BIOGRAFIA
Re di
Sardegna 1849-1861 - Poi Re d'Italia fino al 1878
Colui che doveva
divenire per l'Italiani il « Padre della Patria »
nacque in Torino nel Palazzo Carignano il 14 marzo 1820, da
Carlo Alberto, allora principe di Savoia-Carignano, poi re
di Sardegna, e da Maria Teresa di Lorena, della Casa granducale
di Toscana.
Trascorse i suoi primi anni di vita nella villa di Poggio
Imperiale presso Firenze, dove i suoi genitori, in conseguenza
degli avvenimenti del 1821, dovettero esiliarsi, subendo l'ostinata
durezza di re Carlo Felice. Una nutrice gli salvò la
vita col sacrificio della propria, il 16 settembre 1822, strappandolo
coraggiosamente alle fiamme di un grave incendio, scoppiato
appunto nella villa di Poggio Imperiale. La principessa Maria
Teresa era allora incinta del principe Maria Ferdinando, che
nacque il 15 novembre di quello stesso anno 1822 e che poi
ebbe il titolo di Duca di Genova. Ella fu la prima amorevole
educatrice del futuro Re d'Italia, e sono degne di nota queste
parole ch'ella scrisse relativamente al carattere del piccolo
principe, nel quale già si delineava il carattere dell'uomo
« È assai docile, ma ci vuole con lui un
po' di pazienza, perchè ha sempre una grande voglia
di correre e di saltare. Ma quando ha imparato una cosa, difficilmente
la dimentica ».
Per il fratello
Ferdinando, Vittorio Emanuele ebbe, fin dall'infanzia, un
grandissimo affetto, « una calda amicizia, che rafforzata
dagli anni e cementata dalle fatiche e dai pericoli comuni
sui campi di battaglia avvinse l'uno all'altro i due principi
finchè visse quello che per primo doveva essere rapito
dalla Morte ».
I figli di Carlo
Alberto ebbero un'educazione principalmente militare, alla
quale attesero alcuni esperti ufficiali e soprattutto quel
Giuseppe Dabormida, allora maggiore, che fu poi generale e
ministro. Il Dabormida fu per i due principi un eccellente
precettore ed un consigliere affettuosissimo. «Vittorio
Emanuele, scrisse un biografo, crebbe vigoroso, straordinariamente
vivace, dedito di preferenza agli esercizi del corpo, ma pieno
di sensibilità, d'impulsività, di audacia ».
Prestissimo si manifestarono in lui, e nel fratello, quello
spirito bellicoso, quel coraggio non comune, che dovevano
poi rifulgere in tante battaglie.
Ma Carlo Alberto
lo tenne in un'assoluta ignoranza degli affari di Stato, lo
fece vivere quasi segregato dalla Corte, e così, senza
precisamente volerlo, « lo pose in grado, come
nota giustamente il Predari, di parer osservare e conoscere
con libera mente e con occhio più sicuro, tanto che
poi egli riuscì a distinguere molto bene gli amici
ed i nemici del padre e del Paese, e delle cognizioni acquistate
da sè, seppe poi provvidamente giovarsi quando fu giunto
al potere ».
Nel 1842, compiuti
i ventidue anni di età ed avuto il grado di maggior
generale, Vittorio Emanuele sposò, dopo un anno di
fidanzamento, Maria Adelaide d'Austria, sua cugina, della
quale diremo più avanti. Ammogliano, conservò
le abitudini della sua gioventù forte, esuberante,
insofferente di freni, avversa alla fredda etichetta della
Corte paterna. Era cacciatore appassionato, e, scrive briosamente
un suo biografo, « corse in montagna o nelle paludi
dietro alle anitre selvatiche, lunghissime passeggiate a piedi
e a cavallo, lo trattenevano fuori di casa non soltanto tutte
le mattine, ma spesse volte tutta la giornata. Nella reggia
egli era il Principe Ereditario, marito affettuoso, figlio
rispettoso; appena fuori, i suoi naturali istinti, i gusti
repressi scattavano violentemente, ed egli diventava una specie
di moschettiere del Seicento, di cui aveva persino il tipo
fisico ed indossava presso a poco il costume. Non superbo,
nè altezzoso, anzi piuttosto familiare con le persone
del suo servizio, si mostrava gelosissimo della sua dignità
personale e principesca, e con nessun uomo l'avrebbe mai compromessa,
ma con le donne, però, non credeva mai di abbassarsi.
Bastava che fossero giovani, belle, piacenti, non facessero
le ritrose, e anche se popolane o contadine, per il momento
egli se ne invaghiva perdutamente. Maria Adelaide sapeva tutto;
molte cose egli stesso le diceva e le confessava, ed essa
ebbe sempre la virtù di tutto perdonare e, persino,
di molto giustificare. La madre di lui andava ripetendo e
scrivendo : «Di dove mai è uscito questo
figliuolo?... È nato per farci disperare tutti quanti!
» Egli godeva nel fare cose pericolose fuori del
comune, per darsi importanza, non foss'altro, agli occhi dei
cacciatori e del seguito e per poterle raccontare tornando
a Racconigi o a Torino, dove il più delle volte, arrivando
con un ritardo di cinque minuti sull'ora della colazione,
veniva dal rigido padre mandato agli arresti, anche se tornava,
come una volta gli capitò, con un braccio al collo.
