Carlo Emanuele
I, nato in Rivoli il 12 gennaio 1562, da Emanuele Filiberto
e da Margherita di Valois, fu uno dei principi più
colti e più intelligenti della Casa di Savoia. Scriveva
versi in italiano, in francese e in spagnolo; si occupava
di filosofia e di storia; amava e proteggeva le arti. Giambattista
Marini ebbe da lui la croce di San Maurizio, Gabriello Chiabrera,
venuto da Savona alla sua Corte, fu trattato come ambasciatore
da lui che aveva già festosamente accolto e onorato
Torquato Tasso. Alessandro Tassoni narra di avere assistito
ad un pranzo nel quale Carlo Emanuele I, attorniato da circa
sessanta vescovi, baroni, dottori e medici, disputava ora
con l'uno ora con l'altro di molte questioni di scienza,
parlando in varie lingue e dando prova di grande acume e
d'ingegno e dottrina veramente singolari.
Dicemmo già
che nell'infanzia Carlo Emanuele era stato gracile e malaticcio.
Sua madre l'aveva allevato fra continue cure, sempre temendo
di perderlo e sottoponendolo spesso al controllo dei medici.
Morta la duchessa Margherita il 15 settembre 1574, Emanuele
Filiberto prese ad educarlo a suo modo, addestrandolo anzitutto
nelle armi, nella ginnastica, e conducendolo con se attraverso
gli Stati per farlo conoscere come suo successore.
L' educazione
paterna trasformò presto il malaticcio fanciullo
in un giovane che, dice un contemporaneo, "buona
parte della notte la impiegava in veglie, danze, consulta
di Stato e d'armi, onde riuscì guerriero mirabile,
principe attivo, affabile e splendido, nel quale spiccò
molta vera grandezza, con tratti di benignità tale
che valse a contemperare nei sudditi i dolori e gli aggravi
della guerra con il peso intollerabile delle imposte".
Con tutto ciò,
e per quanto si fosse irrobustito, Carlo Emanuele I, allorchè
successe al padre in età di diciott'anni, dovette
assoggettarsi al consiglio di due precettori che il padre
moribondo gli aveva assegnati: Bernardino di Savoia Racconigi,
signore di Cavour, e Andrea Provana, signore di Leynis.
Ma ben presto si mostrò insofferente di qualsiasi
tutela e pieno di un personale spirito d'iniziativa.
Questo principe
Sabaudo, di cui si disse che « illustrò
e intorbidò due secoli », oltre al merito
di aver rafforzato lo Stato dei suoi avi con buoni ordinamenti
civili e con armi proprie, ebbe quello grandissimo di voler
provvedere a risvegliare e ad esaltare la passione nazionale,
immedesimando gl'interessi della sua monarchia con quelli
d'Italia. Appunto per questo il suo nome, quantunque nessun
principe avesse mai sottoposto i sudditi a gravami maggiori
di quelle a cui egli sottopose i suoi, divenne celebre e
popolare dalle Alpi alla Sicilia. Egli ebbe però
anche il torto di non limitare all'Italia le proprie aspirazioni,
e di non moderare con la prudenza, come aveva fatto il padre,
la vastità dei propositi. Abbandonò il sistema
di neutralità forte ed armata che Emanuele Filiberto
aveva abilmente inaugurato.
Infatti, quando
i cattolici francesi insorsero
contro Enrico IV, eretico ed alleato con la regina d'Inghilterra,
egli non esitò ad aspirare al trono di Francia, come
figlio di Margherita di Valois, nata da Francesco l; come
poi, dopo la morte dell'imperatore Mattia, nella qualità
di principe dell'impero aspirò al trono imperiale.
« Rimasto vedovo, dice in proposito il Cibrario,
credo aspirasse anche al palpato, sebbene i suoi costumi
fossero alquanto corrotti ».
La sua politica,
per quanto discontinua e mutevole, ebbe il gran merito di
mettere in vista a tutta l'Europa il Piemonte, « paese
piccolo ma forte per senno civile e per sottile diplomazia
».
Quando salì al trono, la Francia era sconvolta dalle
guerre degli Ugonotti, ed egli che aveva un magnifico temperamento
di guerriero amante dei grandi rischi, ne approfittò,
come nemico del dominio straniero in Italia, per impadronirsi
del marchesato di Saluzzo, il quale, venticinque anni prima,
era stato occupato dai Francesi mentre Emanuele Filiberto
non poteva impedirlo in alcun modo. Dopo questa conquista,
Carlo Emanuele mirò a quella di Ginevra, città
sfuggita da più di quarant'anni al dominio Sabaudo
e divenuta sede principale del calvinismo. Non potendo vincerla
con le armi, cercò di riuscirvi con le congiure,
che però riuscirono ugualmente vane.
