BIOGRAFIA
(n.
1798 - m- 1849) - Re di Sardegna 1831 -1849
Con Carlo Alberto,
salì al trono di Sardegna il ramo dei Savoia-Carignano
che successe al ramo primogenito della Dinastia Sabauda.
I Savoia-Carignano avevano avuto per capostipite, come vedemmo,
il principe Tomaso, secondogenito del duca Carlo Emanuele
I, nato il 21 dicembre 1596, morto il 22 gennaio 1656.
Quando si trattò del matrimonio di questo Savoia con
la principessa Maria di Borbone, contessa di Soissons, il
padre lo creò marchese di Busca, ma questo titolo non
piacque alla Corte di Francia. Allora Carlo Emanuele diede
a suo figlio il titolo di principe di Carignano, che fu giudicato
accettabile e degno di essere portato dalla figlia di Carlo
di Borbone, conte di Soissons e di Dreux.
Di Tomaso di
Carignano noi avemmo occasione di occuparci diffusamente,
in alcune delle precedenti biografie. Lo vedemmo valorosissimo
capitano nelle guerre di Carlo Emanuele I ed in quelle di
Fiandra contro i Francesi, e accennammo alla grave guerra
civile che suscitò poi in Piemonte, insieme col fratello
cardinale Maurizio, contro la reggenza di Madama Reale.
Risolto il dissidio per la successione di Savoia, egli si
coprì di gloria con lo scacciare gli Spagnoli dal Piemonte
e col combattere in Francia come luogotenente generale di
Luigi XIV.
Ebbe cinque figli,
il primo dei quali, Emanuele Filiberto (1628-1709), fu sordomuto
ma intelligentissimo, tanto da riuscire dotto in scienze e
lettere ed anche valoroso soldato.
Degno fratello di questo principe fu Eugenio Maurizio (1633-1673),
primo conte di Soissons, che dalla carriera ecclesiastica
passò a quella delle armi, nella quale molto si distinse,
combattendo egli pure per Luigi XIV nei Paesi Bassi. Figlio
di questo Eugenio Maurizio e di Olimpia Mancini, fu il celebre
Principe Eugenio, al quale dedicammo uno speciale cenno biografico.
Primogenito di
Emanuele Filiberto di Carignano fu Vittorio Amedeo (1690-1741),
famoso per la vita dissoluta che condusse in Francia e in
Piemonte. Questo Vittorio Amedeo sposò una figlia naturale
di Vittorio Amedeo II, Vittoria Francesca, nata dalla contessa
di Verrua e legittimata. Degli otto figli ch'egli ebbe, il
continuatore della linea Savoia -Carignano fu Luigi Vittorio,
che, molto amato da Carlo Emanuele III, manifestò eccellenti
qualità militari, raggiunse alti gradi nell'esercito,
e sposò (1740) Cristina Enrichetta d'Assia Rheinfels-Rottenburg
(sorella della regina Polissena, terza moglie di Carlo Emanuele),
dalla quale ebbe, nove figli, il primogenito dei quali, Vittorio
Amedeo, continuò a sua volta la linea dei Carignano,
lasciando un unico figlio: Carlo Emanuele (1770-1800), che
dopo aver militato con valore dal 1793 al 1796, sposò
Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia e si acquistò
fama di uomo liberale, quindi degenere dalle tradizioni aristocratiche
e assolutistiche fino ad allora seguite dai Savoia.
Figlio di questo
Carlo Emanuele fu il principe Carlo Alberto, nato in Torino
il 2 ottobre 1798, e destinato ad avere una parte tanto importante
nella storia d'Italia.
Dopo avere accennato
agli antenati di questo principe e prima di parlare dei fatti
della sua vita, sarà opportuno un rapido sguardo all'ambiente
in cui egli nacque.
Le idee liberali risvegliate dalla guerra d'America avevano
messa in agitazione tutta la gioventù dell'epoca, e
Carlo Emanuele di Carignano, educato in un collegio francese,
ne era uscito imbevuto di quelle idee, tanto da scandalizzare
la più vecchia aristocrazia piemontese.
Questa aristocrazia provò poi una specie di sbigottimento,
quando, sposata Albertina di Curlandia, Carlo Emanuele, stabilitosi
con la moglie in Torino, nel palazzo di Carignano, vi portò
un soffio di vita nuova, fatta di fasto e d'allegria, di eleganza
e di spensieratezza. I ricevimenti, le feste da ballo, i grandi
pranzi, si susseguirono senza tregua, in quella residenza
principesca, e all'alta società torinese, eccettuati
i parrucconi, non tardarono a piacere quella libertà
e quella cordialità con cui la giovane principessa,
cresciuta lontana dall'etichetta e dalle soggezioni di qualsiasi
Corte, amava accogliere i suoi invitati.
In quel periodo
soleva frequentare il palazzo Carignano anche Carlo Felice,
figlio del re, quantunque lo irritasse (come egli lasciò
scritto in certe sue lettere) il modo di vestire della principessa,
sempre alquanto bizzarro. Il fascino di Albertina vinse a
poco a poco anche i più restii, che d'altronde si sentivano
soffocare nella pesante atmosfera della Corte, dove incombeva
la paura dei rivoluzionari francesi, lombardi e piemontesi,
mentre nessuno era capace di far qualcosa per evitare la burrasca
che si sentiva imminente. E intorno al principe e alla principessa
di Carignano che non escludevano dai loro ricevimenti chi
manifestasse tendenze liberali, s'introdussero anche degli
abili agenti francesi, incaricati di far proseliti alla causa
della rivoluzione. Così, quando Carlo Emanuele IV dovette
rassegnarsi ad andarsene da Torino con tutta la sua famiglia,
i Carignano, riconosciuti come amici dei rivoluzionari, rimasero
indisturbati nel loro palazzo.
E più
tardi, allorché Torino si costituì in Repubblica
democratica, essi non esitarono ad aderire al nuovo regime.
Carlo Emanuele si arruolò nella Guardia nazionale come
un cittadino qualunque, rinunciando ai propri eventuali diritti
alla corona sabauda e privandosi, per donarli patriotticamente
alla Repubblica, dei propri gioielli, non escluso il collare
dell'Annunziata.
