La vita di Carlo
Emanuele II si può dividere in due periodi, che sono
quelli anteriore e quello posteriore alla morte della madre.
Nel primo, il secondogenito di Vittorio Amedeo I visse nell'ozio
e nella mollezza, «bevve a larghi sorsi le aure
di una corte galante, e fu distratto da vari amori»;
nel secondo, dovette accorgersi che la negligenza è
uno dei peccati più gravi per un sovrano, e si dedicò
volonteroso alle cure dello Stato.
Di animo generoso, dotato di fondamentale buon senso, appena
fu solo a regnare (nel '63) Carlo Emanuele si circondò
di ottimi consiglieri e perfino di un collegio di teologi
per risolvere le questioni religiose; ma non permise mai
che cosa alcuna venisse decisa senza il suo personale intervento.
Splendido e fastoso, ebbe tuttavia il senso della misura
e dell'equità, e fu amato dal popolo perchè
cercò di porre un freno all'orgoglio e alla prepotenza
di certi nobili, e perchè provvide al risanamento
delle finanze con l'affidarne l'incarico a Giambattista
Trucchi, uomo salito in alto da umile origine, amministratore
scrupolosissimo ed economista insigne, che istituì
ed attuò il principio del concorso di tutte le classi
alle spese dello Stato ed alleggerì il peso delle
tasse distribuendolo con criteri di relativa giustizia fra
tutte le categorie di sudditi.
Inoltre, Carlo
Emanuele II riordinò efficacemente l'esercito; licenziò
tutte le milizie straniere, eccettuati gli Svizzeri; attribuì
allo Stato tutte le spese militari; stabilì norme
regolari per la coscrizione e « diede abito uniforme
alle truppe ». Nel 1655 proibì il gioco
del lotto nel Piemonte; nel 1658 proibì che emigrassero
gli artigiani e i contadini e che qualunque suo suddito
si arruolasse in un esercito straniero. Nel 1664 ordinò
ai Comuni di procurarsi dei maestri per provvedere all'educazione
della gioventù, vietò la mendicità
nelle vie cittadine ed aprì un ospizio per gl'indigenti
incapaci di lavorare.
Nel 1673 ordinò
la persecuzione «dei maghi e delle streghe »,
a cui fu comminata, con un editto speciale, la pena di morte.
Il duca diede in fine grande impulso ai lavori pubblici
: Bellariva ebbe un porto sul lago Lemano, perchè
la Savoia potesse aver contatto con la Svizzera senza che
fosse necessario passare per Ginevra; Grezin e Lucey ebbero
dei ponti perchè fossero comode le comunicazioni
con la Borgogna; Chambéry fu avvicinata a Lione con
l'apertura del passaggio detto della Grotte des Échelles;
e Torino venne abbellita con comodi portici, con begli edifici
sull'ampia Strada di Po e sulla Piazza di San Carlo. Nella
stessa città vennero inoltre costruiti il Palazzo
ducale, la Cappella della Sacra Sindone, nella cattedrale,
ed alcuni altri monumenti sacri.
Se si eccettui
una lunga e non risolta controversia per il possesso della
città di Ginevra, sempre ambito dai Savoia e mai
potuto ottenere, si può dire che il regno di Carlo
Emanuele II sia, stato pacifico, quasi sino alla fine, cioè,
sino
a quando, nel 1670, il duca s'impegnò in un'impresa
che fu assai biasimata. Tra Savona e il Ducato di Savoia
esistevano da molto tempo ragioni di dissidio, per i confini
e per questioni di diritti doganali. Un giorno, Carlo Emanuele,
preso da un improvviso desiderio di conquista, mandò
a chiedere delle navi all' Inghilterra, per impadronirsi
della città rivale, troncando in tal modo ogni contesa.
E per riuscire meglio nell'intento, si lasciò indurre
da Raffaele Della Torre, genovese (pessimo soggetto che
aveva lasciata la patria per sfuggire alla forca, alla quale
era stato condannato come autore di vari delitti) ad assalire
anche Genova.
Il Della Torre,
che aveva trovato asilo presso il duca, con grande scandalo
dei galantuomini venne nominato capitano di una compagnia
di lancieri, e mandato a sollevare banditi, contrabbandieri
ed altri malfattori intorno a Genova, per portarvi dentro
la sommossa, mentre le forze ducali avrebbero assalito Savona,
quasi completamente priva di difensori. Ma il governo della
Repubblica di Genova potè sventare quel piano. Raffaele
Della Torre riuscì a salvarsi, ma alcuni suoi complici
furono presi ed impiccati. Alle milizie del duca, che si
accingevano ad assalire Savona, giunse appena in tempo l'avviso
di retrocedere, il che fecero con grande scorno.