L'occupazione
di Saluzzo e i tentativi contro Ginevra svelarono le mire
ambiziose del Duca a danno della Francia e destarono dovunque
vive inquietudini, cosicchè Berna, temendo di perdere
il paese di Vaud, si decise a dichiarargli guerra. Giunto
ad una pace onorevole con i Bernesi, Carlo Emanuele, a cui
la sete di conquiste andava crescendo, volle approfittare
del dissolvimento provocato in Francia dalla guerra civile
che fu detta « dei tre Enrichi », ed
iniziò una nuova impresa tendente alla conquista
del Delfinato. Ma questa volta i Ginevrini si allearono
coi Francesi, e prima che il Duca potesse muoversi invasero
la Savoia ed il Piemonte. La guerra fu lunga e disastrosa.
Malgrado le ripetute istanze e sollecitazioni del papa,
i soccorsi della Spagna, che pure era alleata di Carlo Emanuele
I, furono scarsi e lenti.
Nel 1601 finalmente,
dopo una lunga serie di trattative e di accordi non sempre
osservati, il Duca di Savoia riuscì ad ottenere la
pace, e con essa il riconoscimento del possesso di Saluzzo,
ma con la condizione di dover consegnare ad Enrico IV la
Bresse, il Bugey, il Valromey e Gex.
Dopo questi
avvenimenti, visto che la Spagna, della quale era alleato
da tanto tempo, non l'aveva mai aiutato, ma anzi l'aveva
spesso umiliato trattandolo da suddito, meditò di
formare una lega difensiva di tutti i principi italiani
per l'indipendenza della penisola. Ma questo progetto svanì
come tanti altri fatti prima e dopo, al medesimo fine.
Nel 1612, alla
morte di Francesco Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato,
quantunque vi fossero dei collaterali che avevano diritto
alla successione, si rinnovarono le pretese della Casa di
Savoia sul Monferrato, e Carlo Emanuele, nell'anno successivo,
invase quel paese. La Spagna tentò invano di opporglisi,
fingendo dapprima di offrirsi come mediatrice ed invitando
il Duca a non compiere atti di ostilità. Egli allora,
fingendo dal canto suo di cedere ai desideri del re di Spagna
suo cugino, non si mosse, ma rimase accampato ai confini
per far comprendere che non si fidava della mediazione di
una Corona che già in parecchie occasioni si era
mostrata ostile al Ducato di Savoia. La Spagna si smascherò,
ed il governatore di Milano ebbe l'ordine di intimare al
Duca di deporre le armi entro sei giorni, se non voleva
esser considerato e punito come nemico del Re Cattolico.
Carlo Emanuele
rispose da pari suo, rimandando a Filippo III le insegne
dell'Ordine del Toson d'Oro e dichiarando senz'altro la
guerra. E la guerra sostenne audacemente da solo, senza
alleati, senz'aiuti di sorta, manifestando tutta la sua
meravigliosa energia di mente e di spirito, mentre tutta
l'Italia, benchè egli cercasse di svegliarla con
le sue liriche ed i suoi saggi scritti, poltriva più
che mai nelle mollezze e nel servilismo. « Non
compresero gli altri Signori italiani che se in quell'ora
avessero aiutato il Duca di Savoia, la Spagna avrebbe potuto
esser cacciata dalla penisola per virtù di armi nazionali
».
Il fatto d'aver
combattuto da solo contro la Spagna fruttò a Carlo
Emanuele molta fama; ma il non aver saputo o potuto fermarsi
dopo quella guerra e l'averla sostenuta senza prima concludere
delle valide alleanze, furono fatti che gli valsero, dopo
la morte, l'accusa di aver fatto decadere la monarchia Sabauda
e di averle fatto perdere quella totale indipendenza dalle
influenze straniere alla quale l'avevano sollevata il valore
ed il senno del vincitore di San Quintino.
Mentre da ogni
parte d'Italia giungevano al Duca congratulazioni perche
aveva risuscitato il valore latino, egli dovette piegarsi
ad una pace (Asti, 1615), rinunciando alle proprie mire.