« Non è da stupire che un temperamento come
quello di Vittorio Emanuele si venisse appassionando per le
agitazioni politiche, estesesi dal 1846 al 1848 in modo così
vertiginoso. Vi si interessava anche suo fratello, il Duca
di Genova, ma con maggiore prudenza.
Quanto
a Vittorio, travestito da agiato campagnolo, avvolto in un
gran mantello e con un cappello a larghe tese sugli occhi,
percorreva la sera le strade, mischiandosi alla folla e ai
capannelli che si formavano in Torino in Piazza Castello,
o davanti al palazzo municipale, o al palazzo del governo
in piazza S. Carlo, per vedere, e per udire i discorsi, e
per farsi un'idea, di poi commentandosela della generale esaltazione
».
Sopraggiunsero
i grandi avvenimenti del 1848, e, come vedemmo, Carlo Alberto,
bandita la prima guerra dell'indipendenza italiana, condusse
scon se oltre il Ticino i suoi due figli. Vittorio Emanuele
duca di Savoia aveva caldeggiato la guerra contro l'Austria,
aveva ardentemente desiderato di prendervi parte, ed ebbe
il comando di una divisione. In quasi tutte le battaglie del
1848 e del 1849, nelle quali tanto si distinse anche suo fratello
Ferdinando, duca di Genova, fece prodigi di valore per i quali
meritò di essere ammirato perfino dai nemici.
Successo al padre
nel giorno stesso della catastrofe di Novara, il giovane principe
diede una prima ammirabile prova di lealtà e di fermezza
nel famoso colloquio ch'ebbe a Vignale col maresciallo Radetzkv.
La situazione era tragica, e così la riassume efficacemente
il Predari « Il Piemonte era in balìa del
nemico, il quale in tre tappe poteva occuparne la capitale;
l'esercito del nuovo re era sparpagliato e in gran parte disfatto
dall'opera pervertitrice dei partiti estremi, i quali, ancor
più delle baionette nemiche, minacciavano di rovina
la patria; vuoto l'erario; spento il credito; l'anarchia nel
Parlamento; la diffidenza in tutti contro tutti; universali
lo scoraggiamento, lo sgomento, destati dall'incerto avvenire;
l'Austria accennava a voler essere inesorabiile nella vittoria;
la Francia, non per noi; l'Inghilterra con noi, ma quanto
larga di consigli, altrettanto avara di efficaci soccorsi;
in Italia, non solo nemici tutti i principi, ma nemiche perfino
alcune province; i popoli stessi, che pure anelavano a libertà,
avversari perchè signoreggiati da gelosie e da interessi
a covi si posponevano i grandi interessi e i destini della
nazione. In Piemonte, frattanto, c'era chi sognava il ritorno
del vecchio dispotismo, mentre altri consigliavano, sollecitavano
una radicale conciliazione con Vienna, come unico mezzo per
ripristinare l'ordine e la tranquillità nel paese ».
A Vignale, Radetzky
rispose alla domanda d'armistizio ponendo questi patti: abolizione
dello Statuto di Carlo Alberto, soppressione del vessillo
tricolore, ritorno al regime vigente ai tempi di Carlo Felice,
intima alleanza con la Casa d'Austria. Qualora queste condizioni
fossero state accettate, il Piemonte avrebbe ottenuto le condizioni
di pace più desiderabili e più vantaggiose.
Ma Vittorio Emanuele dichiarò che piuttosto che accettare
simili patti, piuttosto che agire contrariamente ai giuramenti
di suo padre, avrebbe lottato sino in fondo, pronto a soccombere,
ma senza disonore.
Radetzky non
insistè nelle sue richieste in nome dell'Austria, ma
non mutò sostanzialmente le condizioni dell'armistizio:
20.000 Austriaci occuperebbero i territori piemontesi fra
il Po, la Sesia e il Ticino; un presidio misto di Austriaci
e Piemontesi, starebbe nella cittadella di Alessandria; l'esercito
piemontese verrebbe ridotto come in tempo di pace, col congedamento
dei corpi non piemontesi; sarebbero ritirate tutte le truppe
occupanti sulla riva destra del Po quel territorio che prima
della guerra non apparteneva al Regno Sardo, e richiamate
quelle che si trovavano altrove, in territori destinati a
ritornare sotto la dipendenza dell'Austria.
"Vittorio
Emanuele dovette iniziare il proprio regno sottoscrivendo
queste condizioni durissime. Sostanzialmente, aveva ottenuto
ben poco e aveva rinunciato a vantaggi personali:non indifferenti;
ma, accorto, ardito, animoso, aveva avuto prontamente l'intuito
della parte che ormai era riservata in Italia al re di Piemonte,
alla casa di Savoia. Il candidato tradizionale alla corona
di Lombardia, alla corona d'Italia, capiva oramai, dopo le
rivoluzioni italiane del 1848, che a lui, per assicurarsi
l'avvenire, conveniva non fare ciò che avevano fatto
o dovuto fare Leopoldo Il di Toscana, Ferdinando II di Napoli,
Pio IX. Bisognava che l'idea italiana avesse il suo re ideale,
che in Italia sarebbe rimasto, con la bandiera tricolore,
segnacolo e vessillo, e la cui politica estera di principe
costituzionale in un paese dove le costituzioni erano state
soppresse per piacere all'Austria, avrebbe trovato il suo
logico appoggio anche in Francia e in Inghilterra". (Predari).
