Carlo Emanuele
IV, successo a Vittorio Amedeo III, suo padre, nel 1796, fu
uomo d'ingegno alquanto limitato, molto religioso, di una
rettitudine assoluta. Essendo di costituzione gracilissima
ed anche affetto da una grave malattia nervosa, non ebbe,
neppure in gioventù, attitudine alcuna alle armi, e
parve quindi, e fu veramente, assai meno adatto del suo genitore
a fronteggiare la tempesta che imperversava per tutti i regnanti,
e a portare quella corona che Vittorio Amedeo gli aveva lasciata
e che egli soleva chiamare una "corona di spine".
La sua mente
era stata nutrita di buoni studi sotto la direzione del Padre
Giacinto Gerdil, professore nell'Università di Torino,
e uomo di grande dottrina, che poi divenne cardinale. Aveva
sposato Maria Adelaide Clotilde di Francia, sorella di Luigi
XVI, la quale non potè mai dargli prole. Salì
al trono a quarantacinque anni, raccogliendo l'eredità
di uno Stato esaurito da cinque guerre più o meno disastrose,
profondamente minato dai principi della Rivoluzione del 1789,
e completamente in balìa della Francia, che avrebbe
potuto dichiararsene padrona, da un giorno all'altro.
Nel Piemonte
era più facile che in qualunque altro Stato italiano
il fatale dilagare delle idee rivoluzionarie, perchè
il paese era rinserrato fra le tre repubbliche Francese, Ligure
e Cisalpina, ugualmente pervase dal giacobinismo, e non poteva
rimanere a lungo nella sua equivoca condizione di «
Stato anfibio, mezzo rosso e mezzo nero, sotto il doppio governo
del Re legittimo e dell'Ambasciatore francese ».
Eccitate dagli
spietati provvedimenti giudiziari contro i fautori della rivoluzione,
erano cominciate intanto nelle città piemontesi le
insurrezioni, che, prontamente domate ad una ad una, costarono
la vita a non pochi audaci insofferenti di freni. Seguirono
poi dei tentativi d'invasione da parte dei fuorusciti, che
vennero facilmente respinti, ed infine ebbe luogo l'attacco
di Genova, città doppiamente ostile al Piemonte, per
antiche gelosie e per il nuovo fanatismo repubblicano che
vi si era introdotto.
Questi avvenimenti
lasciarono uno strascico di attriti fra il governo regio e
il generale Brune (successore del Berthier nel comando dell'esercito
francese della Cisalpina) che impose il condono generale delle
pene inflitte ai rivoluzionari e la consegna della cittadella
di Torino. Allora la rivoluzione, « sempre più
ingorda quanto più otteneva », come dice
il Cibrario, mise in subbuglio anche la capitale Sabauda,
ed infine, col pretesto di inesistenti trame di accordo col
Regno di Napoli, allora in guerra con la Repubblica francese,
il Brune invase il Piemonte, e costrinse il Re ad abdicare
(1798).
Passando per Parma
e per la Toscana, dove andò a baciare la sacra pantofola
di Pio VI, là rifugiato, Carlo Emanuele IV riparò
in Sardegna, accolto festosamente dai fedeli isolani.
Dalla Sardegna emanò
una protesta contro l'abdicazione, che "aveva sottoscritta
- così disse - unicamente per evitare al suo popolo
gli orrori e i danni della guerra". Ma di quella
protesta non si curarono affatto nè la Francia, nè
i patrioti piemontesi.
Le vicende dell'abdicazione
erano state intensamente drammatiche. « Bisogna
resistere ad ogni costo! » aveva detto il duca
d'Aosta nel Consiglio reale ch'era stato tenuto il 7 dicembre
1798, mentre i Francesi minacciavano da tutte le parti. «
Volete dunque mandare al patibolo me e questa santa donna?
» aveva risposto il Re, additando la Regina.
L'abdicazione
era stata trattata tra il balì di San Germano,
per conto del Re, ed il generale Clausel. Le trattative erano
durate nove ore. Il Re, la Regina, il balì
di San Germano, erano stati lungamente, insieme, a commentare
il doloroso evento, ed infine, alle due del mattino dell'8
dicembre, tutti i patti voluti dai Francesi erano stati accettati,
tranne la consegna in ostaggio del duca d'Aosta, che potè
essere sostituito dal ministro Damiano di Priocca.
Il duca d'Aosta, così liberato, quando era stato invitato
a sottoscrivere la convenzione vi aveva aggiunto queste calcolate
parole : « Garantisco di non recare alcun impedimento
all'atto presente ». E il 9 dicembre alle dieci
di sera, il Re partì con la famiglia e la Corte in
trenta carrozze accompagnate da lacchè e scortate da
dragoni che portavano delle fiaccole.
Il 12 dicembre,
sotto un cielo nuvoloso, venne piantato a Torino, in piazza
Castello, l'albero della libertà. In quello stesso
giorno, il generale francese Joubert, istituì un governo
provvisorio, che fu prima di 15, poi di 25 membri. Due giorni
prima, un decreto aveva abolito in Piemonte tutti i titoli
e tutte le distinzioni.
L'inverno era
freddissimo, e il viaggio di Carlo Emanuele IV verso la terra
d'esilio fu lungo e disastroso. La regina si ammalò
a Voghera; e a Parma Joubert ordinò che il balì
di San Germano venisse separato dal re.