Sua moglie, divenuta la cittadina Albertina, e più
di lui infatuata per le novità repubblicane, andò
in giro per Torino, tenendo in braccio il piccolo Carlo Alberto
nato da un paio di mesi, a guardar ballare nelle piazze intorno
agli alberi della libertà « piantati,
osserva uno storico, da quei medesimi francesi che il
2 settembre 1792 avevano fatto, a Parigi, così feroce
strazio della principessa Maria Teresa di Lamballe, zia del
marito di Albertina ».
Nonostante tutto
questo, la fede repubblicana dei principi di Carignano sembrò
sospetta ai repubblicani francesi, ai quali facevano anche
gola i molti beni posseduti da Carlo Emanuele; sicché
quando le sorti della Repubblica parvero vacillare, la coppia
principesca venne portata in ostaggio a Chaillot, dove visse
nella casa di un certo Villement, addetto alla polizia e incaricato
di sorvegliarla.
Carlo Emanuele vi morì di paralisi, il 16 agosto, lasciando
Carlo Alberto, che non aveva ancora due anni, e una bambina,
Maria Elisabetta, di quattro mesi appena.
Rimasta vedova,
la madre di Carlo Alberto, che non avrebbe saputo starsene
lontana dalla politica, non volle lasciare Parigi, dove, assistita
dal conte Alessandro di Saluzzo, suo lontano parente, riuscì
poi, sotto il Consolato e l'Impero, a rivendicare una parte
dei beni del figlio e a conquistarsi la simpatia di Napoleone.
Questi si prese a cuore la sorte del giovane Carlo Alberto,
lo autorizzò ad adottare uno stemma speciale, come
conte di Carignano, e lo nominò luogotenente del 6°
reggimento di dragoni francesi. Si disse allora che Napoleone
era generoso col figlio perché si era invaghito della
madre, alla quale voleva far sposare un principe della propria
Casa.
Questo può essere vero, ma sta il fatto che la principessa
di Carignano, piuttosto che con un Napoleonide, preferì
rimaritarsi con un oscuro visconte Thibaud de Montléart,
semplice uditore al Consiglio di Stato, brutto, piccolo, claudicante,
figlio di una dama francese che era stata alla Corte sabauda
di Torino.
Carlo Alberto,
mentre sua madre rimaritata viaggiava per l'Europa con missioni
politiche, si vide sbalestrato qua e là. Finì
poi con l'esser messo in una pensione, tenuta, presso Ginevra,
da un certo professore Vaucher, protestante, entusiasta di
Giangiacomo Rousseau. Così egli crebbe abbandonato
a sé stesso, con la mente piena di fantasticherie e
il cuore gonfio di rammarichi, senza poter nutrire affetto
per la madre, né simpatia per alcuno, diventando per
forza di cose, sempre più scettico, mentre si preparava
alla vita « senza un indirizzo morale e mentale
che fosse ben determinato».
Le condizioni
speciali dei Carignano e l'esilio dei Savoia avevano impedito
al re di Sardegna di chiamare presso di sè il giovane
principe, unico rampollo della famiglia; ma Vittorio Emanuele
I ci pensava, e il suo desiderio doveva essere condiviso dalla
principessa Albertina, che certo avrebbe visto con piacere
il figlio al posto che gli spettava. La Restaurazione, finalmente,
permise di regolarizzare la condizione singolarissima del
principe di Carignano, che poté finalmente esser condotto
a Torino, per occupare nella famiglia del Re di Sardegna il
posto a cui aveva diritto.
Pure essendo
erede presuntivo della corona, poiché il re e suo fratello
Carlo Felice non avevano prole maschia, egli dovette sentirsi
alquanto a disagio, a Corte, dove non poteva esser ben visto
a cagione della sua educazione liberale e del grado che aveva
avuto nell'esercito napoleonico.
« Solo per il vantaggio di vedere perpetuata la
dinastia e quindi delusa l'Austria nell'intima brama di goder
le spoglie della Casa di Savoia, nota Italo Raulich,
Carlo Alberto venne ammesso a far parte della famiglia
reale, che però non poteva dissimulare una certa alterigia
verso di lui, per il torto ch'egli aveva di esser nato da
un padre il quale, a vergogna e scandalo de' suoi parenti,
aveva osato stingersi di liberalismo. Il giovane si trovò
così, in quell'arcigna Corte di Torino, a dover diffidare
di tutti, e benchè capace di tenerezza e d'affetto,
crebbe freddo, taciturno, sospettoso».
Nominato «
gran mastro » d'artiglieria, Carlo Alberto si diede
con passione allo studio, delle scienze militari. Nel 1817
sposò Maria Teresa, figlia di Ferdinando III, granduca
di Toscana, dalla quale ebbe, nel 1820, il primo figlio, che
fu Vittorio Emanuele duca di Savoia, il futuro Re d'Italia.
« Carlo
Alberto, riassume un altro storico, era spettatore di tutti
gli errori a cui ministri appassionati e ignoranti traevano
il re Vittorio Emanuele I, il quale nel lungo esilio era rimasto
estraneo al progresso che le idee politiche e sociali avevano
fatto in quel tempo. Il giovane principe, ammaestrato dalle
glorie e dalle sventure di Napoleone, educato alle grandi
riforme derivate dalla Rivoluzione francese, non poteva, senza
un senso di dolore che talora prorompeva in disapprovazione,
vedere i governanti del Piemonte sforzarsi di rialzare l'antico
edificio anteriore al 1798, ripudiando quei principi di progresso
che ormai avevano ricevuto dal consenso delle nazioni civili
una sanzione solenne. Questa opposizione che il giovane principe
faceva al governo assoluto di quel tempo, e il sapersi come
egli fosse stato più di una volta consigliere al re
di una costituzione, e desideroso di una guerra contro d'Austria
per costringerla a sgombrare dalla terra italiana, gli procurarono
ben presto le simpatie dei liberali, non solo del Piemonte,
ma di tutte le province italiane, che in lui vagheggiavano
il futuro redentore d'Italia. Così sorse la funesta
illusione dei Carbonari, i quali dal franco e liberale linguaggio
di Carlo Alberto traevano motivo di credere ch'egli si fosse
affratellato alla loro società. Dalla quale illusione
provennero poi quelle false accuse di tradimento che amareggiarono
la vita di questo principe magnanimo ed infelice ».
