BIOGRAFIA
(n. 1528 - m.
1580) - Duca 1553 - 1580
sua
moglie: MARGHERITA DI VALOIS
(n. 1524 - m. 1574)
Molti volumi
sono stati scritti su questa magnifica figura di principe
e di guerriero del Cinquecento, ma noi, dati i limiti di
questa modesta cronologia, inevitabilmente sintetica, dovremo
accontentarci di accennare ai tratti essenziali solo al
suo genio al suo carattere, e ai fatti più salienti
della sua vita avventurosa, piena di epiche imprese. E poiché
vogliamo fare qui solo una storia della Casa di Savoia,
facendola risultare da rapidi cenni biografici sui principi
Sabaudi che si successero nel corso di quasi dieci secoli,
accenneremo particolarmente a quell'opera di ricostruzione
della monarchia piemontese che costituì uno dei tanti
titoli di gloria del grande successore di Carlo il Buono.
Morto questo principe disgraziatissimo, i Francesi occuparono
anche Vercelli, cosicché si può dire che ormai
degli Stati della monarchia di Savoia non restasse più
nulla. Divisi, straziati da calamità d'ogni sorta,
essi erano occupati dagli Svizzeri e dai Francesi di là
dalle Alpi, dai Francesi o dagli Imperiali al di qua, ed
i popoli, rovinati ed esausti per effetto di tante sventure
e di tante circostanze avverse, non nutrivano più
alcun sentimento di patria e vivevano in un profondo avvilimento,
parteggiando alternativamente per la Spagna o per la Francia,
talvolta dispensatrici di aiuti materiali.
Sussistevano
le antiche fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Capo della
parte guelfa in Piemonte era Monsignore di Racconigi, della
Casa di Savoia, mentre i Ghibellini avevano alla loro testa
Monsignor di Masino. Mondovì era la città
nella quale le lotte fra questi partiti si accendevano più
frequenti e più violente. I costumi, frattanto, erano
piuttosto corrotti. Il clero, a cui apparteneva un buon
terzo delle entrate del paese, era ignorante e vizioso.
I conventi di monache, specialmente quelli di campagna,
erano focolai dì scandali. I sacerdoti davano i peggiori
esempi. E il movimento della Riforma, propagatosi con prodigiosa
rapidità in tutta l'Europa, andava ormai diffondendosi
ed affermandosi anche nel Chiablese, nel Faucigny, nella
contea di Nizza, in Val di Susa e in tutto il Piemonte meridionale.
Quel poco che
rimaneva dei domini della Casa di Savoia, fu per buona sorte
ereditato da Emanuele Filiberto, unico figlio superstite
di Carlo III e di Beatrice di Portogallo, principe guerriero
da parecchi anni lontano dalla patria sotto le insegne di
suo zio Carlo V, che l'aveva aiutato a diventare un valente
capitano e ad affermarsi come tale in diverse guerre.
Emanuele Filiberto
era nato a Chambéry l'8 luglio 1528, «
tanto gracile e con così poca speranza di restar
in vita, che per molte ore fu tenuto in vita dal fiato della
comare ». Gli astrologi che secondo l'usanza
dell'epoca avevano, nel giorno del battesimo, pronunciate
delle profezie sul suo avvenire, erano stati concordi nel
predire ch'egli avrebbe conseguito grandi ricchezze
e strepitose vittorie. Ma la gracilità persistente
del piccolo principe aveva fatto pensare che quelle profezie
non si sarebbero avverate mai, poiché l'esilità
durava da parecchi anni. Egli era rimasto, com'ebbe a riferire
Andrea Boldù al Senato veneto, « stroppiato
nelle gambe, fino all'età di anni tre, in modo che
con molta difficoltà camminava, onde per voto la
madre lo mandò per alcuni anni vestito da fraticello.
E dato che aveva molti fratelli, l'opinione di madre a padre
era quella di farlo uomo di chiesa; anzi da Clemente VII
in Bologna fu promesso al duca Carlo suo padre che appena
fosse stato un po' grandicello di farlo cardinale, onde
lo chiamavano già "il Cardinalino".
