IL VOTO
AGLI IMMIGRATI

di LUCA MOLINARI


Il voto agli immigrati:
riconoscimento di un diritto come forma di integrazione

Oltre il 60% dei bolognesi è favorevole al riconoscimento del diritto di voto agli immigrati extracomunitari residenti in città da anni per le elezioni amministrative. Il dato, emerso da una recente ricerca del Censis, indica come sia ormai impossibile rinviare ancora un atto necessario: non si tratterà solo del riconoscimento di un diritto di cittadinanza fondamentale come quello del voto, ma di un provvedimento necessario per favorirne l’integrazione e preservare il nostro (già fragile) sistema politico da scossoni e fratture che potrebbero travolgerlo qualora il voto agli extracomunitari venisse concesso solo tra alcuni decenni.

Che prima o poi ciò avvenga sta scritto nella naturale evoluzione della storia: uomini e donne che vivono, magari da generazioni in un determinato stato e che pagano regolarmente le tasse finiscono per lottare per poter decidere attraverso il voto le sorti di quello che è diventato la loro Patria.

Così fu per gli operai autoctoni a cavallo del XIX e XX secolo, così sarà da qui a venti anni per gli stranieri extracomunitari.

L’ineluttabilità di questo percorso storico ci invita ad affrontarlo al meglio. Oggi, secondo i dati ufficiali (questure, enti locali, Caritas, ecc. …) gli stranieri regolari e stanziali in Italia sono il 3% del totale della popolazione italiana e rappresenterebbero poco più del 2/2,5% dell’intero corpo elettorale. Ma il dato, a fronte dei sempre maggiori arrivi e regolarizzazioni dovute alla richiesta di manodopera a basso costo, è destinato ad aumentare.

Far accedere al voto chi già ne avrebbe diritto oggi e poi gradualmente chi arriverà e ne avrà i requisiti nei prossimi anni è un modo saggio e funzionale per affrontare in modo razionale e costruttivo la questione e dare soddisfazione ad un diritto fondamentale come quello del voto. Così facendo i neo elettori si spalmerebbero sul quadro politico esistente evitando la nascita di partiti etnici o religiosi che per storia e definizione finiscono per essere portatori di interessi solo parziali.

Se si rinviasse l’estensione del voto ai nuovi cittadini si sarebbe costretti a concederlo poi in blocco a centinaia di migliaia, forse milioni, di persone fra pochi anni: ma allora ci troveremmo di fronte a quelle forze politiche particolaristiche e etniche di cui sopra. Con grandi difficoltà sia per il quadro politico già esistente, sia per i nuovi elettori che avrebbero maggiori difficoltà a far sentire le proprie ragioni se rappresentati da partiti etnico-religiosi frammentati, in competizione fra loro e guardati con distanza e sfiducia dalle forze politiche “italiane”. Con il rischio di una reazione inversa e contraria come la nascita (o il rafforzamento poiché partiti del genere già esistono) di formazioni nazionalistiche-razziste italiane che chiamano a raccolta la popolazione autoctona in una sorta di scontro di civiltà per arginare gli stranieri.

La storia stessa conferma questa tesi: la Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie, cominciò già nella seconda metà dell’800 a far votare operai che collocarono nel sistema politico; i paesi continentali europei, tra cui l’Italia, aspettarono quasi un secolo fino alla I Guerra Mondiale e quando fu concesso il suffragio universale (maschile) ciò comportò scossoni e traumi frutto di preparazione delle masse, soprattutto quelle medie urbane (nazionaliste) e quelle rurale egemonizzate dalla Chiesa e dalle tendenza clericali.
Un clima di paura e di incertezza che contribuì non poco ad aprire le porte alla dittatura fascista, illiberale e antidemocratica.

La via della gradualità e della reciproca conoscenza è, senza dubbio la migliore, anche se le parti conservatrici del quadro politico si oppongono temendo la perdita di una meglio non identificata “identità nazionale” italiana, dimostrando così di non conoscere la differenza, liberaldemocratica e illuminista tra nazionalità e cittadinanza.
Alla nazionalità spettano tutti quei requisiti legate al luogo di nascita o di origine dei genitori: la lingua, il credo religioso, le abitudini culinarie, il modo di essere e di pensare: e la cambia nel corso degli anni e delle generazioni quando più cittadinanze convivono all’interno degli stessi Stati perché nulla ha a che fare con i diritti politici e civili, ma appartiene alla sfera del personale della propria vita.

Invece la cittadinanza è un requisito che si acquista vivendo, lavorando e pagando le tasse in un determinato Stato e in un determinato periodo della propria vita: ad essa appartengono diritti e doveri stabiliti dalla legge tra cui, appunto quello di voto.

di LUCA MOLINARI


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