha sollecitato, come principe italiano, ad entrare in accordi per la conservazione della tranquillità esteriore ed interna della Penisola e del suo presente assetto territoriale. Ma, mentre io non nutro l'ambizione di ingrandire il mio Regno, non soffrirò che altri escano dai limiti che i trattati hanno fissato i limiti per tutti. Io ascolterò ogni cosa che al principe di Metternich piacerà farmi dire, ma agirò sempre in conformità dei sentimenti del mio cuore e degli interessi del mio regno".
D'altro canto, per mezzo del suo ambasciatore a Vienna, assicurava il Metternich che "perdurava nell'attaccamento ereditario alla politica conservatrice dell'Austria, ma che, per il momento, giudicava inutile l'entrare in trattative sulla proposta alleanza, essendo gli avvenimenti in corso non tali da legittimarla, specialmente agli occhi della Francia, la quale inevitabilmente se ne adombrerebbe".
Ma questa sua politica di simulazione e di destreggiamenti (purtroppo necessaria, perché ogni potenza era una incognita - e lo abbiamo visto negli ultimi trenta anni, per non parlare della stessa esperienza fatta da suo nonno, sempre indeciso fra Austria, Francia, Inghilterra) non poteva durare a lungo.
Nel febbraio del 1831, alla notizia della rivoluzione nell'Italia Centrale, esortandolo i suoi liberali a concedere riforme e volendo evitare nel suo stato turbamenti interni e interventi stranieri (come in Emilia, Romagna e Ancona fra l'altro confinante con il suo regno) Ferdinando II dovette prendere una sofferta decisione (altri dicono "togliersi la maschera"), fece circondare la notte dal 13 al 14 la casa dell' INTONTI e, esonerato il ministro dall'ufficio, lo mandò in esilio sotto buona scorta a Vienna.
Quale fosse il vero animo del re (o la paura) mostrò subito dopo la nomina del nuovo ministro dì Polizia. A questo posto il sovrano chiamò il generale FRANCESCO SAVERIO DEL CARRETTO, odiato per la feroce repressione dei moti del Cilento, di cui altrove abbiamo narrato le vicende. Questa nomina diminuì la popolarità del re e disilluse non poco coloro che avevano visto in Ferdinando II il futuro redentore d' Italia, ma non scoraggiò i liberali del regno e non li dissuase dal tentare delle novità.
Nel marzo del 1831 e nei mesi seguenti, congiure di Carbonari, di Filadelfi e di Scamiciati furono scoperte nell'Abruzzo, nelle Puglie, nella Basilicata e nelle Calabrie e parecchie persone furono imprigionate ed esiliate. Il 10 di settembre del medesimo anno, una sommossa di liberali che volevano l'indipendenza della Sicilia da Napoli sotto lo scettro di LEOPOLDO di Borbone, fratello del re e luogotenente dell'isola, fu tentata a Palermo.
Una ventina di persone, riunite nella fossa di S. Erasmo, penetrò in città per porta Termini, guidata dai carbonari DOMENICO DI MARCO e GIROLAMO CORDELLA, avanzò verso la Fieravecchia e percorse parecchie vie e piazze piene di gente, sparando contro pattuglie di polizia e gridando "Viva la Sicilia ! Viva la Costituzione !".
Gli insorti credevano che i cittadini si sarebbero sollevati, invece soltanto una decina di persone si unì a loro, di modo che furono costretti a uscire dalla città e nei giorni seguenti furono arrestati quasi tutti. Il 25 ottobre si chiuse il processo contro di loro: undici furono condannati a morte, due all'ergastolo e diciannove al carcere a tempo. Le condanne furono eseguite il giorno dopo sul piano della Consolazione. DOMENICO DI MARCO, affrontò la morte con coraggio: prima che il tamburo desse il segnale del fuoco, rivoltosi alla folla, esclamò: "Togliete pure i rami, ma il tronco resta".