Però
nel 1535 la morte del maggiore dei suoi fratelli l'aveva
liberato dagli abiti ecclesiastici, e l'esile e pallido
cardinale fanciullo aveva potuto dedicarsi secondo la sua
vera e sola vocazione alla carriera delle armi, e diventare
in breve volger d'anni, e poi al fianco dell'imperatore,
quell'ammirabile guerriero, quell'instancabile cavaliere
temprato a tutte le fatiche, di cui un altro ambasciatore
veneto disse più tardi :
«Non potria vivere non travagliasse col corpo
e con lo spirito, perché mai sta in riposo, mai é
veduto sedere, se non quel poco di tempo che sta a tavola,
dal che si spedisce prestissimo, siccome sta molto poco
in letto, non sente sole, caldo, nè freddo, sempre
negozia in piedi o camminando... Vuole egli intendere e
definire le cose da sé, e nelle risposte é
cauto e riservato, ed esprime il concetto con poche parole,
ma tutte ripiene di sugo ».
Quella singolare
trasformazione del fanciullo malaticcio era stata possibile,
secondo il Cibrario, in virtù dei due profondi sentimenti
che predominavano in lui: « l'intensa fede religiosa
e la fierezza dinastica, acuita nell'animo suo dallo spettacolo
doloroso delle traversie umilianti dei suoi genitori».
La morte della
madre, alla quale molto somigliava per l'energia e la risolutezza
del carattere, aveva lasciato in lui una amarezza inguaribile.
Per aver visto quella donna dotata di tante eccezionali
qualità dibattersi tra le difficoltà più
avvilenti, e il debole padre esposto alle violenze e alle
sopraffazioni straniere, come pure al disprezzo appena velato
dei sudditi, il giovane duca maturò nella propria
mente propositi di nobile vendetta e la ferma intenzione
di far nuovamente rispettare la sua Casa e di ridarle gli
Stati perduti, liberandoli dagli stranieri che per tanti
anni li avevano considerati come paesi di conquista od anche
soltanto come campi di battaglia.
Aveva egli
tendenze spiccate al fasto ed alla signorilità splendida
e prodiga, ma per le tristissime condizioni finanziarie
della sua famiglia, quand'ebbe raggiunto Carlo V che guerreggiava
in Germania, si vide presto ridotto a soffrire per le angustie
penosissime di una continua e irrimediabile mancanza di
mezzi, che l'obbligava ad implorare aiuti, per quanto fosse
grande il suo orgoglio. « Sono costretto ad impegnarmi
sino all'anima, scrisse in una lettera, ed a mangiarmi vivo
negli interessi dei quali non posso uscire senza l'aiuto
di Sua Maestà ».
Aspirava ardentemente
ad avere uno splendido séguito, ma Carlo V, a cui
erano ben note le condizioni della sua Casa, non gli permise
neppure di tenersi i paggi e i quaranta cavalieri che si
era portato dietro dal Piemonte. Nondimeno, egli seppe conservarsi
leale, e quando Enrico Il re di Francia, col proposito di
staccarlo dall'imperatore, gli offrì la restituzione
degli Stati aviti, purché sposasse sua sorella Margherita,
non esitò a rifiutare, rimanendo fedele a Carlo V.
E allorché questi, apprezzando le sue qualità
di guerriero, l'ebbe posto alla testa d'uno squadrone di
nobili cavalieri, egli scrisse al suo misero padre «
Io mi risolvo e dispongo a fare il mio dovere, di sorta
da soddisfare l'Imperatore e obbligarcelo per qualche servigio
suo e nostro ». Guardava insomma lontano.
Al fianco di
Carlo V, Emanuele Filiberto si distinse in modo particolare
il 23 agosto 1546, davanti ad Ingolstadt, e poi nella famosa
battaglia di Muhlberg. Nel 1552, dopo la tregua d'armi firmata
in Germania, egli ritornò in Piemonte mentre vi si
riaccendeva la guerra tra Francesi e Spagnoli, ed assunse
il comando della cavalleria imperiale, con la quale prese
parte a numerosi combattimenti, dando prove di eccezionale
valore. Poi, non potendo far cessare i danni che le milizie
spagnole facevano subire alle popolazioni piemontesi, e
comprendendo di non avere interesse alcuno a rimanere a
combattere nei propri Stati con un esercito straniero, se
ne fuggì travestito e raggiunse nulle Fiandre Carlo
V, che stava raccogliendo milizie per assediare la città
di Meta e toglierla ai Francesi.