Si deve d'altronde
osservare che Carlo Alberto, prima come principe reggente
e poi come re di Sardegna, fu un personaggio mutevole e complicato,
la cui psicologia certamente eccezionale poté più
tardi essere interpretata in molti modi diversi. Noi ci limiteremo
ad accennare oggettivamente e sinteticamente, secondo il carattere
che questo biografia vuole avere, ai principali fatti della
vita di questo personaggio, senz'alcun preconcetto favorevole
o contrario, ricorrendo volentieri a citazioni piuttosto ampie
di qualcuno degli autori che a parer nostro ne scrissero con
maggiore imparzialità e con maggiore autorevolezza.
« L'
atto di abdicazione di Vittorio Emanuele I - scrive il
Predari, autorevole anche per relativa vicinanza di tempo
- mentre sconcertò il partito a cui Carlo Alberto
più si accostava, e che tendeva ad ottenere per mezzo
stesso del re la libertà e l'indipendenza desiderate,
rese più intraprendente l'altro partito che avrebbe
voluto avere tutto ciò senza ed anche contro il re.
Crebbe intanto il sommovimento a tal punto che il municipio
torinese, temendo, e forse anche esagerando a sé stesso
gli effetti di una violenta insurrezione popolare, mandò
una deputazione a Carlo Alberto reggente, perché gli
dimostrasse l'assoluta necessità dell'immediata promulgazione
della Costituzione, e della guerra contro l'Austria.
« Carlo Alberto tentò inutilmente di persuadere
quella civica deputazione, e coloro che ne appoggiavano la
domanda, che sarebbe stato vano e pericoloso il far concessioni
che oltrepassassero i suoi poteri di reggente. Ma tali argomentazioni
non riuscirono a persuadere alcuno di quei deputati, ai quali
pareva già di sentir tuonare il cannone dalla cittadella
e di avere davanti agli occhi i pugnali dei Carbonari. Le
istanze dei capi civici smossero a poco a poco la resistenza
dei capi militari che attorniavano il reggente... Vittorio
Emanuele aveva preferito l'abdicazione allo spargimento del
sangue cittadino; Carlo Alberto, che teneva il sommo potere
in nome altrui, doveva forse contro sì nobile esempio
riempire di stragi la capitale?
"Quindi,
in tali estremi frangenti, cedendo alla suprema necessità
delle cose, egli dichiarò di non avere facoltà
di toccare le leggi fondamentali dello Stato; soggiunse che
era necessario aspettare perciò gli ordini del nuovo
re, e che tutto ciò ch' egli, come semplice reggente,
avrebbe potuto fare nel senso dell' opinione pubblica, sarebbe
stato nullo; che frattanto, se tutte le autorità presenti
credevano necessario di condiscendere alle domande degl'insorti
per evitare maggiori disastri, egli avrebbe permesso che si
pubblicasse la Costituzione di Spagna, purché tutte
le autorità suddette unanimemente consentissero a sottoscrivere
la seguente dichiarazione
"Noi sottoscritti, interpellati da S. A. R. il principe
reggente, dichiariamo che le circostanze attuali sono così
gravi, e che il pericolo é così imminente, da
farci pensare che per la salute pubblica e per la necessità
delle cose sia indispensabile di promulgare la Costituzione
spagnola con le modifiche che S. M. il Re la Rappresentanza
nazionale giudicheranno convenienti".
Questa dichiarazione
fu sottoscritta il 13 marzo 1821 da tutte le autorità
civili e militari, e, dopo la firma di essa, Carlo Alberto
promulgò la Costituzione, con un proclama nel quale
affermava di promulgarla « nella fiducia che S.
M. il Re, mosso dalle stesse considerazioni, sarà per
rivestire questa deliberazione della sua sovrana approvazione
». Ed anch'egli giurò fedeltà alla
Costituzione, ma aggiungendo queste parole: «Giuro
altresì d'essere fedele al Re Carlo Felice ».
Ma, da Modena,
Carlo Felice non solo rifiutò la sua sanzione alla
Costituzione, ma protestò violentemente contro ogni
atto della reggenza. E Carlo Alberto « attribuendo
la sdegnosa pertinacia del Re nel rifiutare la Costituzione,
più che all'animo suo alle arti di chi a Modena lo
circondava e lo ingannava con false relazioni circa il vero
stato del regno, scrisse e riscrisse al Re stesso per meglio
illuminarlo ».
Carlo Felice,
tuttavia, rimase inflessibile; con una lettera imperiosa,
intimò a Carlo Alberto di recarsi a Novara, dove il
generale La Tour gli avrebbe comunicati i suoi ordini. Carlo
Alberto, che «credeva non potere, senza farsi spergiuro,
resistere ai comandi di un re cui aveva giurata fedeltà
», obbedì. A Novara trovò l'ordine
di proseguire senza interruzione fino a Modena, dove era chiamato
a render ragione di quanto aveva fatto, ed obbedì ancora,
«forse anche persuaso, osserva giustamente
uno storico del nostro Risorgimento, che una diversa condotta
avrebbe soltanto aggravate le condizioni del paese, tanto
più considerando che province intere, come Savoia e
Nizza, rimanevano fedeli all'assolutismo, che Genova era agitata,
ma non decisa a sostenere una lotta d'accordo con i Carbonari
del Piemonte; e che nel Piemonte stesso la costituzione era
stata voluta da una parte dell'esercito e da una minoranza
borghese non già dalla grande maggioranza del popolo
».
Giunto a Modena,
Carlo Alberto non fu nemmeno ricevuto dall' inesorabile Carlo
Felice, che gli ordinò di recarsi con la moglie Maria
Teresa e col figlioletto Vittorio Emanuele (che aveva allora
poco più di un anno) a Firenze, presso il granduca
di Toscana, suo suocero.
Frattanto, gl'insorti piemontesi, assaliti dalle milizie regie
e da quelle austriache presso Novara, erano stati sconfitti.
La rivoluzione
finì, seguìta dalla terribile reazione a cui
già accennammo parlando di Carlo Felice. Questi rientrò
in Torino da vincitore, come dicemmo, e Carlo Alberto rimase
con la sua famiglia a Firenze, nella villa di Poggio Imperiale.