Nell'agosto del 1832 fu scoperta una trama di carbonari, detta la "Congiura del Monaco" perché a capo ci fu un certo frate ANGELO PELUSO, laico dei Minori riformati, che ebbe al fianco il calabrese DOMENICO MORICI, già capitano del genio, il possidente LUIGI D'ASCOLI, il tenente FILIPPO AGRESTI, il proprietario MICHELE PURCARO di Ariano, il legale FRANCESCO VITALE e l'ex-procuratore generale TOMMASO GAETA.
Questi si proponevano di catturare il DEL CARRETTO e di costringere Ferdinando II a concedere la costituzione del 1820; poi per far proseliti andavano dicendo che i reggimenti erano pronti ad insorgere e che i Francesi sarebbero sbarcati sulle costo della Puglia per aiutare gl'insorti.
L'inizio dell'azione era stato fissato per la notte dal 19 al 20 agosto. Nelle ottimistiche intensioni, da dieci a dodicimila uomini dovevano riunirsi a Monte Taurano, nel territorio di Nola, e quindi marciare su Napoli; ma nel giorno e nell'ora fissata, si ritrovarono solo in ventisette, e di mattino prima ancora di sciogliersi in gran parte furono tutti arrestati.
Il processo, che però coinvolse un'ottantina circa di persone, ebbe termine nel settembre del 1833. Il PELUSO, il D'ASCOLI e il VITALE furono condannati a morte, altri 28 a pene minori. Il sovrano poi commutò le pene capitali in venticinque anni di ergastolo e diminuì pure tutte le altre.
Nel novembre del 1832 Ferdinando II si recò a Genova per celebrare il suo matrimonio con Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I (il re che aveva abdicato, dopo i moti del '21, a favore di Carlo Felice). Sposa che gli morì nel gennaio del 1836 dopo aver dato alla luce l'erede Francesco II (il famoso "Franceschiello" ultimo Borbone a salire al trono napoletano; cacciato proprio dai Savoia -1860).
Durante il soggiorno di Ferdinando a Genova, si fissarono tra i re di Sardegna (da un anno era re Carlo Alberto) e delle Due Sicilie le basi di una convenzione intesa a tenere in rispetto il Bey di Tunisi che aveva abusato del suo potere contro una nave genovese ed alcuni sudditi napoletani.
La convenzione, che doveva rinnovarsi ad ogni quinquennio, fu conclusa nel marzo del 1833; poco dopo, furono inviate due squadre di navi sarde e napoletane nel porto di Tunisi e il Bey, atterrito, diede tutte le soddisfazioni che si vollero.
Era da poco il re ritornato da Genova, quando fu scoperta una nuova congiura, i cui autori si proponevano di uccidere il sovrano che oramai era considerato nemico della libertà. Capi della congiura erano FRANCESCO ANGELOTTI, ufficiale degli Usseri, CESARE, CAMILLO, MARIO e SCIPIONE ROSSAROLL, figli del generale e caporali nel II reggimento della Guardia, VITO ROMANO, sergente dei cavalleggeri della Guardia, ANTONIO e GEROLAMO ULLOA, ufficiali di artiglieria, GIULIO VALLELONGA, tenente dei granatieri e il portabandiera PAOLETTI.
Vito Romano e Cesare Rossaroll, per non cadere nelle mani della polizia, stabilirono di far fuoco con le proprie pistole l'uno sull'altro. Il Romano morì, il Rossaroll rimase ferito e, imprigionato, palesò in un momento di debolezza il piano della congiura e i nomi dei cospiratori. La Commissione stataria il 13 dicembre del 1833 condannava a morte il Rossaroll e l'Angelotti e proscioglieva gli altri per mancanza di prove.
Il giorno dopo, mentre i due condannati salivano il patibolo, il generale SALUZZO annunciava loro che il re commutava la pena capitale in quella di venticinque anni di ferri. Francesco Angelotti fu poi ucciso nel 1839 dai gendarmi mentre tentava di fuggire dall'ergastolo di Procida; Cesare Rossaroll, graziato, morì invece valorosamente combattendo in difesa di Venezia, nel 1849 e meritò dal generale Guglielmo Pepe il nome di "Argante della lagune".
Terminiamo qui per il momento questi primi anni di regno di FERDINANDO II, e torneremo a parlare di lui -e non poco- nei prossimi "Riassunti" fino al 1859, anno della sua morte, ma anche gli ultimi anni più critici del suo Regno; e poi con l' "ultimo atto" nel 1860.