La guerra continuò
poi sui monti, fra un alternarsi di false proposte d'accomodamento,
finchè Genovesi e Corsi, aiutati da quanti, lungo
la Riviera ligure, parteggiavano per Genova, finirono con
l'infliggere al Duca di Savoia una grave sconfitta, nelle
vicinanze di Castelvecchio, il 5 agosto 1672.
Durante la
battaglia di Castelvecchio, venne in potere dei Genovesi
tutto il carteggio di Carlo Emanuele II col capo della spedizione,
conte Catalano Alfieri, dal quale carteggio risultò
chiaramente la connivenza del duca e della Corte di Savoia
col bandito Della Torre. I Genovesi protestarono, rivolgendosi
anche al Papa ed ai re di Spagna e di Francia, e diedero
pubblicità a quei documenti.
Secondo il
Cibrario, « la guerra di Genova con tanta leggerezza
intrapresa nel 1672, appare degna di qualche scusa, almeno
in quanto all'intenzione, se si leggono i due volumi che
Carlo scrisse di sua mano "Sul negocio di Genova".
Il Della Torre lo aveva persuaso della tirannia della Repubblica,
dove il Governo non "camminava con la bilancia
uguale", ma i nobili opprimevano i plebei; e della
"necessità di togliere a quelli che governavano
l'audacia di continuare questa loro perniciosa maniera d'agire".
"Fu dunque in nome - citiamo ancora il Cibrario
- dell'uguaglianza di diritti e di doveri innanzi alla
legge, e per domare l'insolenza dei grandi, dei quali principi
e propositi era Carlo molto appassionato e tenace, che si
mosse quella rovina. Ma chi gli aveva conferito il mandato
di riformare lo Stato di Genova? Ma doveva egli, Carlo Emanuele,
prestar fede alle parole d'un uomo reo di tanti misfatti,
e legalmente infamato con criminali condanne dai Tribunali
di Genova? Troppo facilmente si crede ciò che può
servire di scusa a non legittimi appetiti».
Comunque, alla
duplice vergogna Carlo Emanuele pose riparo con le armi.
Recuperò Oneglia, che i Genovesi gli avevano tolta,
ed occupò Ovada. Dopo aver salvato l'onore militare,
venne a patti. Il re di Francia s'intromise, ed indusse
le due parti ad una pace soddisfacente per tutti. Il Della
Torre, condannato a morte in contumacia, finì poi
pugnalato, a Venezia, da un profugo genovese.
L'esito della guerra contro Genova fu causa di profondo
malcontento in Savoia contro tutti i personaggi che Carlo
Emanuele aveva scelti per preparare e dirigere l'impresa,
e il duca, senza curarsi di riflettere se il suo modo d'agire
fosse giusto, non esitò a sbarazzarsi di loro. Il
conte Catalano Alfieri fu imprigionato e morì in
carcere; il marchese di Livorno, condannato a morte, riuscì
a stento a fuggire. E il popolo applaudì.
Anche tenuto
conto dei tempi e delle consuetudini, non è possibile
non giudicare alquanto strana la psicologia di questo duca
di Savoia, « che, come scrisse il Ricolti,
per istinto adorava la giustizia, ma per difetto di
mente e talora per soverchia bontà, falliva ».
E tale psicologia riceve una luce curiosa dal seguente episodio.