Il trattato così concluso non valse però a
far desistere la Spagna dal danneggiare il Ducato di Savoia,
e Carlo Emanuele riprese le armi nell'anno seguente, ancora
solo, fidandosi di certe promesse di denaro avute dalla
Repubblica di Venezia. Questa nuova guerra ebbe per lui
risultati disastrosi. Vercelli gli fu tolta prima che i
Bernesi (ai quali egli aveva ceduto il paese di Vaud, per
attirarli a sè) potessero mandargli aiuti, e non
gli fu restituita se non dopo la pace che venne firmata
a Milano nel 1618.
Tuttavia non
si quietò il Duca di Savoia. Partecipò alla
guerra dei Trent'anni mirando all'Impero, e poi, visto sfumare
quel troppo grande sogno, combattè in Valtellina
coi Francesi contro gli Spagnoli, con la speranza d'insignorirsi
almeno dí Genova e della Lombardia. Ma l'impresa
di Genova fallì, e Carlo Emanuele, invece d'invadere
la Lombardia, dovette di corsa provvedere a salvare le sue
terre, minacciate d'invasione dal duca di Feria, governatore
di Milano, ed accettare infine, per forza, la pace di Monzone
conclusa a sua insaputa dal cardinale di Richelieu, con
la Spagna.
Poco dopo,
morto Vincenzo II di Mantova, si riaccese ancora una volta
la questione della successione del Monferrato, che nel 1627
era passata a Maria, nipote di Carlo Emanuele I, moglie
di un duca di Nevers, della Casa Gonzaga, ma stabilito in
Francia e completamente francese. Lasciare il Nevers signore
indisturbato di Mantova e del Monferrato, significava per
Carlo Emanuele rimanere esposto alle bramosie della Francia,
la quale, già padrona di Casale, avrebbe minacciato
Torino e compromessa quell'indipendenza del Piemonte ch'era
costata tanti sacrifici. Perciò il Duca di Savoia
non esitò a
porre di nuovo in campo le sue ragioni per pretendere la
signoria del Monferrato, e, poichè gli era impossibile
agire da solo, si decise a collegarsi con la Spagna contro
la Francia, che aveva mandato numerose milizie a sostenere
Carlo Gonzaga di Nevers.
Questa guerra,
l'ultima combattuta da Carlo Emanuele I, fu disgraziatissima
per lui. Come sempre male aiutato dagli Spagnoli, egli riportò,
nel 1628 sulla Vraita una magnifica vittoria, mettendo in
fuga un esercito francese di quattordicimila uomini; ma
nell'anno successivo rimase sconfitto, e i Francesi gli
occuparono Susa, Pinerolo e parecchie valli alpine. Quando
morì, nel 1630 in Savoia e in buona Parte del Piemonte
erano accampate milizie francesi.
Emanuele Filiberto
aveva lasciato al figlio un testamento politico, nel quale
gli aveva imposto di acquistare Saluzzo, di impossessarsi
del Monferrato, di ricuperare Ginevra, e di fare un matrimonio
che gli facilitasse queste imprese. Abbiamo visto quel che
fece Carlo Emanuele per avere Saluzzo il Monferrato e Ginevra.
Vedremo ora con quali criteri egli si ammogliò e
quali risultati ottenne dal suo matrimonio.
Alla morte
del duca di Alencon fratello di Enrico III re di Francia,
essendo rimasta aperta la successione al trono di Navarra
Carlo Emanuele pensò fosse suo interesse unirsi alla
Lega cattolica, ed accettò in moglie Caterina d'Austria,
figlia di Filippo II di Spagna. Con questo matrimonio egli
aspirava ad avere aiuti per la conquista del Monferrato,
di Saluzzo, recuperare il paese di Vaud e Ginevra, ad ottenere
dall'Imperatore il titolo di re a dichiarar guerra alla
Francia e ad avere, nella dote della principessa, il possesso
di Alessandria. Ma queste vaste aspirazioni rimasero vane.
Il re di Spagna gli fu larghissimo di promesse ma gli diede
soltanto la sua secondogenita Caterina d'Austria, assegnandole
una dote di trecentomila scudi che non fu mai sborsata,
nè allo sposo nè ai suoi successori i quali
poi, nel 1703 vi rinunciarono completamente.
Quanto poco
abbia giovato questo matrimonio alla politica del Duca,
s'è già visito; ma per darne un'idea precisa
dobbiamo aggiungere che Caterina portò, nella Casa
di Savoia il diritto di successione al Ducato di Milano,
e che nel 1740 essendosene verificata la vacanza, Carlo
Emanuele III, pronipote di lei, dovette accontentarsi, malgrado
le sue buone ragioni, di poche terre staccate da quel Ducato
e lasciare il resto a Maria Teresa, che non si curò
affatto delle disposizioni contenute in un diploma di Carlo
V recante la data del 12 dicembre 1549.