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MORTE DI CARLO FELICE
ASSUNZIONE AL TRONO DI CARLO ALBERTOLa rivoluzione francese del 1830, di cui abbiamo iniziato a parlare in questi ultimi capitoli, seguite dalle agitazioni avvenute in Italia e in altre parti d'Europa, avevano avuto la ripercussione anche in Piemonte. Quella del '21, sollecitati da Carlo Felice, era stata stroncata dagli austriaci, ma questi invece di calmare le acque, con un sovrano sabaudo succube degli austriaci, con le repressioni che erano poi seguite, invece di far diminuire il malcontento, la situazione l'aggravarono. I perseguitati - quelli che riuscirono a sottrarsi alle catture- per non subire processi e peggio ancora per non andare sulla forca erano emigrati in altri Paesi, soprattutto in Svizzera e nella vicina Francia. Ma anche in Piemonte sfidando la repressione, molti di loro erano rimasti.
Proprio a Torino, in questo 1830, d'accordo con il "Comitato dell'emancipazione italiana" che aveva sede a Parigi, raccolti in una setta detta dei "Circoli ", i liberali preparavano il terreno nell'attesa che gli esuli effettuassero la spedizione nella Savoia di cui nelle pagine precedenti abbiamo già accennato.
A capo del movimento segreto erano il romano GIUSEPPE BERSANI, già ufficiale delle guardie del Re, gli avvocati ANGELO BROFFERIO, GIACOMO DURANDO, CARLO GRAZZERA, FELICE MERLO, CARLO CADORNA, il marchese MASSIMO CORDERO di MONTEZEMOLO, i medici SISTO ANFOSSÍ, MICHELANGELO CASTELLI, i sottotenenti ALESSANDRO MASSIMINI, GIOVANNI DURANDO, IGNAZÍO REBOTTI, il chirurgo BALESTRA, il marchese SAN GIORGIO, il cavalier PERRONE, il conte LANZA di Mondovì, il medico ASTIGIANI, i sottotenenti GALLO, BOSCO, CLERICO, DE STEFANIS, LEVAMIS e gli avvocati PINCHIA, BIAGINI, BLACHIER, SAVINA.
Nel febbraio del 1831 essi diffusero parecchie migliaia di copie di un manifesto dettato da GIACOMO DURANDO, stampato dal tipografo GIUSEPPE POMBA e indirizzato a CARLO FELICE (che morirà poi il 27 aprile, lasciando il trono a Carlo Alberto).
(manifesto che riportiamo letteralmente e integralmente):
"Maestà ! - diceva il manifesto che riportiamo, per intero e letteralmente - Una delle più fiorenti regioni d' Europa è da nove secoli il retaggio dei vostri maggiori. La corona che si posero in capo nei giorni dell'ignoranza e della superstizione divenne più risplendente per la fortuna delle armi e la devozione dei Piemontesi. Ma nei rivolgimenti di tante generazioni, in cui la nazione ha fatto tanto per loro, che hanno essi fatto per la nazione? Noi li abbiamo serviti religiosamente, abbiamo mille volte versato il sangue per la loro potenza; ma il loro governo ha sempre mirato a render più alta e più inespugnabile la barriera che ci divideva dalla loro persona. Essi comportarono che il Piemonte avesse una rappresentanza nazionale, finché la libertà popolare parve necessaria all'incremento del loro potere; ma quando si sentirono forti abbastanza da governare da sovrani assoluti, gli Statì generali furono ingratamente disciolti da Emanuele Filiberto.
"Ma i tempi di Filiberto non sono più. La nazione ha ricevuto l'impulso della civiltà generale, e chiede di far parte della cosa pubblica, perché sente il bisogno di sapere, di ragionare, di conoscere se stessa, e di illuminare V. M. sui mezzi migliori per governarla. Voi riduceste il potere in alto e lo poneste in mano di coloro cui l'opulenza serve di scusa all'ignoranza. Ma i lumi si sono sparsi nel popolo, le cognizioni si sono universalmente propagate, gli uomini hanno conosciuto i loro diritti e la M. V. si trova in opposizione con i tempi, con la nazione e con i progressi della società.