« Il duca di Modena e l'imperatore d'Austria,
nota un biografo, sollecitavano il Re di Sardegna perché
privasse il principe di Carignano del diritto di succedergli
nel regno, abolendo la legge salica. E forse avrebbero ottenuto
il loro intento, se Luigi XVIII re di Francia non vi si fosse
opposto per provvedere alla sicurezza del suo regno, la quale
sarebbe stata minacciata, quando il Piemonte e la Savoia fossero
venuti in dipendenza dell'Austria. In questa opposizione si
unì al re di Francia anche l'imperatore di Russia,
il quale non poteva vedere di buon occhio un ulteriore accrescimento
della potenza austriaca. Anzi, per questi gelosi pensieri,
la Francia e la Russia chiesero che al più presto passibile
sgombrassero gli eserciti austriaci occupanti il Regno di
Napoli e il Piemonte. E vollero che la legge di successione
fosse mantenuta qual'era negli Stati Sardi, eccetto il caso
che il principe di Carignano risultasse veramente reo di fellonia,
cioé partecipe di una congiura tendente a porre sul
suo capo la corona di Casa Savoia, sottraendola al legittimo
re Carlo Felice».
Adunatosi nell'autunno
del 1822 il Congresso della Santa Alleanza, in Verona, Carlo
Alberto giudicò opportuno inviare al Congresso stesso
un memoriale giustificativo della propria condotta di fronte
alla rivoluzione piemontese delI' anno antecedente.
« Ma le Potenze - riassume un altro biografo
- vollero da lui una prova certa del suo ravvedimento;
ed egli dovette lasciare la moglie e i due figli (poiché
nel frattempo, il 15 novembre 1822 in Firenze, gli era nato
il secondogenito, Ferdinando) ed imbarcarsi per Marsiglia
di dove passò, granatiere volontario nel corpo francese
di spedizione che il duca di Angouléme conduceva in
Spagna a combattere contro i costituzionali spagnoli, nelle
file dei quali militavano numerosissimi i profughi piemontesi,
lombardi, emiliani e napoletani del 1821. Così la posizione
di Carlo Alberto era nettamente stabilita, di fronte al principio
rivoluzionario, contro il quale muoveva armata mano"
« Scettico, sfiduciato, da diversi sentimenti combattuto,
Carlo Alberto diede prova in Spagna di quel coraggio disperato
che é proprio di chi tutto risica, sapendo di non avere
gran che da perdere e tutto da guadagnare. Il 23 agosto 1823
alla presa del Trocadero, davanti a Cadice, si meritò
le spalline di ufficiale dei granatieri; e, finita la guerra,
tornò in Francia dove, fermatosi un poco a Parigi,
gli piovvero addosso encomi ed onorificenze dal restaurato
re di Spagna, dal re Luigi XVIII, dal conte d'Artois, che
fu poi Carlo X.
Dalla corte di Francia fu interceduto per lui presso il re
Carlo Felice, che lo riammise in Piemonte, nell'avito castello
dei Carignano, a Racconigi, con la famiglia; lo nominò
maggior generale nell'esercito, e lo riconobbe per erede.
La conciliazione col re fu definitivamente suggellata in un
convegno seguìto nell'estate del 1825 in Genova con
l'Imperatore d'Austria e con Carlo Felice ».
"Morto
Carlo Felice nel 1831, il regno di Carlo Alberto ebbe inizio
con grandi feste e fra grandi speranze. I Piemontesi si aspettavano
dal nuovo sovrano grandi novità ed anche uno statuto
costituzionale. « Ma, sia che l'animo suo a ciò
non fosse disposto, sia che non gli paresse forte abbastanza
il Piemonte per sfidare gli sdegni e le vendette dell'Austria,
le cose rimasero nel primordi del suo regno, quali erano state
lasciate da Carlo Felice. Gli accusati dell'ultima congiura
furono rimessi in libertà, ma i condannati del ventuno
rimasero nelle carceri e nell'esilio; fu creato un consiglio
di Stato, ma i consiglieri e le materie da discutersi erano
ad arbitrio del re, il voto era puramente consultivo ».
Carlo Alberto
nominò ministro guardasigilli il conte Barbaroux, uomo
integerrimo ed assai dotto, che nella Giustizia del regno
introdusse opportune riforme, soprattutto abolendo certe pene
corporali e comunque eccessive, mentre una Commissione speciale
veniva incaricata di preparare il nuovo Codice civile e il
nuovo Codice penale, «informati a criteri di civiltà
progressiva». (Questi codici vennero poi promulgati
solennemente, il primo il 20 giugno 1837, il secondo il 26
ottobre 1839).
Ma il nuovo re
si occupò in modo particolare dell'esercito, che riformò
ed aumentò, secondo i consigli del Villamarina, ministro
della guerra. Gli effetti dei miglioramenti risultarono superiori
alle previsioni quando, nel 1839, tutte le milizie del regno
di Sardegna vennero adunate al campo d'istruzione di Cirié,
dove i commissari francesi ed austriaci, inviati dai loro
governi, ebbero modo di formarsi di quell'esercito, e specialmente
della sua artiglieria, un ottimo concetto.
Frattanto, la
vecchia Corte piemontese aveva verso il nuovo re un contegno
sospettoso, e gli era nascostamente contraria. Tuttavia, vedendolo
irresoluto ed assai propenso alle pratiche religiose, non
disperava di dominarlo. « Clericali e sanfedisti
si studiavano di renderlo nemicp dei liberali, devoto all'Austria
ed al papa. I ministri Della Torre, d'Escaréne, Pralormo,
erano partigiani dell'Austria; il conte Bombelles austriaco,
e monsignor Tiberio Pacca spadroneggiavano nella Corte ».
Era allora in
circolazione, in Piemonte ed anche negli altri Stati italiani,
la famosa lettera di Giuseppe Mazzini intitolata "A Carlo
Alberto di Savoia, un italiano". Il grande apostolo aveva
concepito e propugnava l'idea dell'Italia unita sotto lo scettro
costituzionale del re di Sardegna. La lettera diceva a Carlo
Alberto « S'io vi credessi un re volgare, d'anima
inetta o tiranna non v'indirizzerei la parola dell'uomo libero...
La natura creandovi al trono vi ha creato anche ad alti concetti
ed a forti pensieri, e l'Italia sa che voi avete di regio
più che la porpora... Vi fu un momento - continuava
Mazzini - in cui le madri maledissero il vostro nome e
le migliaia vi salutarono traditore, perché voi avevate
divorata la speranza e seminato il terrore... Terrore, sire!...
Ma il vostro cuore lo ha già rinnegato, la é
carriera di delitto e di sangue; né voi vorrete farvi
il tormentatore dei vostri sudditi.
