Russia - Il dramma dei vivi
Una
pagina poco nota sulle terribili condizioni di vita vissute dagli uomini
dell'Armir che finirono nei lager disseminati nella Russia di Stalin
l'avanzata |
la ritirata |
I SOLDATI ITALIANI
PRIGIONIERI IN URSS NEL 1941-43
di Alberto Rosselli
-----A partire dalla prima metà degli anni Trenta i campi di concentramento (gulag) sovietici situati nelle remote e desolate steppe asiatiche del Kazakistan hanno accolto migliaia di deportati russi, ma anche appartenenti ad altre nazionalità e etnie. Oltre a dissidenti politici e comuni cittadini, la stragrande maggioranza dei quali accusati (spesso senza alcun motivo fondato o prove) di "tradimento nei confronti del regime comunista", nel corso della Seconda Guerra Mondiale vennero segregati in questi poco noti lager (al riguardo, più famosi sono senz'altro quelli siberiani) centinaia di migliaia di soldati appartenenti a quasi tutti gli eserciti dell'Asse.
Dei campi ubicati in Siberia molto è stato raccontato, ma non molto - almeno fino ad oggi - si è detto circa il destino dei prigionieri rinchiusi nei gulag delle regioni, o stati, sud-orientali dell'Unione Sovietica: in Kazakistan, Kirghisistan, Uzbekistan e Tagikistan (fanno naturalmente eccezione alcuni interessanti testi e resoconti riportati in bibliografia da cui abbiamo potuto attingere parte del materiale utile per questa breve sintesi).
I gulag di Karagandà
La storia dei 22 campi della regione di Karagandà (Kazakistan) è legata all'epoca dello stalinismo e delle "grandi purghe" degli anni Trenta, allorquando i vertici di Mosca decisero di costruire in queste distese desolate e remote particolari ed attrezzati campi nei quali vennero sperimentati "nuovi ed efficaci metodi di annichilimento dei soggetti socialmente e politicamente pericolosi". In queste aree cintate vennero infatti rinchiuse decine di migliaia di intellettuali, impiegati, operai e contadini russi, ucraini, tartari, caucasici, armeni, ebrei, mussulmani, ortodossi e cattolici (1).
La porta di entrata del "sistema rieducativo" (come veniva chiamato dalle autorità sovietiche) di Karagandà era la stazione di Karabàs, punto di arrivo dei convogli ferroviari carichi di prigionieri provenienti da tutto l'impero sovietico. Una volta sbarcati dai vagoni, i deportati venivano disinfestati e subito smistati nei vari "recinti attrezzati": un insieme perfettamente geometrico di baraccamenti privi di luce elettrica, acqua, servizi igienici e riscaldamento, circondati da alti reticolati di filo spinato elettrificato ed intervallati da numerose torri di guardia dotate di mitragliatrici e riflettori. La gran parte dei 22 "recinti" di Karagandà era situata nelle immediate vicinanze delle miniere di carbone ancora oggi presenti in questa regione.
Dopo l'attacco della Germania alla Russia (22 giugno 1941), a Karagandà iniziarono ad affluire anche i primi prigionieri tedeschi che, per motivi di sicurezza, vennero tenuti separati da quelli russi già presenti, e sistemati in altre sezioni di più recente costruzione, come quella di Majkoduk. Il primo convoglio con a bordo 1.436 tedeschi giunse a Karagandà nell'agosto del 1941. E successivamente, tra il settembre 1941 e il novembre 1945 (cioè a guerra terminata), altri 40.000 prigionieri di guerra, tra cui 8.113 soldati della Wehrmacht e ben 11.608 soldati giapponesi catturati in Manciuria dall'Armata Rossa tra l'agosto e il settembre del 1945, varcarono la soglia del campo per rimanervi (almeno quelli che riuscirono a sopravvivere) per parecchi anni. Alcune migliaia di soldati tedeschi e giapponesi vennero liberati e rimpatriati soltanto nel 1955, cioè 10 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
A Spassk, località ubicata a 30 chilometri da Karagandà, i sovietici allestirono poi uno speciale "campo-lazzaretto" dove solitamente venivano ricoverati i prigionieri "malati" e quindi "inabili al lavoro". Inizialmente, nei baraccamenti di questo curioso ospedale privo letti, medici e infermieri, andarono a morire alcune centinaia di reclusi russi affetti dalle più svariate malattie. Il 24 luglio 1941, su decisione del vice-capo della NKVD Cernisjov, Spassk venne sottoposto ad una specie di ristrutturazione e trasformato in un normale gulag per soli prigionieri di guerra, mentre gli ultimi russi ancora in vita vennero trasferiti in un altro campo situato nella non lontana Koksu.