Abbiamo già
detto che durante la sua ultima guerra, quella per la successione
del Monferrato, Carlo Emanuele I dovette
assistere all'invasione della Savoia e del Piemonte da parte
delle soldatesche francesi. Esasperato per quel che accadeva,
egli si portò a Savigliano con un esercito, nel luglio
1630, con lo scopo di provocare i Francesi ad una giornata
campale, tanto per salvare quella città, come per
impedir loro di recare aiuti a Casale, già circondata.
Ma, il 21 luglio, gli giunse inaspettata e dolorosissima
la notizia che Mantova era stata occupata e saccheggiata
dagli Imperiali.
Chi lo vide riferì ch'egli rimase per due giorni
come inebetito. «Tutto crollava, scrive un suo
biografo, tutti i sogni svanivano. E quella fantasia ardente
che l'aveva indotto successivamente a vedersi seduto su
tutti i troni d'Europa, ora gli dipingeva coi colori più
foschi una realtà già di per sè stessa
molto triste: l'Italia in mano agli Imperiali, la Savoia
perduta, il Piemonte alla mercè di tre eserciti,
uno dei quali decisamente nemico ».
Carlo Emanuele,
già quasi setttantenne, non potè resistere
a tanta desolazione. Nella notte del 23 luglio 1630 si ammalò.
La mattina del 26 volle il viatico. Quando entrò
il sacerdote, si alzò a stento, dicendo : «Dio
non voglia che io accolga un tanto Re stando in letto! ».
Cinse la spada, si appese al collo il Collare dell'Annunziata,
e poi spirò nell'atto di ricevere il sacramento.
Aveva sessantotto anni e mezzo.
Il cardinale di Richelieu, buon conoscitore di uomini, diceva
di Carlo Emanuele I : « Je ne connais pas d'esprit
plus fort, plus universel et plus actif que ce prince ».
Il duca fu realmente un uomo d'ingegno non comune, un eccellente
guerriero, un principe ambizioso, letterato, cavalleresco,
audace; « ma, dice il Cibrario, con le
guerre continue, coi tributi insopportabili afflisse grandemente
le sorti della patria e le trasmise al suo successore piuttosto
pericolate che pericolanti».
Come suo padre,
Carlo Emanuele I fu principe assoluto, pur sapendo mostrarsi
arrendevole quando aveva bisogno di denaro. Fece sopportare
al Piemonte i più gravosi sacrifici, militarizzandolo
interamente; ma non si lasciò prender la mano dal
papa e fu mite verso i dissidenti religiosi; arricchì
la patria di sontuosi monumenti; fu grandioso non solo nelle
concezioni politiche, ma anche nella istituzione di opere
benefiche e nel dare incitamento e lavoro a letterati, a
poeti e ad artisti, mentre però poco o nulla si curava
dell'istruzione generale dei suoi sudditi. Morendo, lasciò
in pessime condizioni le finanze, l'industria e il commercio
del suo Stato.
Il 6 novembre
1597, rimase vedovo di Caterina d'Austria, dalla quale aveva
avuto dieci figli: - Filippo Emanuele, nato nel 1586, morto
a Madrid tre anni dopo; VITTORIO AMEDEO I (nato a Torino
l'8 maggio 1587), che fu suo successore; Filiberto, nato
nel 1588, che morì di peste a Messina, dove era vicerè;
Maria Margherita, nata nel 1589, che fu viceregina del Portogallo;
Isabella, nata nel 1591, che sposò Alfonso d'Este;
Maurizio, nato nel 1593, che fu cardinale dall'età
di quattordici anni e luogotenente del padre nel 1615; Maria,
nata nel 1594, che si fece monaca; Francesca Caterina, che,
monaca ella pure, fondò con la sorella Maria il monastero
di Santa Maria Maddalena in Torino; Tomaso, nato nel 1596,
che fu presto guerriero a fianco del padre, sposò
Maria di Carlo di Borbone conte di Soissons e di Dreux,
fu capostipite della linea Savoia-Carignano, e prese parte
alle guerre civili in Piemonte; Giovanna, che morì
nel nascere, cagionando la morte della madre.
Carlo Emanuele, circa un anno prima di morire, e precisamente
il 28 novembre 1629, sposò segretamente Margherita
di Rossillon de Chatelard, marchesa di Riva, dalla quale
aveva avuto undici figli, che vennero in tal modo legittimati
e che furono chiamati signori del sangue.
sua
moglie CATERINA D'AUSTRIA
(n.1567 - m. 1597)