Nel 1553, Carlo
V, che amava molto Emanuele Filiberto e che ormai aveva
avuto modo di farsi un concetto esatto delle grandi qualità
militari di cui egli si mostrava dotato, affidò a
lui il comando del proprio esercito. Assumendo, venticinquenne
appena, la responsabilità non lieve di guidare contro
nemici più numerosi e meglio agguerriti un'accozzaglia
di milizie male organizzate e indisciplinate, il principe
sabaudo, che era, come lo descrive il Ricotti, «
affabile e severo ad un tempo, e franco e risoluto, sommando
al prestigio del potere quello della nascita »,
pubblicò un bando terribile, che produsse il miracolo
d'instaurare prontamente l'ordine e la disciplina in quell'esercito
che sembrava destinato a disgregarsi o a ribellarsi.
Sul finire
del 1553, giunse ad Emanuele Filiberto la notizia della
morte del padre, e allora si trovò nella singolare
condizione d'esser duca di Savoia, ma quasi senza domini.
Soltanto la possibilità di riportare delle clamorose
vittorie come generalissimo di Carlo V manteneva viva in
lui la speranza di poter riscattare un giorno i suoi Stati.
Ma per circa tre anni nulla avvenne di rilevante nelle Fiandre,
dove l'esercito imperiale rimase quasi inattivo; e solo
quando Carlo V, malato ed esausto, si ritirò in un
convento rinunciando allo scettro, il Sabaudo vide brillare
di nuovo la propria stella. L'imperatore, prima di lasciare
la scena del mondo, aveva affidato a lui, oltre al comando
delle milizie, anche il governo dei Paesi Bassi.
Ma avvenivano
frattanto in Piemonte grandi fatti. I Francesi, battuto
Renato di Challant, luogotenente del duca assente, avevano
occupate altre terre e continuavano le loro devastazioni.
Cuneo resisté mirabilmente agli invasori (nel 1557)
e li obbligò a desistere dall'assedio, durato per
circa due mesi con perdite considerevoli dalla parte loro.
Tutti i piemontesi, d'altronde, si mantenevano strenuamente
fedeli al loro Signore, fra gli orrori dell'invasione straniera,
e si dicevano disposti a farsi squartar vivi e a dare anche
la vita dei figli, piuttosto che mutar sovrano.
Frattanto Emanuele
Filiberto si preparava, da Bruxelles, a intraprendere la
guerra contro i Francesi nelle Fiandre, per conto di Filippo
II, figlio e successore di Carlo V. « La difficoltà
maggiore, narra uno storico, consisteva nella mancanza di
denaro, senza il quale non era possibile raccogliere un
esercito atto a difendere le frontiere e a respingere il
nemico. Il Duca, che vedeva questa necessità, chiedeva
di continuo con lettere al re di Spagna e ai suoi ministri
soccorsi finanziari. Alla fine, dopo molti indugi, il denaro
venne, e allora egli poté assoldare gente, assoggettarla
a disciplina e mandarla ai confini. Trascorsa fra queste
cure la primavera di quell'anno 1557, Emanuele Filiberto
entrò in campagna nel
luglio, con quarantamila fanti, dodicimila cavalli, e guastatori
e artiglierie in proporzione ».
E così
il 10 agosto 1557 egli poté vincere la famosa battaglia
di San Quintino, nella quale diede prova di una grande genialità,
«agendo contrariamente ai dettami dell'arte militare
d'allora e attuando una nuova tattica personale e pratica
per la quale sconvolse tutte le teorie inutili che gli erano
state predicate per anni ».
In quella battaglia rimase vinto il Connestabile francese
Anne de Montmorency, capitano valorosissimo ed abilissimo,
attorniato dal fiore della nobiltà di Francia. Vi
morirono circa 5000 Francesi, vi rimasero prigionieri 2000
cavalieri e 4000 fanti dello stesso esercito, e gli Spagnoli
vi persero soltanto un migliaio di uomini. Fu la più
grande giornata campale combattuta in quelle regioni in
quarant'anni di guerra tra Francesi e Spagnoli «
e fu una delle maggiori scosse che abbia ricevuto la Francia
».