« Io
terrò alta e ferma la bandiera tricolore aveva detto
il nuovo re al conte Vimercati, la sera stessa della battaglia
di Novara, prima d'aver preso qualsiasi impegno) poichè
è simbolo della nazionalità italiana, che oggi
è stata vinta, ma che trionferà un giorno. Questo
trionfo sarà d'ora innanzi lo scopo di tutti i miei
sforzi ».
Pochi giorni
dopo, il 27 marzo 1849, Vittorio Emanuele pubblicò
un proclama nel quale si dichiarò erede e continuatore
delle libere istituzioni iniziate da suo padre, facendo appello
al patriottismo ed al senno della nazione per essere aiutato
nel gran lavoro di svolgerle e di perfezionarle. «Gli
ordini politici, così disse in quel proclama,
le Costituzioni, gli Statuti, non li stabilisce nè
li rende adatti ai vari bisogni di un popolo il Decreto che
li promulga, bensì il senno che li corregge ed il tempo
che li matura. E questo
lavoro, dal quale solo possono sorgere la potenza e la felicità
di uno Stato, si conduce con l'azione calma e perdurante del
raziocinio, non con l'urto delle passioni; si conduce procedendo
a gradi per la via del possibile, e non gettandosi a slanci
inconsiderati per le vie che l'esperienza dei secoli dimostrò
impraticabili... Ora la nostra impresa deve essere di mantenere
salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica
fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali.
A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli. Io mi appresto
a darne solenne giuramento, attendendo dalla nazione, in ricambio,
aiuto, affetto, fiducia ».
Ma la fiducia
non c'era ancora, nè gli si manifestò il 29
marzo, quando prestò davanti alla Camera il giuramento
alla Costituzione. Gran parte della Camera e delle popolazioni
gli era tacitamente ostile, e fu bello e grande da parte sua,
il non disperare, fra tante cause di disperazione,
dei destini dell' Italia e della Casa di Savoia.
La Camera era
indisciplinabile, e Vittorio Emanuele si affrettò a
scioglierla, il 30 marzo, senza fissare la data per le nuove
elezioni. Genova insorse e dovette essere sottomessa con le
armi dal generale Alfonso La Marmora. Alla testa del ministero
venne chiamato Massimo d'Azeglio, nome che dava affidamento
per l'avvenire dell'idea nazionale italiana. Nel maggio, venne
fucilato a Torino il generale Ramorino, capro espiatorio degli
errori che avevano condotto l'esercito alla disfatta di Novara.
Frattanto Alessandria era stata occupata dalle truppe austriache.
Sarebbe fuor
di luogo ripetere qui una narrazione degli avvenimenti che
si svolsero nella penisola ed in Europa in quell'agitatissimo
anno 1849; ed anche a quelli del primo periodo del regno di
Vittorio Emanuele, accenneremo solo sommariamente, poichè
qui non possiamo nè dobbiamo rifare una storia del
Risorgimento italiano.
La pace tra il
Piemonte e l'Austria venne conclusa a Milano, dopo laboriose
trattative, il 6 agosto 1849. Secondo il trattato, i confini
dei due Stati vennero ristabiliti come prima del marzo 1848,
e Vittorio Emanuele rinunciò a qualsiasi pretesa sui
territori situati al di là di quei confini. Il Piemonte
si obbligò a pagare all'Austria un'indennità
di 75 milioni; l'Austria s'impegnò a ritirare entro
otto giorni le milizie sue che occupavano il territorio fra
il Ticino e la Sesia e quelle che tenevano la fortezza di
Alessandria.
Il 15 luglio
avevano avuto luogo le elezioni per la nuova Camera, e questa
era riuscita quasi identica alla Camera disciolta, cioè
con una maggioranza di fautori d'una sollecita riscossa. Contrariamente
alla più elementare saggezza, mentre l'Austria trionfava
dovunque e in tutta
Europa si affermava un'accanita reazione, dopo lunghissime
discussioni venne votata la sospensiva sull'approvazione del
trattato di pace. Allora Vittorio Emanuele e il suo ministro
d'Azeglio dovettero decidersi a sciogliere nuovamente la Camera,
e il re pubblicò il famoso Proclama di Moncalieri,
documento memorabile di fermezza, di saggezza e di previdenza,
che fu poi base delle nuove elezioni da cui uscì la
Camera che finalmente approvò il trattato con l'Austria
e che permise al Governo di agire per il bene del paese, continuando
a mirare alla unità italiana.