"Quando gli uomini non erano che un branco di pecore, cioè quando la vostra casa cominciò a dominare, non era strano che una verga li governasse. Ma l'ora della redenzione è venuta. Maestà ! i vostri sudditi non sono più cose, ma uomini. Il governo del secolo X è inconciliabile con il secolo XIX. I tempi ci hanno spinto innanzi; e ci vietano di retrocedere; a voi tocca seguirci. I vostri cortigiani vi hanno messo agli occhi una benda; spetta alla nazione strapparvela. Udite.
"Il pubblico erario è esausto. Le contribuzioni dirette già soverchiano le risorse territoriali; le indirette sono oppressive, intollerabili; nessun mezzo di scampo vi rimane. Le provvidenze che avete dato riescono infruttuose, e perché ! Perchè il danaro che esce dalla fronte sudata del vostro popolo è prodigato ad impinguare le più alte e più inutili persone dello Stato, perché gli uomini cui voi affidate il sommo dell'economia pubblica sacrificano all'egoismo personale gli interessi della patria.
Con animo di adunare tutto il potere in un sol ceto, avete fatto di un imbecille un economista, di un bacchettone un uomo di guerra, di un ignorante un magistrato, di uno stupido un amministratore. Le finanze non possono pareggiare le spese di un'armata così numerosa, che i raggiri dell'Austria vi fanno credere necessaria, gli uffizi amministrativi intralciati e non bene collegati fra loro sono privi d'unità nelle operazioni e d'intelligenza fra i capi.
"Maestà se invece di accumulare tutti i poteri in una classe sola voi aveste chiamato il consiglio di tutta la nazione, i lumi generali avrebbero riparato a questi mali, e voi non avreste il rimorso d'aver condotto alla rovina lo Stato.
"La pubblica istruzione va sviluppandosi, è vero, ma non grazie al regime universitario. Il vostro governo che vive nelle tenebre ha sempre mosso guerra ai lumi che volevano diradarle. L'istruzione primaria, abbandonata all'ignoranza e all'impotenza dei Comuni, è limitata ai principi d'una lingua inutile alla classe laboriosa; l'educazione tiranneggiata dal gesuitismo; gli studi filosofici ancora involti nella ruggine del monachesimo; gli studi legali disordinati per mancanza di legislazione; l'università condotta da uomini o inetti o stupidi o maligni, non curandosi di un sistema di studi acconcio all'indole dei tempi si è convertita in un tribunale di correzione e di disciplina. I nostri fratelli italiani ci deridono per il dispregio in cui qui si tengono le lettere; gli ingegni più distinti fuggono a cercare un pane altrove; gli uomini più illustri vivono o mendicanti in esilio o disprezzati nel più abbandonato angolo dello Stato.
" Una classe di favoriti ha occupato il monopolio dei diritti e dei privilegi, e fa pesare la sua mano di ferro sulla classe industriosa della società. Le province si lagnano d'esser tribolate dai governatori delle divisioni, i quali, inetti tutti e i più dissennati, fanno i tiranni e governano le città come in un paese di nemici. Le amministrazioni civiche e comunali sono in disordine, colpa dell'indolenza, dell'incapacità e della discordia dei capi. La religione, venuta in mano dei Gesuiti, non è più il precetto del Vangelo predicato dai pastori della pace, si è fatta strumento d'ambiziose voglie e di tenebrosi raggiri.
"Ma, e che si dirà della legislazione? Lo straniero che dalle nostre leggi volesse argomentare della nostra civiltà, sarebbe costretto a dire: "questo è un popolo di barbari".
La legislazione civile ha l'arbitrio per base, quella criminale il carnefice per sostegno. Uno strano ed informe accozzamento di leggi romane, di statuti locali, di costituzioni patrie, d'editti reali, di sentenze senatorie, di consuetudini municipali hanno tolto la bilancia alla giustizia e lasciata la spada al dispotismo dei tribunali. Che giova edificar templi e teatri e non curare la base d'ogni comunanza civile, la legislazione?