Emanuele Filiberto
si proponeva già di marciare su Parigi, per imporre
al re di Francia le condizioni della pace, ma Filippo II
non l'assecondò, pur manifestandogli una vivissima
riconoscenza per la grande vittoria riportata. Volle il
re spagnolo che il suo esercito continuasse l'assedio di
San Quintino, invece di dirigersi rapidamente verso la capitale
francese, e così la vittoria rimase sterile, poiché
la Francia fu salva e poté in breve tempo cancellare
la patita sconfitta con vittorie di grande importanza. Infine,
il 18 ottobre 1558 venne concluso un armistizio e cominciarono
le trattative della famosa pace che prese nome da Cateau-Cambrésis.
In queste trattative, fu molto discussa la restituzione
ad Emanuele Filiberto di tutti i suoi Stati. « Spagna
e Francia, riassume un biografo del Duca, dibattevano
tenacemente la questione, volendo l'una e l'altra conservare
un certo numero di piazze in Piemonte, e mettendosi avanti
dalla Francia, per Emanuele Filiberto, combinazioni matrimoniali
(come quella che egli, trentunenne e galante, sposasse la
quasi quarantenne
Margherita di Valois, sorella del re di Francia), le quali
rendevano ostica la pace al fortunato guerriero ».
Riebbe infine
il Sabaudo gli Stati paterni, adattandosi a quel matrimonio
ed accettando non poche restrizioni, tanto da parte della
Spagna che da parte della Francia, cosicché la restituzione
potè sembrare parziale e provvisoria. «
Emanuele Filiberto dovette ricevere dominio e sposa dalla
reciproca gelosia della Francia e della Spagna, ciascuna
delle quali preferiva consegnare a lui i paesi usurpati,
piuttosto che abbandonarli alla nemica, e lo induceva a
nozze probabilmente sterili per risercarsi l'occasione di
riprendere quanto cedeva e anche qualcosa di più.
Ma Emanuele Filiberto ebbe il senno da render vani i perfidi
accordi; e il matrimonio che la malevolenza aveva preordianato,
con felicissimo effetto, che fece "nascere" un
grand'uomo che recò a compimento l'impresa del suo
genitore ».
Riavuto lo
Stato, Emanuele Filiberto attese alacremente a ricomporlo
e a riordinarlo, cosicché quei paesi, da poveri,
deboli e divisi, giunsero a tale prosperità da costituire
una delle più forti e più disciplinate monarchie
del tempo. Le devastazioni morali, come già si é
detto, non vi erano state meno gravi di quelle materiali.
Un vero collasso psichico si era manifestato in popolazioni
fondamentalmente generose, per effetto della dominazione
straniera, preceduta dal remissivo pacifismo di Carlo III.
Lo spettacolo della generale inerzia dei piemontesi, della
loro generale tendenza alla vita spensierata e facile e
ai bagordi, era disgustoso e impressionante. Il popolino
e non pochi ignobili profittatori ingrassati fra le calamità
della guerra, rimpiangevano la dominazione francese, che
aveva estenuato il paese. La stessa aristocrazia era divisa
in guelfi e ghibellini, annoverava nelle sue file dei partigiani
interessati del re di Francia o di quello di Spagna, ed
era anche lacerata dai dissensi religiosi.
In mezzo a
tanto sfacelo, Emanuele Filiberto, che voleva essere un
vero principe, attivo e rispettato, adottò uno stile
assolutamente diverso da quello di suo padre, dando prove
di affetto operoso e di pronta giustizia verso i sudditi,
ma anche di austerità di forma e di grande fermezza
nel voler essere incondizionatamente obbedito. Egli impose
la monarchia assoluta, come nel lontano passato il suo avo
Umberto Biancamano aveva imposta la monarchia feudale.
Questa trasformazione,
necessaria in un'epoca di vaste unità-nazionali e
di governi accentratori, sottintendeva naturalmente l'abolizione
totale delle vecchie forme rappresentative, già cadute
d'altronde in disuso per la loro inerzia ormai secolare
e per essersi dimostrate dannose, anziché vantaggiose,
all'interesse collettivo. Unica legge superstite doveva
essere, quindi, la volontà illuminata del capo dello
Stato; e di quanto Emanuele Filiberto fosse degno e capace
di esercitare il potere assoluto dà testimonianza
l'ambasciatore veneziano Molina, che nel 1574 scriveva di
lui:
« Sopra ogni cosa fa professione di giusto, di
magnanimo e liberale, osservatore di sua parola, e di voler
perdere lo Stato, la vita e il figliuolo, piuttosto che
mancare a quanto ha promesso, anche nelle cose leggere.