Dio vi ha posto al sommo grado della scala sociale, vi ha
cacciato al vertice della tirannide. I milioni stanno d'intorno
a voi, invocandovi padre, liberatore. E voi?! darete ferri?...
porrete il carnefice accanto al trono?... ricaccerete l'umanità
nel passato?... GIi italiani vogliono libertà, indipendenza
ed unione... La Corona d'Italia non aspetta che l'uomo abbastanza
ardito per concepire il pensiero di cingerla... Ponetevi alla
testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera: "Unione,
Libertà, Indipendenza"; proclamate la santità
del pensiero; dichiaratevi vindice, interprete dei diritti
popolari, rigeneratore di tutta Italia! Liberate l'Italia
dai barbari! Edificate l'avvenire... Incominciate un' era
da voi!... Siate il Napoleone della Libertà italiana...
Prendete quella Corona, essa é vostra, purchè
vogliate ».
Carlo Alberto
(dice un biografo imparziale) non ascoltò la voce di
Mazzini, la voce del patriottismo italianoe, per allora, risposa
con l'editto 25 ottobre 1831 incaricando il conte Benedetto
Andreys di Cimiè, consigliere di Stato, di continuare
le procedure tanto contro i militari quanto contro i borghesi
imputati di tentativi contro il bene delle istituzioni. Si
perseguitavano perfino i preti a profitto dei gesuiti; era
sorvegliato Vincenzo Gioberti; si stabiliva una censura così
stretta e ridicola che la famosa congregazione dell'Indice
poteva parere a suo confronto un istituto molto liberale.
E' vero che nel 1832 Carlo Alberto istituiva la Pinacoteca
Reale, fondava nel 1833
l'Accademia Albertina; ma nello stesso tempo, con regio editto
4 agosto 1833 stabiliva che la cognizione dei delitti militari
o come tali dalla legge considerati ancorché commessi
da persone non addette alla milizia doveva appartenere esclusivamente
ai Consigli di guerra. "Editti di Carlo Alberto firmati
dai ministri Caccia, Pensa, Barbaroux, d'Escaréne,
comminavano - scrive Mazzini - a chi non denunciasse
i possessori dei numeri del giornale la Giovine Italia, due
anni di prigione e l'ammenda, promettendosi ai delatori metà
della somma e il segreto".
Questa era la
risposta categorica di Carlo Alberto all'appello italianissimo
rivoltogli da Mazzini; ed una Commissione Criminale speciale
veniva istituita per giudicare le cospirazioni procedenti
dalla Giovine Italia. Essendosi poi scoperto che
nel tentativo del febbraio 1831 erano compromessi alcuni militari
delle guardie, l'intero corpo veniva senz'altro disciolto;
ed ordinavasi ogni cosa alla più reazionaria inquisizione
».
Verità,
queste, purtroppo innegabili, sulle quali alcuni storici recenti
preferirono sorvolare, dimenticando volutamente che nella
storia l'eloquenza dei fatti rimane indelebile, anche se negata
o trascurata.
«La
scoperta - riassume Italo Raulich - di alcuni opuscoli
della "Giovine Italia" nella caserma d'artiglieria
a Genova fece temere d'improvviso al governo sardo una grave
sedizione, sicché ricominciò subito, con gli
arresti di tutti i sospetti, la repressione più fiera
(1833). Il Piemonte giacque così per qualche tempo
sotto il regime del terrore e dell'arbitrio militare e poliziesco,
sia nei processi che nelle sentenze. Parecchi soldati, tra
cui l'ufficiale Efisio Tola di Sassari, furono moschettati,
perché rei di aver diffuso gli scritti della "Giovine
Italia" nell'esercito; Andrea Vochieri di Alessandria,
ritenuto uno dei capi, fu pure condannato a morte, perché,
nonostante le promesse d'impunità, non volle denunziare
i suoi complici. Per crudeltà di vendetta e per ordine
del conte generale Galateri, governatore di Alessandria e
tristo servo di tirannide, il condannato, nell'andare alla
morte, fu fatio passare sotto le finestre di casa sua. Jacopo
Ruffini di Genova, giovane medico e uno dei più devoti
amici di Mazzini, si svenò in carcere con un chiodo,
per timore forse che un giorno le grandi torture gli togliessero
la forza di resistere alle insidie inquisitorie dei giudici.
Per fortuna, i suoi due fratelli Agostino e Giovanni poterono
con la fuga sottrarsi in tempo alla morte, sicché l'arte
ebbe poi da Giovanni, esule in Inghilterra, quelle due gemme
letterarie che sono il "Dottor Antonio" e il "Lorenzo
Benoni". E ritirarsi in terra straniera dovette allora
anche Vincenzo Gioberti, il quale, accusato di aver detto
a qualcuno "in Francia si farà la repubblica e
i fuorusciti la porteranno a noi", fu prima chiuso in
carcere per qualche mese, e poi senza processo condannato
all'esilio».
Seguì,
nel 1834, la spedizione mazziniana di Savoia, che diede luogo
ad una nuova feroce reazione, e ancora per dieci anni continuò
in Piemonte il regime dispotico, con Carlo Alberto dominato
dai partigiani dell'Austria e dai clericali, nemici d'ogni
libertà. I miglioramenti realizzati nel regno durante
questo periodo furono pochi e di scarsa importanza. È
giusto, nondimeno, notare che una grande probità regnò
nelle pubbliche amministrazioni, che l'erario prosperò
ed acquistò credito, che l'industria e il commercio
si rinvigorirono, che le belle arti e le scienze furono protette
e favorite. Mentre le riforme giudiziarie, alle quali abbiamo
accennato, lasciarono sussistere gravi lacune e non poche
ingiustizie".
Agli anni
1839 e 1840
- nota il biografo già citato - vanno assegnate
le prime manifestazioni di Carlo Alberto fatte ad intimi sui
propri reconditi sentimenti anti-austriaci; e nel 1841 proseguono
le riforme procedurali giudiziarie; nel luglio si ha da lui
(preceduto in questo nel 1839 dal Borbone di Napoli e nel
1840 dall' Austria nel Lombardo-Veneto) la prima concessione
ferroviaria per una linea da Genova al Lago Maggiore, d'onde
per la Svizzera fino ad Ostenda, per unire il Mediterraneo
al mare del Nord e togliere al porto austriaco di Trieste
il transito della Valigia delle Indie; con tronchi da Alessandria
a Torino e da Alessandria ad Arona. Vagheggiava anche Carlo
Alberto una ferrovia da Arona al Lago di Costanza per la val
di Blenio per il Lucomagno e la valle del Reno.