Noteremo qui
incidentalmente a che nel 1850 Ferdinando duca di Genova si
univa in matrimonio con la principessa Elisabetta, figlia
del re di Sassonia. Vittorio Emanuele, il cui affetto per
il fratello era vivissimo, come già si disse, fu assai
lieto di quell'avvenimento, e quando gli sposi vennero dalla
Germania in Italia, passando per la Savoia, andò ad
incontrarli, con la regina e col figlio Umberto. Visitò
in quell'occasione, per la prima volta dopo la sua assunzione
al trono, le sue province poste di là dalle Alpi, e
le popolazioni savoiarde lo accolsero entusiasticamente. Da
quel matrimonio nacque nell'anno seguente (20 novembre 1851)
Margherita di Savoia, la futura regina d'Italia, e nel 1854
nacque il principe Tomaso, che dal padre ereditò il
titolo di Duca di Genova.
La maggioranza
del Parlamento, dopo il proclama di Moncalieri, fu sempre
con Vittorio Emanuele, anche quando non fu coi suoi ministri,
perchè sentì, ammirò ed amò in
lui il principe forte e leale a cui presto doveva esser dato
dal popolo il ben meritato soprannome di Re Galantuomo. «
E Vittorio Emanuele, nota il Predari, offrì
all'Europa lo spettacolo singolare di un sovrano posto sempre,
in ogni questione di ardimento e di libertà, un passo
più innanzi degli stessi suoi più liberali consiglieri
».
Fra i suoi consiglieri,
egli ebbe, fin dai primi anni di regno, la grande fortuna
di poter contare due uomini che seppero prestargli ottimi
servigi come ministri: Massimo d'Azeglio e Camillo Cavour.
«Il primo (citiamo ancora il Predari), senza
essere un grand'uomo di Stato, aveva saputo per l'integrità
del carattere, per quell'innato e lucido buon senso che assai
spesso vince la scienza, per il fascino dell'ingegno vario
ed ameno, per quel piglio franco e sicuro con cui la lealtà
s'impone alla lealtà, cattivarsi la fiducia del principe,
mentre affatto nuovo alle terribili difficoltà del
trono, aveva bisogno di àncora e di pilota. Senza farsi
nè dominatore, nè maestro, egli concorse a raffermarlo
all'altezza di quei liberali intendimenti che attingevano
vita e forza dalla grandezza e dalla bontà dell'animo
suo, ma che venivano molto insidiati, e con insidie tanto
più
pericolose in quanto chè si aiutavano dei più
dolci e sacri sentimenti del suo cuore.
"All'opera
di Massimo D'Azeglio si aggiunse poco dopo quella di Camillo
Cavour. Mente più vasta e al tempo stesso più
pratica ed educata ai grandi concepimenti, questi seppe additare
al giovane monarca nuove e intentate vie di grandezza e di
gloria, che poterono facilmente persuadere ed infiammare l'animo
suo, perchè aveva l'animo predisposto ad intraprendere,
ed altrettanto capace a riuscire. I nomi di questi due uomini
rimangono nella storia del Risorgimento italiano inseparabili
da quello di Vittorio Emanuele: il primo per avere innamorato
della vera gloria il principe, il secondo per avergli additati
e preparati i mezzi di conseguirla ».
"Le
vicende politiche che si svolsero in quel periodo furono molteplici
e complesse, dominate appunto dalle figure del D'Azeglio,
del Cavour, specialmente, di Urbano Rattazzi e di altri illustri
politici. Noi ci limiteremo a notare che frattanto le utili
riforme e le nuove leggi intese a svecchiare e a migliorare
l'organizzazione dello Stato, andavano moltiplicandosi quasi
incessantemente, e che Vittorio Emanuele «seguiva fin
da allora il sistema che continuò poi per tutta la
vita, quello cioè di mantenersi sulla retta via di
un re costituzionale, chiamando al potere uomini ch'erano
designati dalla illuminata pubblica opinione, legalmente rappresentata
dalla maggioranza parlamentare"».
Nella politica
estera, il re mostrava di sapere aspettare pazientemente,
pur senza perdere mai di vista lo scopo supremo di liberare
l'Italia dagli stranieri. Quando poi Luigi Napoleone Bonaparte,
nel 1851, si rese arbitro della Repubblica francese, Vittorio
Emanuele e Cavour non mancarono di prevedere che dalle muove
condizioni della Francia sarebbe presto derivata una guerra
facilmente sfruttabile a vantaggio della causa dell'indipendenza
italiana.
Il Piemonte,
frattanto, sotto gli auspici del suo re e del suo grande ministro,
vedeva migliorare di continuo le condizioni
interne e diventava uno Stato sempre più forte e rispettato.
I patrioti italiani, fra i quali, mentre infierivano le repressioni
dell'Austria e dei tiranneggi, Giuseppe Mazzini teneva incessantemente
accesa la fiamma della sua appassionata propaganda nazionale,
consideravano più che mai quell piccolo Stato come
un paese di libertà e su di esso fondavano le loro
maggiori speranze.