Ha gusto di uomini dotti di qualsivoglia professione, ragiona
sempre con loro, e vuole intender molto bene le cose e possederle...
Non li lascia partir da lui, che come si suol dire non ne
abbia cavata la quinta essenza, e di qui viene che nelle
occasioni parlando di qualsivoglia materia, così
di guerra come di lettere e di tutte le arti sì nobili
come meccaniche, ragiona saldamente ed in modo tale che
vien tenuto per miracolo della natura».
Vi erano dunque
in Emanuele Filiberto l'elasticità mentale ed il
sicuro rapidissimo intuito occorrenti per dare una impronta
personale al miglioramento di tutta l'amministrazione statale,
in ogni suo singolo ramo. E certo si può affermare
che fra tante rovine accumulate egli dovesse vedersi costretto
a ricostruire ogni cosa dalle fondamenta.
Seppe anzitutto ridar vita al sentimento nazionale, rinfrancare
la religione, combattendo l'eresia e riformando il clero
specialmente col reprimere nelle sue file la corruzione
dei costumi, ch'era grande. Vietò lo smercio dei
libri contrari alla fede e conferì al Senato la censura
sulla stampa. Proibì le assemblee, le conventicole
e le leghe politiche, le quali si dimostravano tanto dannose
in Francia, esagerando in questi provvedimenti quando con
certi editti del 1560, del 1562 e del 1564, volle obbligare
i suoi sudditi, camminando loro delle pene assai gravi,
ad osservare diligentemente le pratiche della religione
cattolica.
Mai poi s'accorse
dell'errore, e dopo qualche zuffa con gli eretici, finì
col conceder loro la libertà di culto, comportandosi,
in materia religiosa, con una moderazione ed un'equità
che talvolta lo posero in contrasto col papa, e che parvero
in lui tanto più singolari, in quanto gli Ugonotti
avevano tentato d'impadronirsi della città di Pinerolo
e manifestavano un odio vivissimo e senza tregua verso di
lui.
Nel 1566, seguendo
l'esempio di Enrico II re di Francia, dichiarò condizione
necessaria il consenso dei parenti al matrimonio dei minori,
mentre la Chiesa considerava tale consenso come soltanto
opportuno ex causa honestatis. Tre anni dopo, per
motivi esclusivamente politici, vietò il matrimonio
con stranieri alle gentildonne sue suddite che possedessero
feudi. Inoltre istituì scuole che non tardarono a
diventar famose, e diede impulso, oltre che agli studi,
alle arti, ed anche all'agricoltura, molto trascurata. Promosse
l'industria, piuttosto primitiva nei suoi Stati, da render
facile ai mercanti forestieri di realizzarvi lauti guadagni
che continuamente emigravano. Munì ed abbellì
la sua capitale, Torino, « dove gli altri italiani
non trovavano alcun edificio pubblico o privato che potesse
sembrar tollerabile a confronto di quelli delle città
in cui fioriva la splendida arte del Rinascimento».
Fondò
Monti di Pietà, istituti di credito per frenare un'usura
che spesso giungeva al 90 per cento, e per provvedere alla
scarsità del numerario circolante. Cercò di
attenuare la vergogna della servitù della gleba,
ed escogitò molti provvedimenti destinati a migliorare
effettivamente le condizioni delle classi povere in generale.
Provvide soprattutto a rafforzare il suo Stato, non solo
con fortezze, cittadelle, baluardi, ma ancora e meglio con
l'istituire un esercito nazionale e stanziale, ben munito
di materiale da guerra, nonché una piccola flotta
permanente.
Tutte queste cose gli costarono un'enorme fatica, poiché
era solo a lottare contro difficoltà inaudite, in
mezzo a popolazioni che per la lunga soggezione allo straniero
avevan quasi totalmente perdute le antiche virtù.