" L'armata non ha forza morale perché composta d'elementi fra sé contrari, di corpi privilegiati, di brigate varie tra loro di dottrine, di lingua, di diritti, comandate da capi inabili e promossi non già per merito, ma per favore. Dei militari una parte è avvilita perché si vede preclusa la strada ai gradi maggiori, e tutti sono indignati dei maneggi del vostro governo, il quale medita di trafficare la loro vita con il gabinetto d'Austria. Che sono mai divenuti gli uomini dell'Assietta, di Guastalla, di Casseria? Sono fatti schiavi del machiavellismo austriaco, hanno a loro "capo un emissario" del Nord, che sotto il colore di ordinare le milizie cerca nelle truppe un appoggio per vendere voi e la vostra nazione al comune oppressore. Ma che spera quello dai soldati piemontesi? Il loro nome non si confonderà mai con il nome tedesco: essi sono e morranno italiani.
"Maestà ! ascoltate la voce della nazione. Vi parlano per lei migliaia d'uomini, che amano veramente la patria. Oggi ancora potete risparmiare molti disastri. Sperate voi forse nella calma apparente e negli applausi che ricevete in teatro? Voi camminate su carboni coperti di cenere; il vostro trono è la statua di Nabucco; ha il capo d'oro e i piedi di creta. Si solleverà la nazione oppressa; la rivoluzione è la religione dei popoli oltraggiati; e il Piemonte e tutta Italia non invocheranno più altra divinità, finché i suoi disegni non si piegheranno ad una forma di governo più umana e più popolare.
"Chi vi parla è un popolo vilipeso da nove secoli.
E la voce del popolo è la voce di Dio".
Carlo Felice, mentre inviava il principe di Carignano Carlo Alberto alla testa di un reparto di milizie per fronteggiare la minacciata spedizione degli esuli nella Savoia, ordinava alla polizia di ricercare gli autori del manifesto. Nulla però si sarebbe scoperto se uno dei cospiratori non avesse messo involontariamente la polizia sulle tracce. Il sottotenente IGNAZIO RIBOTTI, recandosi a Nizza a scopo di propaganda, dimenticò in un albergo del Colle di Tenda il portafoglio con alcune carte compromettenti, fra cui alcune copie del manifesto e delle annotazioni di suo pugno. Il Ribotti, arrestato e condotto al cospetto del suo colonnello, fu costretto a confessar tutto quello che sapeva.
Conseguenza delle rivelazioni del Ribotti fu l'arresto del BERSANI, del BROFFERIO, del BALESTRA, dei sottotenenti GALLO, BOSCO, CLERICO, DE STEFANIS, LEVAMIS ed altri.
GIACOMO DURANDO e SISTO ANFOSSI fuggirono nella Svizzera, il marchese di CORDERO DI MONTEZEMOLO in Francia. Il BROFFERIO, impaurito, rivelò tutto. GIOVANNI DURANDO rimase al suo reggimento e fu destituito tre mesi dopo con altri diciannove ufficiali. E forse molti ancora si sarebbero aggiunti, se al processo, altri Brofferio, gli avrebbero estorti altri nomi.
Invece quando fu iniziato il processo a carico degli arrestati e dei contumaci, più che al dibattito l'attenzione della corte e del paese era rivolta alla salute del re che fin dal gennaio destava serie preoccupazioni. In aprile Carlo Felice si aggravò improvvisamente e il 27 di Aprile 1831 (mentre nel resto dell'Italia centrale era scoppiata la rivoluzione) dopo avere ordinato che la sua salma fosse sepolta ad Altacomba, il re si spense.
"Montavo a cavallo nel mio giardino - scrive Carlo Alberto - quando un valletto del Re venne ad avvertirmi per dirmi "il suo signore è moribondo". Accorsi, e cinque minuti dopo era già morto. Gli baciai anche una volta la mano e condussi fuori della stanza la regina Cristina, ordinando, al capitano delle Guardie di non lasciare uscire alcuno dall'appartamento, affinché il pubblico non sapesse nulla della morte del Re. Mandai a cercare mia moglie e quando ella riuscì a occupare il mio posto vicino alla Regina, passai nel gran Palazzo dove il governatore, tutti i grandi ufficiali della Corona, dello Stato e i ministri vennero a baciarmi la mano. Dopo di che fu annunciata la morte del Re. Due ore dopo il governatore, per mio ordine, fece prestare giuramento alle truppe, si spedirono corrieri in tutte le province ed io salii al trono in mezzo al più grand'ordine e alla più perfetta tranquillità".