Non solo alla
libertà, ma anche ad ogni civile progresso era infatti
aperto il Piemonte, dove le riforme continuavano ardite e
sintomatiche. Il ministro Rattazzi, continuando l'opera già
intrapresa dal ministro Siccardi all'inizio del regno di Vittorio
Emanuele, si propose di sopprimere certi ingiusti privilegi
ecclesiastici, con vantaggio dello Stato, ed il re non gli
negò il suo appoggio, dando prova di una volontà
irremovibile di non opporsi ad alcun provvedimento che potesse,
poco o molto, giovare al Paese. Secondo il progetto di legge
del Rattazzi, si trattava di sopprimere molte corporazioni
monastiche, d'incamerare i beni posseduti dalle comunità
religiose, e nel tempo stesso di migliorare le condizioni
dei parroci, ch'erano in miseria, mentre gli arcivescovi e
i vescovi godevano di rendite eccessive.
"Vittorio
Emanuele aveva, nota giustamente un suo biografo,
più che principi, sentimenti religiosi, ed era attorniato
dalla madre, dalla moglie, religiosissime, alle quali, contro
le leggi ecclesiastiche, mettevano capo tutte le influenze
clericali conservatrici. Furono adoperati tutti mezzi possibili
per distaccare il re dalla politica anticlericale dei suoi
ministri, ma furono inutili; e anteponendo ai domestici affetti
il suo dovere di sovrano costituzionale, egli rimase saldo
nel primo divisamento ».
Al principio
del 1855, Vittorio Emanuele fu colpito dai lutti più
gravi che potesse temere. Gli morirono successivamente la
madre, la consorte, il fratello Ferdinando, duca di Genova,
ch'era stato suo inseparabile ed amatissimo compagno nell'infanzia,
nella gioventù, nelle battaglie. I clericali non trascurarono
di approfittare di quei lutti, cercando di farli credere essere
quelle manifestazioni dello sdegno divino per le riforme anti-ecclesiastiche
allora in corso; ma con la sua consueta fermezza d'animo,
il re seppe resistere e persistere, convinto com'era che le
riforme in questione fossero sagge, giuste ed utili. La legge
fu approvata dalla Camera e dal Senato; Pio IX lanciò
la scomunica maggiore ed altre pene ecclesiastiche (luglio
1855) contro tutti coloro che l'avevano proposta, approvata
e sanzionata.
"Ormai,
scrive uno storico del Risorgimento, le idee di Cavour
si erano talmente compenetrate con quelle di Vittorio Emanuele,
che sovrano e ministro formavano un tutto indissolubile, operante
per il bene d'Italia, spianando la via di un lieto avvenire.
Vittorio era il monarca che poteva comprendere e approvare
i concetti di un tanto consigliere, come Cavour era il ministro
appunto atto a svolgere nelle vie spinose della pratica, fra
le difficoltà della diplomazia, e contro l'opposizione
dei meno veggenti, gli alti disegni del Re. Ciò parve
manifesto fino da quando si trattò di far partecipare
il Piemonte alla guerra di Crimea »
Come si sa, la
partecipazione del Piemonte a quella guerra fu onorevole,
ma, per quanto limitata dalle circostanze, la vittoria della
Cernaia non passò inosservata. Seguì, nel novembre
del 1855, il viaggio politico di Vittorio Emanuele a Londra
e a Parigi. In quest'ultima capitale come in quella inglese,
il re e Cavour si
guadagnarono le simpatie dei governanti, ed ebbero delle promesse
e degli affidamenti per la "questione italiana"
, e nel Congresso di Parigi del febbraio 1856, Cavour riuscì
a far prendere in considerazione quella questione, appoggiato
dai rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra.
Da allora, gli avvenimenti precipitarono, e noi, per non uscire
dal nostro modesto compito, ci asterremo dall'elencarli e
dall'analizzarli. Diremo soltanto che negli anni di passione
che
seguirono al Congresso di Parigi, carattere di Vittorio Emanuele
II non si smentì mai, anzi si affermò sempre
più ammirabile in diverse occasioni.
Dopo l'attentato
di Felice Orsini contro Napoleone III, questo sovrano pretese
dal Piemonte una apolitica interna repressiva contro gli elementi
repubblicani e rivoluzionari, e Vittorio Emanuele gli scrisse
fieramente :
« Se l'imperatore vuole che io usi qui (in Piemonte)
della violenza, sappia che io perderei tutta la mia forza,
ed egli tutte le simpatie di una nobile e generosa Nazione...
Non si tratta così un fedele alleato... Io non ho mai
tollerato violenza da chicchessia, io sono lo specchio dell'onore
sempre senza macchia, e di questo onore non rispondo che a
Dio e al mio popolo... Sono ottocentocinquanta anni che noi
portiamo la testa alta, e nessuno me la farà abbassare;
ma con tutto questo io non desidero altro che
di essere suo amico ».
Comprendeva infatti
il re italiano come in un "forse vicino conflitto"
con l'Austria dovesse fare grande assegnamento su Napoleone.
Tuttavia, egli non avrebbe voluto a nessun costo mutare la
sua liberale politica interna.
« Il Cavour, a sua volta, compendia Italo Raulich,
ad una nota arrogante del ministro francese Walewsky rispondeva
imitando l'esempio del re e dichiarando che il suo governo
non si sarebbe lasciato intimidire dalle minacce dei suoi
potenti vicini. Tanta nobilità e fierezza indussero
Napoleone a miglior consiglio, e il temporale svanì
presto, lasciando anzi l'orizzonte più sereno e più
lieto di promesse. Soltanto allora, quando ebbe fine il breve
contrasto, Cavour fece approvare una legge per punire le congiure
contro la vita dei sovrani stranieri e l'apologia del regicidio
col mezzo della stampa ».