D'altronde, dell'autorità assoluta Emanuele Filiberto
usò moderatamente, e da tutte le cronache del tempo
risulta con certezza ch'egli ebbe cura, costantemente, di
mantener buona giustizia e di dimostrarsi scrupoloso ed
abile amministratore del denaro pubblico. Essendogli noti
i grandi abusi e le malversazioni che si commettevano specialmente
per mezzo delle pratiche e dei giudizi in lingua latina,
per cui anche i sudditi meno ricchi erano costretti ad affidare
gli affari loro a dei rapaci legulei che li taglieggiavano
senza scrupoli, volle
che la giustizia fosse amministrata onestamente e con sincerità,
« sans que sous le prétexte d'une obscurité
de langage le pauvre peuple soit indúment travaillé
», e ordinò che tutti i processi civili
e criminali fossero scritti in lingua volgare, con la maggior
chiarezza possibile.
Fu del resto suo grandissimo merito lo sforzo che fece,
per italianizzare il Piemonte in tutto e per tutto, diverso
in questo dai suoi predecessori, nessuno dei quali si era
mai sentito italiano, né aveva cercato, come lui,
di professarsi e di dimostrarsi tale nella politica e negli
atti.
Mentre andava
compiendo quest'opera di benefiche riforme, Emanuele Filiberto
provvide anche a consolidarsi nei suoi domini, ad assicurarsene
l'assoluto possesso e ad estenderli quanto più potesse.
Nel 1575, poté finalmente dirsi vero e solo signore
di tutto il Piemonte, eccettuato Saluzzo. In quello stesso
anno comprò la contea di Tenda, che gli apriva la
strada di Nizza, e nell'anno seguente ottenne dai Doria,
pure per denaro, la cessione di Oneglia, città e
territorio. Altre terre ed altri diritti comprò da
altri, e cercò anche di acquistare il Monferrato,
per mezzo di trattative con Guglielmo Gonzaga e con Filippo
II, ma non vi riuscì. Guerreggiò soltanto
per domare i Valdesi tumultuanti, per tentare di riprendere
Ginevra (che si era ribellata fin dal 1526) e per togliere
a Berna i paesi di Gex, di Vaud ed altre terre sul lago
Lemano. Non riuscì in queste imprese, ma ormai il
suo Stato aveva riacquistato in Europa una notevole importanza,
il suo esercito era uno dei migliori del tempo e la sua
flotta aveva partecipato, con tre navi comandate dal Provana,
alla famosa vittoria di Lepanto.
Alcuni storici
affermano che in tutto quanto egli fece gli fu utile consigliera
la moglie Margherita di Valois, ma ciò non é
provato, e sembra veramente che questo grande restauratore
della Casa Sabauda abbia sempre operato da solo, esclusivamente
col proprio senno, senza ricorrere a collaboratori che sarebbero
stati inabili o malfidi. «Fra contrastanti influssi
francesi e spagnoli, scrive il Ricotti, Emanuele
Filiberto, nella sua gelosa indipendenza, era costretto
a fidarsi unicamente del proprio infallibile consiglio,
perché invano avrebbe cercato intorno a sè
uomini miranti al solo bene pubblico, capaci di intendere
e secondare la missione unificatrice e accentratrice della
monarchia Sabauda, in un Piemonte ormai divenuto Potenza
italiana ».
Una delle imprese
più abilmente condotte e più meritorie di
Emanuele Filiberto fu certamente la restaurazione delle
finanze dello Stato, alla quale, egli che aveva assunta
l'eredità paterna, come vedemmo, in condizioni disperatissime,
seppe provvedere con una saggia quanto severa organizzazione
tributaria, in modo tale che nel 1580, ultimo anno del suo
regno, le entrate furono, per il Piemonte e per la Savoia,
sensibilmente superiori alle spese, come risulta da documenti
sicuri.
Di tante cure spese per dare benessere e potenza ai suoi
Stati, il Duca poté vedere i benefici effetti prima
di morire. « Egli vide, così scrive
lo storico già citato, gli abitanti delle campagne
riprendere e migliorare i lavori agricoli, e imparare a
filare la lana e la seta, e quelli dei borghi e delle città
formarne tessuti, e sorgere dovunque industrie nuove. Vide
il contadino piemontese, diventato laborioso e intelligente,
come sempre era stato paziente e sobrio, fruire di un'onesta
agiatezza; e i suoi sudditi darsi anche al commercio marittimo,
protetti dalla marina ducale. Vide rifiorire gli studi,
e dovunque all'inerzia subentrare l'attività, allo
squallore ila floridezza ».