CARLO FELICE era nato a Torino nel 1765, undicesimo figlio di Vittorio Amedeo III, fu viceré in Sardegna dal 1799 al 1816 e salì al trono il 31 marzo 1821, succedendo al fratello Vittorio Emanuele I che aveva abdicato dopo lo scoppio della rivoluzione liberale in Piemonte (che in altre pagine abbiamo narrato)
Carlo Felice che in quei giorni si trovava a Modena, prese il suo posto come reggente il nipote Carlo Alberto, e (questa è la versione ufficiale) "sotto le pressioni" dei rivoluzionari, concesse a loro e giurò la costituzione di Spagna. Lo zio sconfessò immediatamente l'operato di Carlo Alberto, e per reprimere la rivolta chiese l'intervento dell'esercito austriaco.
Assolutista convinto e fermo sostenitore della monarchia di diritto divino, fu deciso avversario di ogni forma di liberalismo. Invece di chiamarlo "Carlo Felice", lo nominarono "Carlo Feroce".
La morte di Carlo Felice fu una fortuna per i prigionieri politici nella attesa dì giudizio, perché Carlo Alberto non volle cominciare il suo regno con un atto di severità contro persone che avevano cospirato sotto il suo predecessore. Furono annullati tutti i processi e gli imputati tutti liberati.
Ma maggior fortuna, si dissero in molti, era quella, che ora saliva sul trono CARLO ALBERTO, senza aver più quei timori che gli avevano soffocato gli ideali coltivati o forse solo influenzati da fanciullo, ramingo con la famiglia a Parigi, e poi sedicenne quando fu dallo stesso Napoleone nominato cadetto.
Gli eventi dei "moti piemontesi" del 1821, li abbiamo già riassunti, e ciò che seguì pure, e le angosce nel suo esilio al Poggio di Firenze, le abbiamo narrate, quando il nome di "traditore" lo perseguitava, e non gli era affibbiato solo dai suoi stessi parenti per aver "osato" andare controcorrente al gretto conservatorismo della casata e a quello di tutti gli assolutisti regnanti europei, in prima fila gli austriaci, ma la parola "traditore" lo perseguitava e proveniva dalle file dei liberali per non aver seguito nei "moti Piemontesi" l'altra "corrente", rinnegando l'appoggio fino allora dato, dandosi poi alla fuga verso Novara, e diventando poi per riscattarsi "il traditore del Trocadero".
Ma ora era morto il suo "carceriere", che lo aveva umiliato, che lo voleva perfino eliminare dalla successione. Era morto chi gli impediva di esternare i propri sentimenti.
E molti -che nonostante tutto -comprensivi- non lo avevano in dieci anni mai rinnegato- si dissero fra di loro -e volevano convincere gli altri- che si era comportato così, per necessità, per non farsi sfuggire un regno, dove poi avrebbe imposto le sue liberali e illuminate idee.
In questo famoso 27 aprile 1831 CARLO ALBERTO saliva sul trono.
E quando il giorno dopo, fece uscire i cospiratori e annullò tutti i processi, i suoi fedelissimi trionfanti, che nei tristi eventi non si erano mai disillusi, si precipitarono a dire agli altri "cosa vi dicevamo? Il Re è dei nostri!".
Poi c'era quel manifesto, del DURANDO, ancora fresco di stampa, che molti sostennero che non era certamente il contenuto comprensibile ad un conservatore retrivo come un Carlo Felice, ma che solo il colto Carlo Alberto n'avrebbe afferrato il pieno significato; se non altro per la brutta esperienza che aveva vissuto e pagato sulla propria pelle.
Invece �.
� lo leggeremo nel prossimo "Riassunto"
il periodo dal 1831 al 1834 > > >