La vita nei campi di Karagandà era simile se non peggiore (almeno per certi aspetti) a quella dei più noti gulag siberiani. I reclusi venivano impiegati soprattutto nell'estrazione del carbone o nelle cave di pietra. La giornata lavorativa iniziava alle sei del mattino e terminava alle sei di sera. Per recarsi alle miniere i prigionieri erano costretti a percorrere a piedi una media di 15 chilometri, anche d'inverno, con temperature che non di rado scendevano a meno 40 gradi. La durezza del lavoro e l'esiguità delle razioni (ai reclusi venivano concesse, due volte al giorno, una ciotola di brodo di miglio con qualche rapa o patata marcia e un tozzo di pane nero) causavano ovviamente frequenti crolli fisici con non radi decessi. Senza considerare che il lavoro nelle miniere (profondi antri soggetti a frane e privi di sistemi di sicurezza) provocava settimanalmente decine tra morti e feriti. Basti pensare che nel solo 1945 ben 4.643 prigionieri incapparono in altrettanti infortuni sul lavoro, di cui un quarto gravi o addirittura mortali.
Ma in tutti i campi del Kazakistan la situazione sanitaria era globalmente molto precaria. Il tasso di mortalità per malattia (soprattutto polmonite e tifo intestinale) era elevatissimo. Ciononostante, soltanto agli internati con più di 39 di febbre veniva concesso qualche giorno di riposo e, molto raramente, un paio di gavette di miglio in più, come supporto terapeutico. Anche perché i medicinali erano quasi del tutto assenti. Secondo dati recenti, ma probabilmente incompleti, forniti dalle autorità kazake negli anni Novanta, tra il 1942 e il 1946 nei gulag di Karagandà morirono di malattia e stenti oltre 6.000 prigionieri (2.430 dei quali nel solo 1945).
E particolarmente alti, a questo proposito, risultarono i decessi tra i deportati giapponesi.Tra le cause di morte certificate dai medici sovietici distaccati presso i campi (questi ultimi erano tenuti non tanto a curare i pazienti, ma a preparare meticolose relazioni sulle malattie e sui decessi) furono - oltre la polmonite e il tifo intestinale - anche altre patologie come la tubercolosi, la meningite, l'iperdistrofia muscolare e la disvitaminosi cronica. Senza considerare i non rari casi di suicidio e la morte per percosse o ferite di arma da fuoco.
Tra il 1941 e il 1945, seicento prigionieri, appartenenti a diverse nazionalità, accusati di avere sottratto cibo o vestiario vennero eliminati con un colpo alla nuca e sotterrati in anonime fosse comuni. E' interessante notare che, sempre tra le cause di morte, vennero registrati anche 50 casi di "congelamento nelle baracche": costruzioni che essendo prive di stufe, d'inverno si trasformavano in vere e proprie ghiacciaie con temperature oscillanti intorno ai meno 15 gradi centigradi. Non a caso i reclusi dormivano sui loro pagliericci completamente vestiti e calzati.
Fu soltanto verso la fine degli anni Quaranta che Mosca incominciò il graduale rimpatrio di una parte dei circa 20.000 internati dei campi del Kazakistan. Nel 1950 dietro il filo spinato se ne contavano ancora 8.650. Alcuni scaglioni vennero liberati soltanto dopo la morte di Stalin, tra il 1953 e il 1955. L'ultimo contingente (formato da tedeschi e giapponesi) poté lasciare l'inferno di Spassk - dove, come vedremo, erano rinchiusi anche molti soldati italiani del CSIR e dell'ARMIR - nel 1956.
I prigionieri italiani del campo di Spassk
Tra i prigionieri di guerra detenuti a Spassk c'era l'artigliere alpino, Andrea Bordino di Castellinardo (Cuneo) che nel dopoguerra, dopo essere rientrato in Italia, prese l'abito talare diventando fratello Luigi e prestando servizio presso l'Istituto Cottolengo di Torino. Qualche anno fa è iniziato il suo processo di beatificazione durante il quale sono state raccolte molte testimonianze sulla sua vita esemplare, comprese quelle relative al periodo da lui trascorso dietro il filo spinato di Spassk. E queste preziose memorie, minuziosamente vagliate e confrontate con i ricordi di alcuni suoi compagni di prigionia sopravvissuti, hanno consentito di ricostruire, almeno in parte, anche alcuni degli aspetti della vita in questo ed altri campi del Kazakistan.