Quando, con la pace d'Aquisgrana, nel 1668, Luigi XIV acquistò
il Brabante, Carlo Emanuele, che pretendeva di aver diritto
alla successione dell'infanta Clara Eugenia, non potendo
contendere con la Francia e non volendo compromettersi,
redasse un atto di protesta, lo chiuse in un cofanetto d'argento
e lo mandò a deporre nel tesoro della Madonna di
Loreto. Poi, narrato il fatto nel suo diario, vi aggiunse
questa conclusione : « Così fa chi ha da
fare con più grandi, che non sanno et non sentono
giustitia fuorchè quella del cannone! »
Il carattere
di Carlo Emanuele II fu descritto come segue dall' ambasciatore
veneto Balegno:
« Il Duca si governa con massime pacifiche, e
l'essere un poco dedito al danaro lo fa credere perseverante
od almeno astinente dalli impegni che possono turbare il
riposo. Egli è principe vivacissimo, di buon talento,
maestro nell'arte del fingere, e di prima impressione; affabile
del resto con ognuno, nelle fatiche indefesso, sprezzatore
dei pericoli, e per il suo oroscopo un poco inclinato alla
severità. Sinora non ha ammesso alcuno al favore:
accudisce da sè a tutti gli affari, è assiduo
nei consigli, frequente nelle udienze, e dopo discusse le
materie, delibera in molte cose a suo piacere, talvolta
contro l'opinione dei suoi confidenti; e suol dire che piuttosto
vuole errare da sè, che far bene col parere degli
altri ».
Nota un biografo
dei Savoia che Carlo Emanuele II visse sempre nel lusso
e tra i piaceri più raffinati e che la sua Corte
fu « tenuta alla francese per usi, eleganze, etichetta,
amori ». Fu inoltre questo principe molto appassionato
per la caccia. «Per soddisfare a questa sua passione,
continua il biografo a cui abbiamo accennato, egli eresse
la grandiosa villa della Veneria in un luogo chiamato Alto
Altessano, propizio alla caccia per le foreste vicine. Vi
spese oltre a due milioni, e istituì un gran numero
d'impiegati di caccia subordinati a un Gran Cacciatore,
che divenne titolare di una delle più insigni cariche
della corte. Erano mantenuti alla Veneria duecento cavalli
e duecento mute di cani da corsa, oltre i levrieri ed altre
specie, con un esercito di bassa gente".
« Ma dopo la morte della madre Carlo Emanuele
si consacrò interamente e col massimo impegno alle
cure del governo. E questo dimostrano ampiamente i ricordi
che lasciò, scritti di sua mano, l'immenso carteggio
da lui tenuto con i suoi agenti presso le potenze estere,
e con i ministri che quelle mandavano a lui, e le frequenti
udienze che dava a tutti e a preferenza ai poveri.
« Nel tempo della pace la sua corte divenne magnifica,
e madamigella di Montpensier scriveva nelle sue memorie,
che la reggia di Torino era il soggiorno delle feste, la
sede della leggiadria, e che la Veneria rivaleggiava con
Versailles ».
Dalla prima
moglie, che fu Francesca Maddalena d'Orléans, che
morì nel 1664 (dieci anni prima di lui) Carlo Emanuele
II non ebbe figli. Ma siccome un duca di Savoia non poteva
rimanere senza moglie e senza prole legittima, nel 1665
passò a seconde nozze con una consanguinea, la cugina
Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, dalla quale l'anno
seguente ebbe il figlio VITTORIO AMEDEO, che poi gli successe.
Aveva già avuto due figlie illegittime da Giovanna
Maria di Trécesson, che più tardi andò
sposa a Maurizio Pompilio Benso di Cavour (avo del famoso
Camillo).
Sorpreso da
febbri infettive nella pienezza dell'attività e del
vigore, Carlo Emanuele II morì a quarantun anni il
12 giugno 1675, dopo avere per testamento conferita la reggenza
alla moglie, con potere assoluto, dandole per ministri il
marchese di San Maurizio e Giambattista Trucchi.
Era stato principe assai popolare, e si dice che prima di
morire volle che tutte le porte della residenza venissero
aperte, perchè tutti potessero entrare a vederlo.
MARIA
GIOVANNA BATTISTA DI SAVOIA-NEMOURS
(seconda moglie
di Carlo Emanuele)
(n.1644 - m. 1724)
Rimasto
vedovo, ed essendo costretto dalla ragion di stato a riprendere
moglie quantunque non ne avesse alcun desiderio, Carlo Emanuele
II aveva rivolto il pensiero ad una principessa che già
gli era piaciuta: la sua cugina Giovanna Battista di Savoia-Nemours,
figlia di Carlo Amedeo di Savoia e pronipote di Filippo
Senza terra.
Di questa cugina egli era stato quasi fidanzato nella prima
gioventù, e si dice che quando la duchessa madre,
essendosi accorta ch'ella era molto capricciosa e piena
di gravi difetti, l'aveva con bei modi allontanata dalla
Corte di Savoia, egli avesse scritto su di una parete del
castello di Rivoli le seguenti parole « La raison
ne veut pas que j'épouse M.lle de Nemours, mais mon
destin le veut ».