« I
sentimenti anti-austriaci del re, non impedivano una nuova
alleanza di famiglia con casa d'Austria; e nella primavera
del 1842 il suo primogenito, Vittorio Emanuele, sposava in
Torino la cugina, Maria Adelaide, -figlia dell'arciduca Ranieri,
vice-re del Lombardo-Veneto, e di Maria Elisabetta, sorella
di Carlo Alberto. In quest'occasione il re sardo si decideva
a dare finalmente un'amnistia per i fatti del 1821 dopo ventun
anni, ma col suo sistema di ibis redibis non la concedeva
intera, esplicava in un editto del 5 aprile 1842 tutta una
serie di limitazioni e di restrizioni; i compromessi e condannati
del 1833, del 1834, Mazzini, Garibaldi, i Ruffiani, tutti
gli altri ne erano esclusi; quasi a dimostrare la sua assoluta
avversione per i patrioti, che in Italia e fuori andavano
crescendo e molti dei quali non sapevano persuadersi che il
sempre reticente linguaggio di Carlo Alberto, la sua esteriore
severità, la sua faccia costantemente pallida non nascondessero
il meditato piano di soddisfare, al buon momento, a spese
dell'Austria dai patriotti odiata - il vecchio sogno dei principi
di Casa Savoia, la conquista dell'agognata Lombardia.
Gli apologisti di Carlo Alberto dicono che a questo fine egli
preparava l'esercito piemontese, ma uno storico non sospetto,
Vittorio Bersezio, dice che il re « amava solo le parate,
gli sfilamenti e si perdette in pedanterie, invece che curarsi
dei difetti, ed avere considerazioni di guerra ».
Non si può
negare, tuttavia, che Carlo Alberto continuasse, a sbalzi,
a rivelarsi contrario all'Austria e sognatore dell'indipendenza
italiana, alla quale aspiravano allora più che mai
le menti più elette, nel Piemonte come in tutta la
penisola. È di allora uno scritto di lui, così
concepito:
«Ad onta del piccolo, anzi piccolissimo, partito
austriaco o retrogrado, io sono fermamente risoluto di procedere
oltre nella via del progresso, in tutto ciò che può
avere per scopo la felicità del popolo e l'incremento
del nostro spirito nazionale... Se si volesse eliminare dal
nostro paese lo spirito anti-austriaco, bisognerebbe cominciare
dal cacciare me stesso ».
Intanto si andavano
realizzando in Piemonte altri non trascurabili miglioramenti
nel campo legislativo ed in quello della cultura, e Torino
veniva notevolmente abbellita. In questa città si tenne
nel 1840 un memorabile Congresso dei Dotti italiani. Negli
anni successivi, mentre in tutti gli Stati italiani ingigantiva
il sentimento patriottico e si moltiplicavano i tentativi
dei patrioti, continuarono le manifestazioni d'italianità
di Carlo Alberto, ma seguite spesso da contraddizioni, da
pentimenti, da indietreggiamenti per i quali i patrioti adottarono
per il re di Sardegna l'espressivo soprannome di "Re
Tentenna", derivato da una satira in versi divenuta rapidamente
popolare.
(vedi
qui in originale l'intera singolare satira "Re tentenna"
> > > )
*
* * *
Finalmente, nell' ottobre del 1847, Cardo Alberto fu trascinato
dall'esempio del nuovo papa Pio IX e del granduca di Toscana
a cedere al crescente fermento popolare e accordare larghe
e liberali riforme. Fu sanzionato il codice di procedura penale
con la difesa orale e la pubblicità delle discussioni;
vennero soppresse le giurisdizioni eccezionali; fu abolito
ogni privilegio di foro civile, anche per il regio patrimonio;
fu creata una Corte di cassazione per l'unità della
giurisprudenza in tutto il regno; furono migliorati i regolamenti
di polizia, gli ordinamenti municipale e provinciale, le norme
del contenzioso amministrativo; vennero stabiliti i registri
di stato civile indipendenti dalle autorità ecclesiastiche;
mitigati i rigori della censura sulla stampa.
Abbiamo
qui le pagine a
pieno schermo autografe di C. A. con l'intero testo > >
>
documento n. 1802, presente solo nel CD per l'enorme numero
di Kb )
« Questi
decreti, che distruggevano antichissimi abusi, furono accolti
con gioia indicibile, non solo in Piemonte, ma in tutte le
province d'Italia, quasi presaghe che a tutte loro sarebbero
un giorno estesi quei benefici di progresso civile. Feste
e tripudi inenarrabili seguirono a Torino nella sera del trentuno
ottobre, giorno della pubblicazione delle acclamate riforme,
e in quella del 3 novembre, vigilia del giorno onomastico
del sovrano.
I
manifesti di quel giorno e alcune immagini del tempo in
STORIA ANNO 1848 > > >
Carlo Alberto,
aggirandosi per le ampie e affollate vie della sua capitale,
senza guardie, e con i soli suoi figli al fianco, poté
vedere e comprendere quanto tesoro di affetto vi era per lui
in seno al popolo piemontese.
Partendo nel giorno
seguente per Genova, Carlo Alberto passò sotto una
volta formata da più di duemila bandiere, coperto da
un nembo di fiori, fra gli applausi e le grida festose di
una moltitudine immensa. Il suo viaggio fu un vero trionfo.
«Infine
il Re coronava l'opera delle riforme con la formazione di
uno Statuto fondamentale, promesso ai popoli del regno con
regio decreto dell'8 febbraio 1848, e basato sulle più
sicure garanzie di libertà : responsabilità
dei ministri; potere legislativo esercitato collettivamente
dal re e da due Camere, la prima a nomina regia, ila seconda
elettiva; libertà della stampa; inviolabilittà
della libertà personale; milizia civica; inamovibilità
dei giudici ».
Lo Statuto era
stato promulgato in Piemonte da pochi giorni, quando a Parigi
la rivoluzione iniziatasi il 22 febbraio rovesciò il
trono di Luigi Filippo. Poco dopo scoppiarono le altre rivoluzioni
di Vienna, di Berlino, di Venezia, di Modena, di Milano (Cinque
Giornate). Il 23 marzo venne pubblicato il seguente proclama
di Carlo Alberto alle popolazioni della Lombardia e della
Venezia:
« I destini d'Italia si maturano: sorti felici arridono
agli intrepidi difensori di conculcati diritti. Per amore
di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti,
Noi ci associamo primi a quell'unanime ammirazione che vi
tributa l'Italia. Popoli della Lombardia e della Venezia,
le nostre armi, che già si concentravano sulla vostra
frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa
Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto
che il fratello aspetta dal fratello, dall'amico l'amico.