Nel maggio del
1799, quando gli Austro-Russi ebbero conquistato il Piemonte,
Carlo Emanuele IV venne in Toscana con la speranza di riavere
il trono, e mandò a Torino il duca d'Aosta suo fratello,
mentre la Prussia, l'Austria e la Russia discutevano se fosse
o meno il caso di restituire ai Savoia i loro domini. La discussione
fu troncata fulmineamente da Napoleone, che, vittorioso a
Marengo, reintegrò dappertutto la Francia.
Allora Carlo Emanuele
IV lasciò Firenze, si recò a rendere omaggio,
in Foligno, al nuovo papa Pio VII, indi si ritirò a
Roma, dove aveva accettata l'ospitalità offertagli
dal principe Colonna, congiunto dei Savoia-Carignano.
Diverse ragioni
indussero poi l'ex re di Sardegna a recarsi da Roma a Caserta,
presso il re Ferdinando di Napoli, indi in quest'ultima città,
dove gli morì la moglie. Questa sciagura lo abbattè
completamente. E il 4 giugno 1802, mentre tutta la famiglia
reale, ridotta alla miseria, viveva in modo assai meschino
coi sussidi che le venivano largiti dall'Inghilterra e dalla
Russia, rinunciò definitivamente alla corona, in favore
del fratello Vittorio Emanuele I, duca di Aosta.
Dopo questa seconda
e definitiva abdicazione, Carlo Emanuele IV ritornò
a Roma, dove entrò nel Noviziato della Compagnia di
Gesù, coi voti semplici, conservando il titolo e la
dignità di re, come pure una modesta corte e la facoltà
di possedere e di testamentare. Negli ultimi suoi anni di
vita ebbe molto a soffrire per i suoi mali e divenne quasi
cieco.
Morì il
6 ottobre 1819, nel convento dei Gesuiti in S. Andrea del
Quirinale, dove fu sepolto.
la
moglie: MARIA ANNA CLOTILDE DI FRANCIA
(n. 1759 - m. 1802)
La
sorella del re di Francia Luigi XVI e dei principi che poi
furono Luigi XVIII e Carlo X, Maria Anna Clotilde di Francia
nacque a Versailles il 23 settembre 1759. « Fin
dai suoi più teneri anni, scrive il Litta, questa principessa
ebbe l'intenzione di rinchiudersi in un convento delle Carmelitane
di San Dionigi, presso Parigi, con quella sua zia Maria Luigia,
che, per ottenere da Dio la conversione del padre suo, re
Luigi XV aveva voluto dedicarsi
alla vita monastica ».
Dovette rinunciare alla sua vocazione, nel 1775, quando fu
unita a Carlo Emanuele IV di Savoia, che, non avendola prima
vista, non la trovò bella, nè piacente, ma che
tuttavia le fu poi sempre fedele e rispettoso. Ella aveva
molta tendenza alla pinguedine, e poichè a questa venne
attribuita la sua sterilità, « dovette,
così scrive il Predari, crudelmente assoggettarsi
ad esperimenti farmaceutici intesi a farla dimagrire. Rassegnata,
obbedì, ingoiò pillole, soffrì, patì
e finalmente dimagrì, ma non concepì.
Dopo alcuni anni l'amore dei coniugi fu puramente spirituale,
e Clotilde tutta si consacro alla pietà; e ardendo
di udire con frequenza la parola di Dio, ottenne la grazia
di assistere, in quaresima, a tutte le prediche, alle quali
la Corte, a cui si volevano evitare pensieri molesti, soleva
non assistere mai, per non udir parlare del giudizio universale,
o dell'inferno, o di altri terribili argomenti.
« Era angelo di pace nella famiglia (continua
l'autore citato) ove il malumore non era insolito. Quando
le giunsero da Parigi le notizie fatali delle sventure della
sua famiglia, prese l'abito votivo nero di lana e non lo smise
più».
La sua vita semplice sempre ed in tutto veramente esemplare,
e la fama del suo fervore religioso, suscitarono intorno a
lei, più che rispetto, vera e propria venerazione,
e i Francesi, quando occuparono il Piemonte, nel 1798, le
usarono i massimi riguardi. Alcuni storici affermano
d'altronde ch'ella contribuì grandemente a far sì
che Carlo Emanuele IV non indugiasse a cedere ai Francesi
stessi, decidendosi da un'ora all'altra all'atto di abdicazione.
La famiglia reale partì da Torino come s'è già
detto, in una sera fredda e piovosa di dicembre, lasciando
nella reggia, quali proprietà inviolabili dello Stato,
tutte le gioie della Corona, le argenterie e settecentomila
lire in oro. Alcuni dei principi piangevano, ma il re e la
regina si mostravano nobilmente forti e rassegnati nella sventura.
Maria Clotilde, peraltro, di salute assai delicata, non potè
sopportare le fatiche del doloroso viaggio verso l'esilio.
Fu colpita, a Voghera, da una malattia non grave, ma che tale
divenne per la stagione freddissima e per i disagi e da quella
malattia non potè guarire completamente. Visse ancora,
soffrendo, per quattro anni, « sollievo e consolazione
di un marito immerso in mille afflizioni ».
Dopo aver seguìto Carlo Emanuele in Toscana, a Roma,
a Caserta, indi a Napoli, si ammalò nuovamente in quest'ultima
città, dove morì il 7 marzo 1802 in gran concetto
per le sue rare virtù. Il papa Pio VII, che di queste
virtù era stato sincero ammiratore, volle proclamarla
Venerabile, e così fece il 10 aprile 1808.