Seguì la
Conferenza di Plombières, nella quale i patti dell'alleanza
tra la Francia e il Piemonte contro l'Austria furono verbalmente
conclusi (21 luglio 1858), e venne concertato il matrimonio
del principe Gerolamo Napoleone, cugino dell'imperatore francese,
con la sedicenne principessa Clotilde, primogenita di Vittorio
Emanuele.
Cavour, ritornato
a Torino, si abboccò segretamente col La Farina, capo
della Società Nazionale, e con Garibaldi, perchè
fosse intensificata la propaganda per la causa italiana e
per la guerra imminente. Napoleone III, al ricevimento di
capodanno del 1859, disse all'ambasciatore austriaco una frase
minacciosa, e Vittorio Emanuele, dieci giorni dopo, nella
solennità di un discorso della Corona, pronunciò
parole che risuonarono in tutta Europa come un grido di guerra:
« L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno
non è pienamente sereno. Confortati dall'esperienza
del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità
dell'avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando
la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà
e della patria.
Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito
nei consigli dell'Europa, perchè grande per le idee
che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione
non è scevra di pericoli, giacchè, nel mentre
rispettiamo i trattati, non siamo insensibili
al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso
di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro
buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della
Divina Provvidenza ».
Urna narrazione,
qui, della guerra del 1859 sarebbe superflua. I fatti di quella
campagna sono ben noti a tutti gl'italiani, come pure la mirabile
condotta di Vittorio Emanuele, il cui valore militare, sprezzante
dei più gravi pericoli, rifulse specialmente nella
battaglia di Palestro (ove gli zuavi lo proclamarono loro
caporale) ed in quella di San Martino, nella quale il suo
esempio fece conseguire alle milizie piemontesi una splendida
vittoria dopo quindici ore di accaniti combattimenti. Accenneremo
solo di sfuggita alle altre
vittorie, anteriori a quest'ultima a quella di Montebello,
a quelle garibaldine di Varese e di Como, a quella francese
di Magenta, dopo la quale Napoleone III e Vittorio Emanuele
entrarono solennemente in Milano (liberata, accolti con indescrivibile
entusiasmo, ed infine a quella, pure francese, di Solferino.
Ed ecco Villafranca!
Dopo quel rovinoso ed umiliante armistizio, concluso dall'imperatore
francese ad insaputa di Vittorio Emanuele, Cavour consigliò
al suo re di continuare la guerra da solo. Ma il Re non volle,
"e, osserva un suo biografo già da noi
citato, forse fu questa l'unica volta, in cui, armonizzando
quanto
al fine col suo prediletto ministro, discordasse da lui quanto
alla natura dei mezzi. Ed è singolare che Vittorio
Emanuele, audacissimo quando occorreva essere audace, si mostrasse
questa volta, con intuito meraviglioso, più prudente
di quel Cavour, ch'era pure un modello di politico. Ma la
prudenza del re era la prudenza dei coraggiosi e dei forti,
i quali, anche di mezzo ai disastri, con ferma serenità
della mente sanno scegliere fra diverse strade quella che
più sicuramente può condurli alla mèta.
Vedeva il re che porre il suo piccolo esercito a fronte di
quello austriaco (che nella battaglia di Solferino aveva spiegate
forze superiori a quelle degli alleati presi insieme, e che
per poco nel contrasto di un'intera giornata non era riuscito
vincente) sarebbe stato come voler riperdere quanto si era
fin lì guadagnato, frutto laborioso di dieci anni di
sforzi, di costanza, di sacrificio. E vedeva egli ancora che
la strada dell'avvenire era ormai spianata, che lo slancio
dei popoli di tutta Italia non poteva essere arrestato, da
alcun trattato diplomatico, e che il volere unanime degli
Italiani, stretti ad un patto indissolubile intorno al suo
nome, avrebbe finito col vincere tutti gli ostacoli frapposti
al conseguimento dell'unità e dell'indipendenza nazionali.
Fu dunque la fede nelle popolazioni d'Italia, la fede nei
destini del Paese, che diede a Vittorio la forza d'animo che
occorreva per non ribellarsi rovinosamente a quella pace,
nè accasciarsi sotto il peso di una tanto amara delusione
».
I fatti gli diedero
pienamente ragione. Seguirono i plebisciti e le annessioni
dell'Italia Centrale, che compensarono la dolorosa cessione
alla Francia della Savoia e di Nizza; seguì l'audace
spedizione di Garibaldi in Sicilia, a cui Vittorio Emanuele
non volle opporsi, dando prova di un intuito superiore a quello
dello stesso Cavour. L'Eroe al grido di «Italia e Vittorio
Emanuele! » passò folgorando da Marsala a Calatafimi,
da Palermo a Milazzo, da Reggio a Napoli. A questo punto,
per legalizzare l'opera della rivoluzione per mezzo della
monarchia, e volgere a profitto di quest'ultima l'audace spedizione
garibaldina, che poteva naufragare per l'opposizione del legittimismo
delle potenze europee che vi vedevano solo un moto popolare,
Re Vittorio, aiutato ancora una volta nel campo diplomatico
dal genio di Cavour, invase col suo esercito le Marche e l'
Umbria, e tra le meraviglie e le proteste dell'Europa intera,
le conquistò ed annesse per i plebisciti al suo Regno;
poi scese nel Mezzogiorno a dare il colpo di grazia ai Borboni.