Seconderemo i vostri giusti desideri, fidando nell'aiuto di
quel Dio ch'é visibilmente con noi, di quel Dio che
ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi
impulsi pose l'Italia in grado di fare da sé. E per
meglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione
italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio
della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia
sovrapposto alla bandiera tricolore italiana ».
« Carlo
Alberto - commenta giustamente Italo Raulich - benché
vagheggiasse di cacciar l'Austria dall' Italia, sapeva a quale
grave rischio mettesse il regno, portando il suo piccolo esercito
a misurarsi con un così potente impero, quando, senza
tener conto della Francia in rivoluzione, la Russia, perfino
con minacce, era contraria alla politica bellicosa del Piemonte,
e l'Inghilterra dissuadeva apertamente dalla lotta. Ma il
fervore d'armi che, alla notizia dell'insurrezione milanese,
avevano indotto immediatamente Torino, Genova e le altre città
del regno a chiedere a gran voce la guerra, e l'irrequieta
brama di cogliere, alfine, la tanto aspettata occasione di
gettarsi sull'Austria erano stati più forti dei consigli
di prudenza e dei timori della diplomazia».
Non ripeteremo
qui una narrazione particolareggiata della prima guerra del
Risorgimento italiano (vedi in proposito
le pagine in "Riassunti
Storia d'Italia" ) . Ci limiteremo a riassumere,
col Predari:
«Da ogni parte della penisola giungevano gli Italiani
per combattere la guerra sacra contro l'Austria; ma erano
bande volontarie, senza ordine, senza disciplina, senza perizia;
vi andavano pure milizie ordinate di Toscani, di Pontifici
e di Napoletani. Gli Austriaci riparavano dietro il Mincio,
tra le fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago. L'esercito
nazionale, benedetto da Pio IX, che anche profferiva a Roma
la sua mediazione, basata sul patto che tutte le truppe austriache
abbandonassero gli Stati italiani, si copriva di gloria a
Goito (8 aprile e 29 maggio), a Pastrengo (30 aprirle), a
Peschiera (30 maggio), a Rivoli (10 giugno), a Governolo (18
Iuglio), dove i Piemontesi rinnovarono le prove del loro antica
valore tradizionale.
"Carlo
Alberto, che dimostrava per ogni suo personale interesse e
per la propria vita uno stoico disprezzo, andava a piantarsi
dove maggiore era il grandinare delle artiglierie austriache;
le palle e le bombe atterravano, squarciavano a dritta e a
manca chi gli stava vicino, le schegge sibilavano per l'aria,
lo spruzzavano di terra; ed egli sereno, quasi che si trovasse
ad una cerimonia, osservava, consultava, disponeva, avendo
nel coraggio e nell' imperturbabilità emuli i suoi
figli ».
Ma presto cominciarono
i rovesci. L'Austria era troppo forte per non poter vincere,
alla fine, quella guerra. Ed infatti il maresciallo Radetzky,
avuti rinforzi considerevoli, assalì Vicenza, dove
le milizie venete e romane si difesero valorosamente (10 giugno);
indi, fatte occupare, salvo Venezia, le altre città
del Veneto, investì i Piemontesi, che in linea troppo
lunga e sottile si stendevano da settentrione di Verona sin
nelle paludi del Mantovano, e dopo parecchi combattimenti
(in alcuni dei quali i Piemontesi furono vincitori) li sconfisse
a Custoza (25 luglio).
Cominciò
una ritirata difficilissima. Carlo Alberto, chiamato dai Milanesi,
accorse alla capitale lombarda, trascurando le ragioni militari,
che lo consigliavano a piegare sulla fortificata Piacenza.
A Milano fu vinto di nuovo (4 agosto). Allora fu costretto
a negoziare coi nemici, che gli consentirano di ritirarsi
oltre il Ticino. Indi fu stipulato dal generale Salasco l'armistizio
col quale le cose vennero rimesse nelle condizioni di prima
della guerra (9 agosto 1848).
"Carlo
Alberto per Vigevano ed Alessandria tornò a Torino,
oppresso da un dolore che si vedeva e tormentato dall'infinita
schiera di progettisti politici, militari, competenti e incompetenti,
che tutti volevano dare i loro consigli, aggiungendo, la maggioranza,
eccitamenti a continuare la guerra, come se si potesse continuarla
senza danari, senza munizioni, con l'esercito stanco e demoralizzato,
e col paese diviso dai partiti ».
"La
guerra fu ripresa nel marzo del 1849 quasi dal solo esercito
piemontese che, a furia di sacrifici e con una leva fra i
20 e i 40 anni, aveva raggiunto il numero di 90 000 combattenti.
A capo di quell'esercito, per una spontanea rinunzia del sovrano
e per l'insufficienza dei suoi generali, fu messo il polacco
Czarnowsky che si era distinto nelle guerre per l'indipendenza
del suo paese, e fu un nuovo errore, non conoscendo quel generale
né il linguaggio né i costumi de' suoi soldati
ed essendogli affatto ignoto il teatro della guerra. A capo
dello Stato Maggiore era il generale Lamarmora, e i due principi
reali erano a capo di due delle sette divisioni onde si componeva
l'esercito combattente. Il grosso di questo esercito, appena
sceso in campo, fu scaglionato lungo il Ticino da Oleggio
alla Cava e con maggiore compattezza verso la strada fra Novara
e Milano.
« Il
disegno del comandante supremo - riassume un altro storico
del Risorgimento - era di marciare direttamente sulla
metropoli lombarda e di coprire, voltando fronte, il Piemonte
nel caso che il nemico avesse tentato di invaderlo. Ma il
vecchio ed abile suo competitore maresciallo Radetzkv, che
vantava oltre 100.000 uomini bene agguerriti e generali praticissimi,
non gli diede il tempo di attuare quel disegno. Egli pensò
di riunire le sue forze presso Pavia e di lì entrare
subito nel Piemonte, per una immediata e decisiva battaglia;
e all'alba del 20 marzo aveva già conquistata quella
posizione, oltrepassando il fiume senza incontrare alcuna
seria resistenza.