Maria Giovanna Battista sacrificò alla politica il
proprio spontaneo amore per il principe di Lorena, al quale
era fidanzata, ed accettò la mano del duca di Savoia,
di cui fu moglie virtuosa sebbene egli le fosse marito infedele.
Ma poi, rimasta vedova a sua volta, ella mutò condotta,
e in breve tutta Torino parlò dei suoi amori col
conte Emanuele Filiberto Chabot di San Maurizio, figlio
del marchese primo ministro e molto più giovane di
lei. A lungo andare, la duchessa non potè non tener
conto dei pettegolezzi, e mandò il giovane amante
a Roma, in missione diplomatica, e poi a Berna, vietandogli
di ricomparire a Corte se non ammogliato. Di quel distacco
però la duchessa reggente si consolò col ventitreenne
conte Carlo Francesco di Masino, suscitando nuovo scandalo.
Ma ella non si occupò soltanto d'amore. Durante il
suo governo, che durò fino alla maggiore età
del figlio Vittorio Amedeo, provvide a che il Ducato godesse
d'un periodo di pace e di miglioramenti interni. Alla sua
iniziativa si dovettero l'istituzione dell'Accademia Reale
di Torino, quella del Consiglio cavalleresco per decidere
sui casi d'onore, e quella del Collegio dei Nobili, aperto
in Torino dai Gesuiti nel 1678.
Si applicò inoltre con coraggio e perseveranza alla
trattazione degli affari di Stato, dando prova di senno
e di ponderazione; si rese accessibile ad ogni categoria
di sudditi; non impose nuovi tributi, anzi diminuì
quelli esistenti, e con altri mezzi riordinò le finanze;
vietò lo scandalo delle vendite delle cariche; rimase
neutrale tra la Francia e la Spagna, resistendo alle promesse
come alle minacce di Luigi XIV.
Un grave errore di Maria Giovanna Battista, ch'ella dovette,
più tardi, pagare assai caro, fu quello di trascurare
quasi completamente il figlio e la sua educazione. Tutti
i giorni, ad ora fissa, il conte Montresol, zio del duchino,
lo conduceva alla presenza della madre. Il duchino baciava
la mano della Reggente secondo tutte le regole del cerimoniale
di Corte, ed ascoltava le osservazioni e i rimproveri ch'ella
gli rivolgeva; poi, veniva ricondotto nel suo appartamento.
Tali i rapporti fra madre e figlio. Nessuna meraviglia,
quindi, che Vittorio Amedeo crescesse senz'alcun sentimento
di tenerezza filiale, e che sua madre gl'ispirasse timore
e in pari tempo desiderio d'indipendenza.
La reggenza di Maria Giovanna Battista doveva essere turbata
da avvenimenti abbastanza gravi, e specialmente dai tumulti
che scoppiarono nella città di Mondovì e nel
suo contado, quando in conseguenza dell'infelice impresa
di Genova fu necessario imporre la tassa sul sale anche
in quella zona, che prima ne era stata esente. In quella
circostanza, secondo qualche contemporaneo, la reggente
fu anche troppo mite, e troppo spesso perdonò chi,
abusando del perdono, non faceva che riaccendere la ribellione.
La reggenza di questa donna che ebbe grandi qualità
e grandi difetti doveva finire il 14 maggio 1680, giorno
in cui il duca avrebbe compito il quattordicesimo anno di
età. Venuto quel giorno, la duchessa finse, con un
bel discorso, di rimettere al figlio il governo del Ducato,
mentre era già stabilito che sarebbe stata pregata
di continuare a tenerlo. Infatti ella lo tenne ancora per
alcuni altri anni, e cioè fino al matrimonio di Vittorio
Amedeo II con Anna d'Orléans.
Anteriormente, era stato oggetto di lunghe trattative un
altro matrimonio, pel quale il Duca di Savoia si sarebbe
unito con l'infanta, Isabella Luigia, erede presuntiva del
trono di Portogallo. Questa principessa era figlia di Don
Pedro, reggente e poi re di quel regno, e di Maria Isabella
di Nemours, sorella della duchessa di Savoia, che nel trattare
per quel matrimonio tendeva a prolungare la propria reggenza,
che a quanto pare le stava molto a cuore. Infatti, nel progetto
di contratto era detto esplicitamente che Vittorio Amedeo
si sarebbe recato in Portogallo per rimanervi fino a quando
avesse avuto prole, e che qualora egli fosse morto lasciando
figli in minore età, la reggenza del Ducato di Savoia
sarebbe rimasta alla madre.