A Teano si incontrò
con Garibaldi, che lo salutò Re d'Italia; poi con Garibaldi
entrò in Napoli, che già si era dichiarata sua
da due settimane; e infine ritiratosi a Caprera l'Eroe - abbattè
per sempre il regno borbonico delle Due Sicilie (marzo 1861).
A Torino, frattanto,
il 18 febbraio 1861, osi era riunito il Parlamento, nel quale
per la prima volta erano raccolti i rappresentanti di ventidue
milioni d'Italiani. (Oltre ai deputati piemontesi, vi erano
infatti quelli .delle regioni annesse, comprese l'Umbria e
le Marche).
Il 14 marzo Vittorio Emanuele fu proclamato Re d'Italia, e
il 17 avvenne la proclamazione ufficiale, che fu celebrata
con feste entusiastiche in quasi tutte le città d'Italia.
I principi spodestati e l'Austria protestarono. Soltanto l'Inghilterra
riconobbe immediatamente il nuovo regno. Il cardinale Antonelli
cercò di promuovere un congresso delle Potenze, per
garantire il potere temporale del Papa, ma non vi riuscì.
Mancavano ancora all'Unità italiana le Venezie ed il
Lazio.
Densa di eventi
e di dibattiti fu la vita politica italiana negli anni che
seguirono, ma la figura di Vittorio Emanuele vi campeggiò
sempre nobile ed alta. Morì Cavour,
dopo aver fatto approvare dal Parlamento una mozione esprimente
il voto che « Roma, capitale acclamata dall'opinione
nazionale, fosse resa all'Italia »; seguirono i
ministri Ricasoli e Rattazzi, che dovettero lottare contro
formidabili difficoltà per dare assetto al regno; si
dovettero combattere il brigantaggio e le ultime resistenze
borboniche, e frattanto le questioni di Venezia e di Roma
erano mantenute vive dal Partito d'azione.
Nel 1862 si ebbero
i generosi tentativi garibaldini per la conquista del Veneto
e per quella di Roma. Quest'ultimo ebbe l'epilogo dolorosissimo
e non necessario di Aspromonte. Nel 1863, Marco Minghetti
assunse la presidenza del Gabinetto, e si accinse anzitutto
a vincere le difficoltà della finanza dello Stato,
contraendo un nuovo prestito che ebbe successo. Vittorio Emanuele,
quando seppe che per quei provvedimenti si poteva ormai sperare
in un vicino assetto del pubblico erario, scrisse al ministro,
dalla Venaria, una lettera che fra l'altro diceva : «
Possa questo fatto compiuto essere foriero di bellici eventi
e condurci al compimento delle glorie italiane. Lei sa come
queste glorie siano il sogno di tutta la mia vita, e racchiudano
tutte le mie aspirazioni. Fermo nella fede, di cuore impavido
e sereno, le aspetto e le otterremo ».
E' dunque dimostrato
come per il re al miglioramento delle finanze si connettesse
strettamente il proposito di assicurare il compimento delle
glorie italiane. « Egli sapeva, fu iscritto, che
il fato d'Italia non si sarebbe compiuto senza l'acquisto
di Venezia e di Roma, al quale teneva di continuo rivolta
la mente ».
Sempre per non
ripetere, in questa biografia, che vuol essere succinta, la
storia di un periodo di politica italiana denso di fatti,
sorvoleremo su quanto avvenne, appunto nel campo politico
fra il 1863 e il 1866: sulla non chiara convenzione del 1864
con la Francia, sui dibattiti con la Santa Sede, sul trasporto
della capitale da Torino a Firenze, che nel 1865 fu causa
di tumulti gravi a Torino, e sulla conclusione dell'alleanza
italo-prussiana.
Vittorio Emanuele fu anche in quel periodo un perfetto re
costituzionale, il capo ideale di tutti i patrioti anelanti
al compimento dell'unità della Nazione.
La guerra del
1866, fu per lui, causa di profonde amarezze, fra le quali
ebbe soltanto il conforto di poter essere orgoglioso dell'eroica
condotta dei suoi figli Amedeo ed Umberto, che combatterono
da prodi a Custoza e a Villafranca. Custoza, Lissa, la pace
senza gloria: altrettanti fierissimi dolori per il re! Ma
Venezia divenne italiana.
Ormai l'Italia,
« fatta ma non compiuta » secondo una
frase dello stesso Vittorio Emanuele, si sentiva più
che mai attratta verso Roma, che doveva essere sua capitale.
Il re aspettava, irremovibile nella sua volontà forte
e fiduciosa, mentre il Paese languiva fra le strettezze finanziarie,
le meschine lotte politiche, le complicazioni e le ansie della
« questione romana ».