"Una
fatalità pesava evidentemente sull'esercito avversario:
il generalissimo piemontese aveva dato un opportuno ordine
al generale Ramorino, quello stesso che aveva diretta nel
1834 la disgraziata invasione mazziniana della Savoia; ma
il Ramorino, invece di portarsi con tutte le sue truppe alla
Cava, per impedire il passaggio del Ticino, era rimasto sulla
riva destra del Po, con 8000 animosi lombardi, e aveva mandati
là pochi battaglioni, che all'avanzarsi degli Austriaci
dovettero battere in ritirata.
« Un errore
più grave dall'esercito piemontese fu commesso a Magenta.
Czarnowsky e Carlo Alberto, con una mossa non meno abile di
quella del Radetzky, erano entrati a Magenta, senza incontrare
nemici; ma invece di penetrar subito in Lombardia - dove la
popolazione avrebbe intralciate le mosse degli Austriaci,
mentre il Veneto li avrebbe molestati con le insurrezioni
alle spalle - fronteggiarono il nemico, e con tardo movimento
concentrarono le loro forze fra Mortara e Vigevano. Vi giunsero
disgraziatamente quando già il generale austriaco D'Aspre,
attaccando la divisione Durando, l'aveva messa in
rotta, e si era accampato nella stessa città di Mortara,
nonostante il valore spiegato dai nostri alla Sforzesca.
E venne la sconfina
di Novara, che decise le sorti della guerra e del Principe
sabaudo. Concentrando le maggiori forze piemontesi sotto quella
città, non si badò a provvedere in modo pratico
al vettovagliamento, e la mancanza di questo contribuì
a diffondere il malumore fra le truppe già sconfortate
dalle perdite patite a Mortara. Né valsero a risollevare
gli animi le prime fortune arrise il 23 marzo alla Bicocca,
due volte perduta e due volte ripresa, e dove il Duca di Genova,
respingendo gli Austriaci, ebbe due suoi cavalli uccisi. Quella
sera, attaccate violentemente dalle truppe fresche del Radetzky,
le truppe piemontesi stanche e malnutrite furono sbandate,
mentre alla pioggia dei proiettili delle aritiglierie austriache
si aggiungevano copiose le prime piogge primaverili. Invano
il Re, pallido e fremebondo, si era lanciato, dove era maggiore
il pericolo invano aveva invocato la morte ».
A sera Carlo
Alberto entrò in Novara, dove si affollavano i soldati
in disordine, e dai ripari della città mirò
a lungo il campo di battaglia. Indi ritiratosi, e udita la
risposta che il nemico aveva fatto alla domanda di un armistizio,
giudicò inaccettabili le condizioni, e convocò
i generali. Fattosi ripetere che la continuazione della guerra
era impossibile, con calma si rivolse agli astanti, e disse
loro:
«
Ho sempre fatto ogni possibile sforzo, da diciott'anni a questa
parte, per il vantaggio dei popoli; m'é doloroso veder
fallite le mie speranze, non tanto per me, quanto per la patria.
Non ho potuto trovar la morte sul campo di battaglia, come
ardentemente desideravo. Forse la mia persona é ora
il solo ostacolo ad ottenere dal nemico un'equa convenzione.
Divenuta impossibile la continuazione della guerra, io abdico
la corona in favore di mio figlio Vittorio Emanuele, nella
speranza che il nuovo re possa ottenere più onorevoli
patti, e procurare al paese una pace vantaggiosa ».
Poche ore dopo
aver trasmessa la corona al figlio Vittorio Emanuele, il re
sventurato partì alla volta di Nizza in una piccola
vettura e con un solo domestico, dopo aver scritto una lettera
di addio alla consorte, che stava a Torino. Viaggiò,
col nome di conte di Barge, attraverso la Francia e la Spagna,
e riparò infine ad Oporto, in Portogallo, dove si stabilì
nella villetta di Entre Quintas, seminascosta tra il verde,
davanti all'Oceano. Era affranto e ammalato, e una lenta consunzione
che durò quattro dolorosissimi mesi, lo condusse al
suo ultimo giorno, che fu il 28 luglio di quell'infausto 1849.
« Serenamente
guardò in viso la morte (così narra un
biografo); sentendosi mancare, disse con filosofica rassegnazione
che sentiva di scomparire a tempo dalla scena del mondo; volle
i sacramenti della Chiesa; domandò perdono delle offese
che avesse potuto arrecare, e protestò che di buon
grado perdonava quelle a lui fatte. Morì tranquillo
e sereno ». Il suo corpo venne trasportato a Torino,
dove fu tumulato nella basilica di Superga.
Oltre a Vittorio
Emanuele, che gli successe, Carlo Alberto ebbe dalla moglie
Maria Teresa d'Austria l'altro figlio, Ferdinando, duca di
Genova (18221855), che tanto si distinse sui campi di battaglia,
come comandante veramente eroico, e che fu padre di Margherita
di Savoia regina d'Italia (moglie poi del figlio di Vittorio
Emanule, Umberto I) . Carlo Alberto ebbe anche una figlia,
Maria Cristina, che però visse soltanto un anno.
Del carattere
di questo sfortunato sovrano, così scrisse il Cilbrario,
che per molto tempo lo conobbe da vicino : « Intrepido
come un eroe sul campo di battaglia, non ebbe ugual coraggio
nelle contenzioni civili, forse per soverchia diffidenza di
sé medesimo, perché non aveva avuto negli anni
giovanili alcuna pratica di cose di Stato. Un ministro che
facesse vigoroso contrasto ad un suo desiderio era sicuro
di vederlo cedere e ritirarsi, ma solo a tempo; poiché
timido, irresoluto, tentennante in sul principio, egli tornava
a meditare il suo proposito, e quando era persuaso che questo
fosse buono; induriva la sua volontà, la quale, se
non diveniva sempre più risoluta, si faceva peraltro
ostinata, e finiva col vincere le resistenze, non con l'autorità
ma con la perseveranza e con la ragione... Si può dire
che il suo regno fu un sacrificio continuo, un atto d'abnegazione
perenne. La doppia qualità che in Carlo Alberto concorse
di principe profondamente e sinceramente religioso, e di principe
liberale, spiega quel che parve talvolta aver d'arcano la
sua condotta... Nutriva un immenso amore della gloria, un'assidua,
gelosissima cura dei morali interessi, un nobile disprezzo
dei materiali; il suo privato vantaggio pospose costantemente
al bene pubblico».
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