"Furono circa 8.000 gli italiani (soldati dell'ARMIR, ndr) che vennero trasferiti nei gulag del Kazakistan", ricorda il soldato Pietro Ghione. "Io mi trovai in compagnia con Andrea Bordino nel campo Ievetnot Sodieved 99 di Spassk. Le nostre condizioni fisiche e psichiche erano talmente disastrose che stentavamo a reggerci in piedi. Per tre o quattro mesi Andrea ed io abbiamo condiviso la stessa baracca. Eravamo distrofici e non potevamo sopportare lavori troppo pesanti. I prigionieri ancora sani venivano spediti nelle miniere o, più raramente, se si trattava di un tecnico o di un operaio specializzato, in qualche fabbrica. A chi lavorava all'aperto venivano dati dei vestiti di pelliccia grezza. Ma all'interno del campo eravamo ricoperti di stracci. Il freddo era tremendo e il cibo scarso. Noi malati eravamo talmente prostrati che facevamo fatica perfino a parlare. Certi, tuttavia, riuscivano talvolta a cantare e, soprattutto, a pregare. Ma tutte le notti qualcuno di noi ci lasciava la pelle".
"Solitamente le guardie russe non ci maltrattavano gratuitamente", continua Pietro Ghione. Andrea aveva dei foruncoli nella schiena grossi come uova. Quando si aprivano lasciavano un buco profondo. Soffriva terribilmente, ma non si lamentava. Parlai di lui ad un medico tedesco, prigioniero nel campo, il quale a sua volta, si consultò con un collega russo, che fece trasferire Andrea Bordino in un ospedale chiamato il Lazzaretto. Per almeno tre mesi non ho avuto più sue notizie. Credevo forse morto. Poi, nella primavera dell'anno seguente, prima di lasciare la Siberia, l'ho rincontrato. Era ridotto a pelle ed ossa, ma i bubboni sulla schiena erano guariti. Degli 8.000 che eravamo quando arrivammo al campo 99, siamo ripartiti per l'Italia in poco più di 200".
"Durante la buona ma breve stagione - racconta il soldato Giovanni Mana, anch'egli rinchiuso a Spassk - chi era in grado di lavorare veniva mandato nei campi, mentre in inverno venivamo spediti nelle miniere. Giunsi al campo 99 verso la fine di aprile. La notte era ancora molto fredda e il termometro scendeva a meno 20. Non veniva mai giorno, ed era subito buio nelle prime ore del pomeriggio. Ricordo che il ghiaccio cominciò a sciogliersi a maggio inoltrato. In ogni campo vi erano parecchie baracche in parte già occupate da prigionieri rumeni ed ungheresi. C'erano anche alcune case in muratura, costruite dai membri di una spedizione mineraria inglese insediatasi in questa regione negli anni Venti per avviare lo sfruttamento delle miniere. Tutte le costruzioni - continua Mana - erano cintate da tre sbarramenti di filo spinato, uno dei quali alto tre metri e attraversato da corrente elettrica ad alto voltaggio. Le garitte per i soldati erano in legno ed erano sistemate su torri alte parecchi metri e situate un centinaio di metri l'una dall'altra".
I prigionieri italiani alloggiavano in baracche di legno con il tetto in lamiera. All'interno i letti erano a castello, a tre o quattro piani. Ognuna delle baracche ospitava un centinaio di uomini. "Nei mesi invernali era impossibile uscire dalla baracca senza morire assiderati". L'appello (cioè la conta) avveniva quattro volte al dì, e durante le giornate più fredde veniva fatto all'interno delle baracche onde evitare che i prigionieri, molti dei quali indossavano laceri cappotti e copricapo di fortuna, cadessero a terra.
Un giornata nel gulag
"Nel campo 99 la sveglia era alle sei, quando restavano ancora parecchie ore di buio fitto. Prima veniva la conta dei prigionieri e poi i russi ci costringevano a lavare i pavimenti della baracca. Bisognava combattere i pidocchi. Una volta alla settimana ci facevano fare una doccia, ma l'acqua spesso mancava. Verso le otto ci davano il ciai, una specie di tè, e qualche volta un pezzo di pane nero. Alle dieci e mezza ci passavano la prima scodella di miglio. Poi, intorno alle quattro del pomeriggio, quando ormai era buio, ci toccava la seconda scodella di brodo di miglio, accompagnata qualche volta da un pizzico di farina o da una patata.
Ogni giorno ci era concessa un'ora di riposo, che era solitamente dedicata all'indottrinamento politico. Qualche volta ci lasciavano cantare, ma era d'obbligo l'Internazionale. Più raramente ci era concesso di cantare motivi alpini o pezzi d'opera popolari. I russi amavano le canzoni italiane. Spesso, la sera, si pregava in silenzio".
I cannibali di Spassk
Pietro Ghione, prigioniero in Kazakistan con fratello Luigi, ha affermato "di avere visto un prigioniero ungherese cibarsi delle carni d'un soldato italiano morto". Questa testimonianza è avvalorata da quella del soldato di fanteria Bruno Borettini, della Divisione Pasubio, anch'egli ospite di una delle baracche di Spassk. Il suo drammatico resoconto è riportato nel libro: "Prigionia: c'ero anch'io" (Edizioni Mursia) a cura di Giulio Bedeschi.