Non aspettò
Garibaldi, non aspettarono i più ardenti patrioti.
Villa Glori, Monterotondo, Mentana... Episodi più gloriosi
della stessa conquista ormai imminente! Vittorio Emanuele,
dopo Mentana, ebbe a dire al marchese Pepoli che gli chassepots
francesi avevano trafitto mortalmente anche il suo cuore di
padre e di Re. Aggiunse : « Mi pare che le palle
mi strazino le carni, qui (indicava il petto...). È
uno dei più grandi dolori che io abbia provato nella
mia vita. Poveri giovani!... ». E mandò
a Parigi la sua energica protesta, allorchè seppe che
il ministro Rouher, in piena assemblea, aveva dichiarato che
"gli Italiani non avrebbero
giammai
avuto Roma".
«Ah, giammai? - esclamò - giammai!...
Glielo faremo veder noi il giammai! » (P. De Luca:
« I Liberatori »).
E venne il 1870,
venne la liberazione di Roma. Mentre a Firenze, dopo la memorabile
giornata del 20 settembre, i ministri discutevano quando sarebbe
stato opportuno che Vittorio Emanuele fosse entrato a Roma;
e alcuni sostenevano che il re non dovesse muoversi se non
insieme al Governo e al Parlamento, arrivò la notizia
(il 28 dicembre) che Roma era stata in modo drammatico inondata
dal Tevere. Vittorio Emanuele, avventuroso, impulsivo, decise
di correre subito alla nuova capitale, dove arrivò
la mattina del 31 dicembre; e passò tutta la giornata
visitando, angosciato, i luoghi più colpiti dal flagello,
e ripartì la sera, dopo avere lasciato in Campidoglio
una cospicua somma per i danneggiati.
Il 1870 - anno
fatidico nella storia del mondo - segnò l'apogeo della
meritata fortuna di Vittorio Emanuele II. In quell'anno stesso
egli vide il suo secondogenito Amedeo salire sul trono di
Spagna. E il 5 dicembre, in una solenne seduta del Parlamento
nel Palazzo Vecchio di Firenze, disse con nobile orgoglio
parole che rimasero indelebili nella storia del nostro Paese:
« Con Roma capitale d'Italia ho sciolto la mia promessa,
e coronata l'impresa, che ventitrè anni or sono veniva
iniziata dal magnanimo mio genitore. Il mio cuore di re e
di figlio prova una gioia solenne nel salutare qui raccolti
per la prima volta tutti i rappresentanti della nostra patria
diletta, e nel pronunciare queste parolle : L'Italia è
libera ed una. Ormai non dipende che da noi farla grande e
felice ».
Il 1° luglio
1871 si trasferirono a Roma i ministeri, e il giorno successivo
fece il solenne
ingresso nella Capitale il Re d'Italia, che pose la sua residenza
nel Quirinale. Il 27 novembre si aprì il primo Parlamento
nazionale in Roma, e, nel discorso della Corona, Vittorio
Emanuele affermò nuovamente la nobiltà del suo
animo e la composta grandezza delle sue vedute:
«L'opera a cui consacrammo la nostra vita è
compiuta! Dopo lunghe prove d'espiazione, l'Italia è
restituita a sè stessa ed a Roma. Qui, dove il nostro
popolo, dopo la dispersione di molti secoli si trova per la
prima volta raccolto nella maestà dei suoi rappresentanti...
qui, dove noi riconosciamo la patria dei nostri pensieri,
ogni cosa ci parla di grandezza, ma nel tempo stesso ogni
cosa ci ricorda i nostri doveri. Le gioie di questi giorni
non ce li faranno dimenticare.
« Noi abbiamo riconquistato il nostro posto nel mondo,
difendendo i diritti della Nazione. Oggi che l'unità
nazionale è compiuta e si apre una nuova era della
storia d'Italia, non falliremo ai nostri principi. Risorti
in nome della libertà, dobbiamo ricercare nella libertà
e nell'ordine il segreto della forza e della riconciliazione...
»
Negli ultimi
anni della sua vita, il primo Re d'Italia assistè ad
un periodo di pace e di raccoglimento durante il quale il
Paese cominciò a rifarsi a poco a poco dei danni materiali
subiti attraverso tante difficoltà e tante tempeste.
Egli morì
il 9 gennaio 1878, e l'Italia tutta tributò una vera
apoteosi al monarca che aveva desiderata e meritata specialmente
la gloria d'impersonare le aspirazioni della Nazione e di
essere chiamato il primo soldato dell'indipendenza nazionale.
Molto fu scritto del carattere singolare ed attraente di questo
re che godette, in vita ed anche dopo morte, di una grandissima
popolarità, e noi ci asterremo dal ripetere i giudizi,
gli elogi, gli aneddoti, i particolari più o, meno
veritieri di vita privata, che ogni italiano ha certamente
occasione di leggere in mille altri libri.
Dovremmo invece
accennare qui, secondo il metodo seguìto nelle biografie
dei predecessori, ai figli di Vittorio Emanuele II, ma lo
faremo nei successivi cenni biografici.
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