Insomma
Maria Giovanna Battista tendeva evidentemente ad allontanare
il Duca per rimanere sola a capo dello Stato, e di ciò
si compiacque, naturalmente, il re di Francia, per le sue
nascoste mire.
« Nella inattesa accondiscendenza reale (così
commenta il Cibrairio) la Duchessa non vide nè
comprese quel che videro e compresero i sudditi, i quali
si affrettarono a far presente al Duca l'insidia nascosta
sotto l'approvazione che il re di Francia dava a quel matrimonio,
e lo pregarono di non andare a cercare altrove altri sudditi,
"che certo non ne avrebbe trovati dei più mansueti
di loro ».
Il Duca, ostile alla madre, avverso al re di Francia, e
con l'animo gonfio di segreti ma tenaci propositi d'indipendenza
assoluta, cominciò col protrarre di due anni la propria
partenza per il Portogallo; e quando tutto fu pronto, e
giunse una flotta portoghese per portarlo via... egli si
ammalò.
« Venne il duca di Canoval, narra il Cibrario,
con una flotta a Nizza, per levarne il futuro sovrano;
ma alcun tempo dopo s'accorse che se la Duchessa desiderava
ardentemente quel matrimonio, non volevano peraltro nè
il popolo, nè la Corte, nè il Duca, ond'egli
si decise a tornarsene a Lisbona. Servì di pretesto
una passeggera malattia del duca. Questi fu dipinto dai
medici come stato sempre così debole da far prevedere
molto dubbiosa la guarigione. Non so se Canoval fosse ingannato
o simulasse. Il fatto è che la Corte di Portogallo
fu la prima a didire quel matrimonio; e quella di Torino,
che null'altro desiderava, fece vedere di rammaricarsene.
Ho detto ché il Duca e la nazione ripugnavano a quel
matrimonio: si temeva infatti che, trasferito in Portogallo
il sovrano, il Piemonte diventasse provincia francese; e
ciò non era impossibile. Era certo almeno che sarebbe
diventato una colonia portoghese, e ciò
sarebbe stato peggio. A Madama Reale (anche Maria Giovanna
Battista era chiamata così) le passioni concitate
mossero mille accuse indegne; ma forse è vero che
in lei, accanto al desiderio della grandezza della famiglia,
operava la speranza di conservare perpetuamente il potere,
se il duca fosse andato ad abitare in un regno così
lontano ».
Mentre tutto ciò accadeva, la guerra tra la Francia
e la Spagna era diventata imminente, e Luigi XIV aveva bisogno
dei soldati che teneva in Piemonte. Ma benchè costretto
dalla forza delle cose a richiamarli, egli voleva aver l'aria
di fare una concessione, e trovar modo di conservare una
certa padronanza sul Ducato, certo non conoscendo bene l'animo
di Vittorio Amedeo, che non voleva più sottostare
ad alcuna tutela. Quel re dunque consigliò alla Duchessa
di far risolvere suo figlio al matrimonio con una principessa
d'Orléans, proponendo come compenso il ritiro delle
milizie francesi. Il vantaggio offerto era tale da sembrare
molto considerevole; e Giovanna Battista, per quanto a malincuore,
poichè sapeva che con un tal matrimonio sarebbe completamente
finita la sua ingerenza negli affari dello Stato, seppe
rassegnarsi ad acconsentirvi.
Poco tempo prima delle nozze, il giovane Duca notificò
ai ministri ed ai magistrati che ormai intendeva di assumere
personalmente il governo del Ducato, e che a lui solo, in
avvenire, dovessero rivolgersi in ogni circostanza. E il
14 marzo 1686, la Duchessa gli rimise l'effettivo potere.
La reggenza di Maria Giovanna Battista durò undici
anni, nel corso dei quali, come già dicemmo all'inizio,
ella fece anche non poche cose buone, le quali però
non la resero mai molto gradita nè ai sudditi nè
ai parenti. Soltanto la nuora e le piccole nipoti l'amarono
sinceramente, e fra loro ella trascorse tranquilla la vecchiaia.
Morì a 80 anni, nel 1724.