Ebbe questo
principe numerosa prole naturale, ma lasciò un solo
erede legittimo: CARLO EMANUELE. Quando, il 30 agosto 1580,
Emanuele Filiberto si spense, dopo una malattia non lunga
ma dolorosa, la città di Torino, divenuta una vera
capitale, non fu sola a considerare la perdita d'un principe
dotato di tante virtù come un gravissimo lutto. Tutto
il Piemonte, tutta la Savoia piansero sinceramente il loro
benefico sovrano, e il nunzio pontificio, dimentico degli
screzi avuti col Duca, che sempre era stato inflessibile
contro le tentate intromissioni ecclesiastiche a danno della
potestà civile, e che non aveva mai voluto infierire
contro gli eretici, scrisse a Roma: « È
mancato un moderatore di questi tempi a tutto il mondo,
et particolarmente il moderator della quiete d'Italia solo
con l'ombra dell'autorità et prudeutia sua ».
La
moglie: MARGHERITA DI VALOIS
(n. 1524 - m. 1574)
Margherita di
Valois, duchessa di Berry, figlia di Francesco I e della
sua prima moglie regina Claudia di Francia, nacque il 20
giugno 1524. Ella ebbe tutte le virtù dei principi
della Casa paterna, senz'averne i vizi e i gravi difetti.
Dal padre ereditò uno spiccatissimo gusto per le
lettere e per le arti, e fin dalla fanciullezza si impegnò
negli studi, trascorrendo lunghe ore nella biblioteca che
Francesco I aveva fondata in Fontainebleau. Parlava e scriveva
in varie lingue moderne, conosceva assai bene il greco e
il latino, e prediligeva la compagnia dei letterati e degli
artisti.
Non bella,
buona quanto intelligente, Margherita rimase nubile fino
all'età di trentacinque anni. Contrariamente a quanto
avveniva assai spesso in quei tempi, Margherita ed Emanuele
Filiberto ebbero occasione di conoscersi bene prima di unirsi
in matrimonio per le circostanze e per le ragioni politiche
a cui abbiamo accennato nella biografia precedente.
Nel 1547, il
Duca di Savoia aveva rifiutata la mano di lei, perché
gli era stata offerta con la palese intenzione di staccarlo
da Carlo V, che lo amava e lo proteggeva. Qualche anno dopo,
un avvenimento quasi drammatico fece nascere nel cuore dei
due principi il germe di quel sentimento che, per quanto
estraneo alla loro unione determinata da motivi di tutt'altro
ordine, contribuì a rendere felice la loro vita coniugale:
Emanuele Filiberto non rimase vittima di un grave incendio
scoppiato nella parte del Louvre in cui era alloggiato,
ospite del re di Francia, solo perché fu avvertito
del pericolo da Margherita di Valois e così poté
salvarsi.
A parte la
tradizione, la quale vorrebbe che Margherita si fosse innamorata
del valoroso principe Sabaudo per le sue imprese guerresche,
ancor prima di averlo conosciuto, e che Emanuele Filiberto,
negli ozi degli accampamenti, fra un combattimento e l'altro,
pensasse spesso a colei che l'aveva salvato da una morte
ingloriosa,
il loro matrimonio fu, come abbiamo visto, una delle condizioni
della conclusione della pace di Cateau-Cambrésis,
che seguì da vicino la famosa battaglia di San Quintino.
La sposa portò in dote al Duca di Savoia trecentomila
scudi, e il re di Francia s'impegnò a restituire
allo sposo tutti i possedimenti estorti a sua padre, Carlo
III, riservandosi le città di Torino, Chivasso e
Villanova d'Asti con le loro naturali dipendenze, come pure
Pinerolo con quell'estensione di territorio che il re stesso
avrebbe indicata. Quelle città e quelle terre sarebbero
rimaste al monarca francese finché fossero definite
tutte le sue questioni col Duca, le quali sarebbero state
regolate entro tre anni, per mezzo di pacifici congressi
o di arbitrati che si sarebbero iniziati sei mesi dopo il
matrimonio.
Quantunque
la dominazione dei principi Sabaudi in Piemonte più
non esistesse da più di ventidue anni, la notizia
della restaurazione degli antichi signori per effetto della
pace di Cateau-Cambrésis, venne festeggiata in tutta
lo Stato con grande e sincero entusiasmo.