"La mia storia è quella di un povero contadino che dopo essere stato arruolato ha combattuto in Iugoslavia e in Russia. Nel novembre 1941 fui preso prigioniero a Stalino e venni spedito in Kazakistan, precisamente a Karagandà, Campo n. 99. In quel momento noi italiani eravamo in 500; gli altri prigionieri appartenevano ad altre nazionalità. Un giorno, tormentato dalla fame, andai a raccogliere dell'erba che mi sembrava commestibile. Ma mi sbagliai: era velenosa. Fui ricoverato al Lazzaretto dove mi fecero una lavanda gastrica. Dopo qualche mese di fame e freddo ebbi una pleurite bilaterale. Ma i russi non volevano ricoverarmi perché dicevano che fingevo. Un ufficiale medico tedesco mi visitò e con una rudimentale siringa mi aspirò due litri di acqua dalle pleure. Me la cavai soltanto perché avevo un fisico robusto.
"Un giorno ci dissero che ci avrebbero mandati a casa. Venimmo caricati su una tradotta merci, ma dopo cinque giorni di viaggio ci scaricarono a Taskent per poi trasferirci al campo n.26/2 di Paktaral. Incominciava un secondo calvario. Poco pane, poca minestra, e molto lavoro nei campi di cotone. La mattina uscivamo scortati da "collaborazionisti" italiani vestiti alla russa e armati di fucile. Non ero capace di mandare giù questa cosa. A causa della fatica arrivai a pesare 38 chili. Diventai un distrofico, e allora mi lasciarono alla baracca.
"Passai altri due anni e mezzo di prigionia. Poi, quando venne il giorno del mio rimpatrio, mi ammalai. Era la malaria. Due miei commilitoni napoletani mi presero sotto braccio e mi accompagnarono fino alla stazione di Paktaral. Sono sicuro che se le autorità russe avessero saputo che avevo la febbre non mi avrebbero lasciato partire. Tornato in Italia, al mio paese, il sindaco, che era un comunista, mi promise un lavoro dignitoso. Ma siccome un giorno mi sorprese in un'osteria a parlare male dell'Unione Sovietica ritirò la parola. Io sarò anche un poveraccio, un contadino, ma questa è stata proprio una bella carognata".
NOTE
Tra il 9 e il 16 agosto 2002, una delegazione di 25 vescovi e rappresentanti di Conferenze episcopali dell'Europa e dell'Eurasia, insieme al Presidente del CCEE, Mons. Amédée Grab, vescovo di Coira, ha realizzato una visita ai principali campi del Kazakstan. Lo scopo del viaggio era la commemorazione dai milioni di deportati di diverse nazionalità che Stalin fece rinchiudere nei lager del Kazakstan (.) Come ha raccontato Aldo Giordano, Segretario generale CCEE, "la delegazione ha fatto anche visita al gulag di Spassk, presso Karaganda, dove nel 1941 fu costruito dai comunisti un campo speciale per i prigionieri di guerra (...) Ancora oggi nella steppa si trovano i cippi e le croci che ricordano i sepolti russi, ucraini, tedeschi, austriaci, rumeni, ungheresi, italiani, polacchi, cechi, slovacchi, francesi, giapponesi".
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Tabella dei prigionieri di guerra divisi per nazionalità con l'indicazione di quanti sono sepolti nel nuovo cimitero di Spassk dove, alcuni anni fa, grazie all'interessamento del Governo kazako e di alcuni paesi occidentali, è stata posta una grande lapide in memoria di tutti i deportati che non fecero più ritorno a casa.
Nazionalità | Internati | Sepolti |
Tedeschi | 29 777 | 4 874 |
Austriaci | 1 633 | 221 |
Rumeni | 6 740 | 827 |
Ungheresi | 854 | 60 |
Italiani | 1 188 | 59 |
Polacchi | 1 208 | 155 |
Cechi e Slovacchi | 518 | 100 |
Francesi | 236 | 16 |
Giapponesi | 22 225 | 5 541 |
Russi (varie etnie) | 1 881 | 81 |
Alberto Rosselli
BIBLIOGRAFIA
Il grande terrore, di Robert Conquest, Edizioni BUR (Rizzoli), 1999
Gulag, il sistema dei lager in URSS, di Marcello Flores e Francesca Gori (a
cura di), Edizioni Gabriele Mazzotta, 1999
I racconti della Kolyma, di Varlam Salomov, Edizioni Adelphi, 1999
Arcipelago Gulag, di Aleksandr Solzenicyn, Oscar Mondadori, 1990
Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovietico (estratto) di
Giovanni Gozzini, giugno 2000.
Memorie di Viaggio (estratto) di Franco Marchi, 2002. Omonimo sito internet.
Resoconto del viaggio in Kazakistan, Agosto 2002 (estratto), di Aldo Giordano,
Segretario generale CCEE.
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