Il 15 giugno 1559, Emanuele Filiberto lasciò i Paesi
Bassi accompagnato da cento cavalieri, tra gentiluomini,
paggi e servitori, tutti vestiti dei colori della sposa,
ch'erano il rosso e il nero. Egli ebbe grandiose accoglienze
a Parigi, dove prima furono celebrate le nozze del re di
Spagna con la figlia del re di Francia, poi, pure con molta
pompa, quelle sue « con la non bella, ma intelligente
e sensibile Margherita di Valois ».
Per poco un
funesto incidente non rese vane tutte le speranze concepite
dal principe per quel matrimonio. Nell'ultimo torneo combattutosi
in onore dei fidanzati, il re Enrico II fu ferito alla fronte
per la rottura della lancia del suo avversario, e la ferita
venne subito giudicata mortale. Questa disgrazia avrebbe
potuto mutare totalmente il corso degli eventi e pregiudicare
per sempre i disegni e le liete previsioni di Emanuele Filiberto.
Ma Enrico II, malgrado l'accaduto, volle che il matrimonio
di sua sorella venisse celebrato senza indugio, e la cerimonia
ebbe luogo nella camera stessa del re morente, il 10 luglio,
poche ore prima che egli rendesse l'anima a Dio.
La morte del sovrano, se da una parte provocava in Francia
nuovi torbidi, dall'altra prometteva un periodo forse lungo
di pace in Italia. Emanuele Filiberto ne approfittò
per recarsi in Fiandra ad accommiatarsi da Filippo II; poi
precedette la sposa nei suoi Stati per prepararle festose
accoglienze ed una degna residenza a Nizza, dove aveva deciso
di stabilirsi fino al giorno in cui Torino sarebbe stata
finalmente sgombrata dai Francesi.
Secondo una
gentile tradizione, la sposa augusta venne accolta, al suo
entrare negli Stati del marito, da uno stuolo di contadinelle
che le fecero un copioso omaggio di margherite.
Cessate le esultanze delle accoglienze, Emanuele Filiberto
si accinse con ardore alla sua grande opera di ricostituzione
dello Stato, e Margherita lo assecondò, interessandosi
specialmente di quanto si riferiva alle questioni religiose,
alle lettere e alla pubblica istruzione.
Uno dei pretesti a cui ricorrevano i Francesi per mantenere
la loro occupazione negli Stati Sabaudi consisteva nella
clausola secondo la quale quei territori avrebbero dovuto
ritornare in possesso definitivo della Francia qualora Emanuele
Filiberto rimanesse senza eredi legittimi. Ma, contrariamente
a quanto speravano i capi dell'occupazione francese, Margherita
di Valois, dopo tre anni di matrimonio diede alla luce un
maschio, il 12 gennaio 1562, e allora Emanuele Filiberto
poté ottenere l'evacuazione di Torino, nella quale
città entrò solennemente alcuni mesi dopo,
con la duchessa e con l'erede CARLO EMANUELE I.
Margherita
visse poi quasi di continuo nella capitale del ducato, occupandosi
quasi esclusivamente del piccolo principe, assai gracile
e delicato, al quale forse salvò la vita a forza
di amorose cure.
La moglie di Emanuele Filiberto non fu soltanto una sposa
e una madre esemplare, una donna pia e caritatevole, ma
fu anche una mente politica non comune. Il Duca dovette
a lei, infatti, il riacquisto di Pinerolo, di Savigliano
e delle valli di Perosa, cedute dai Francesi, ma non consegnate,
contrariamente a quanto era stato convenuto dopo la pace
di Cateau-Cambrésis. Fu lei che seppe, con abili
ragionamenti, indurre suo cugino Enrico III, quando passò
da Torino, a mantenere i patti, ritirando dalle due città
le milizie francesi, e a determinare il re di Spagna a restituire
ugualmente Asti e Santhià.
«Erano
le sue virtù, scrive il Ricotti, tali e
tante che di rado si vedono unite in una sola persona: dignità,
cortesia, indulgenza e giudizio, ingegno naturale e studio,
magnificenza d'atti e semplicità di maniere, effusione
di cuore e saviezza di ragionamento ».
Margherita morì, durante un'assenza del marito, il
15 settembre 1574, e fu rimpianta da tutti i sudditi come
una principessa dotata di virtù rare e protettrice
dei poveri.
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