SCHEDA |
CONTADINI IN RIVOLTA |
La
tormentata riforma agraria nell'Italia degli anni Cinquanta
CONTADINI IN RIVOLTA
CONTRO I GRANDI
PROPRIETARI TERRIERI
di MATTEO SOMMARUGA
Se il 1949 aveva visto il governo De Gasperi affrontare la spinosa questione dell'adesione italiana al patto Atlantico, nel 1950 la maggioranza democristiana dovette concentrare la propria attenzione su quelle riforme in campo economico e sociale reclamate a gran voce da un'ampia compagine parlamentare. Un bisogno effettivamente condiviso da quelle fasce della popolazione, concentrate prevalentemente al Sud, sulle quali avevano pesato maggiormente le ristrettezze dell'immediato dopoguerra. E l'ondata di scioperi e dimostrazioni con cui si dovette misurare in quegli anni il Ministero dell'Interno ne è la prova.
Nelle campagne dove, pur impiegando oltre il 40% della popolazione attiva, veniva generato una cifra di poco superiore al 28% del PIL, le condizioni dei lavoratori erano particolarmente disagiate. Si è calcolato che nel 1950 il reddito medio di un bracciante fosse equivalente, se non inferiore, a quello di un operaio di una grande industria.
La bassa redditività della terra era dovuta a un metodo di gestione arretrato, se non arcaico, dove antiche tradizioni si trasformavano talvolta in occasione di sopruso nei confronti della manovalanza. Soprattutto nel Meridione. Se in Calabria oltre un quarto della terra era diviso in poco più di duecento proprietà, in Sicilia il lavoro bracciantile era ancora controllato dai gabellieri. Al malumore spontaneo nato dalla miseria, si aggiungeva quello fomentato dalla CGIL, ormai ancorata al PCI, e dalle sinistre. Ansiose di rivincita, dopo la sconfitta elettorale del 1948 e la constatazione di un arretramento nei grandi centri industriali, socialisti e comunisti avevano individuato nelle campagne più aride il terreno più fertile per la propria propaganda. Un progetto di evangelizzazione che poteva contare su una prima campagna di sensibilizzazione delle masse contadine verso temi sociali, operata durante la guerra civile.
Quando i principali obiettivi della guerra partigiana, dopo i successi sulle montagne, si erano spostati nelle pianure, era infatti diventato indispensabile conquistare l'appoggio del mondo rurale. Questo si rivelò fondamentale per le vittorie della Resistenza e la dirigenza del PCI pensò che sarebbe stato altrettanto rilevante per la sconfitta della DC. Gli sforzi furono concentrati soprattutto al Sud, dove dal '47 in poi la presenza comunista registrò un netto cambiamento di qualità. Dal Nord furono inviati quadri e dirigenti del partito, con lo scopo di costituire i nuclei di federazioni, leghe, cooperative e sindacati destinati a giocare un ruolo fondamentale per le azioni future. Un ulteriore apporto alla diffusione delle posizioni socialiste nelle campagne fu dovuto alla disoccupazione nell'industria e al flusso di operai che andò a alimentare il bracciantato. Non fu dunque un caso che la lunga serie di agitazioni sindacali avvenute fra il '49 e il '50 abbiano avuto visto i lavoratori agricoli nella parte del protagonista. I primi seri incidenti si verificarono nella primavera del '49, in concomitanza con lo sciopero di due mesi nelle campagne indetto da Federterra.Fu un grave colpo per i raccolti di quell'anno, ma soprattutto per i rapporti, di per sé sufficientemente arroventati, fra il governo e l'opposizione. Agli Interni si trovava MARIO SCELBA, lui stesso figlio di braccianti, ma risoluto a mantenere la legalità a tutti i costi. Tre anni più tardi dimostrerà la propria imparzialità vietando lo svolgimento del terzo congresso del MSI a Bari, ma per la sinistra, era, e rimane, il massacratore del popolo. Ai suoi ordini poteva contare su una forza di pubblica sicurezza mal preparata, ma determinata e pronta a eseguire con metodi sbrigative le già spicce direttive ministeriali. A Molinella, nel Veneto, il 7 maggio fu uccisa una mondina da un carabiniere. A Medilia, vicino a Milano, si registrò una seconda vittima durante una dimostrazione di braccianti. I rapporti della Pubblica Sicurezza osservavano in quel periodo uno slittamento a sinistra dei lavoratori agricoli, soprattutto nella valle del Po dove furono istituiti i consigli di cascina, su modello dei consigli di gestione operaia.
A questo si aggiungevano gli scioperi alla rovescia dei disoccupati che invadono i campi e eseguono lavori senza autorizzazione chiedendone successivamente il pagamento. I proprietari risposero trasportando altrove le scorte, congelando le spese per le forniture e denunciando gli occupanti alla magistratura. La protesta viene fermata, ma gli schieramenti di sinistra parlano di "vittoria morale". Fra i risultati più evidenti la proroga a tutta l'annata 1949/50 dei contratti di affitto di fondi rustici, approvata alla Camera il 27 aprile, ma soprattutto l'attenzione che il Parlamento iniziò a maturare nei confronti della riforma agraria. Si faceva strada l'idea che fosse necessaria "una maggiore equità nella distribuzione delle terre". I comunisti osservano che la distribuzione della ricchezza fosse "un bisogno così primitivo che consente di individuare facilmente i temi di lotta". Si credeva, e del resto molti credono tuttora, che spezzando il latifondo si sarebbe andati incontro alle esigenze produttive.
Lo stesso De Gasperi, in un'intervista rilasciata a Il Messaggero del 17 aprile di quello stesso anno, afferma che "� né un tale aumento della piccola proprietà potrà compromettere la produzione, che anzi l'accrescerà, poiché alla nuova sistemazione della proprietà si assoceranno la bonifica e la trasformazione del suolo". Dal canto loro i comunisti ribadivano che "Una riforma agraria, per essere tale, deve tendere alla liquidazione della grande proprietà assenteista, alla limitazione della grande proprietà capitalistica con l'avviamento e stimolo a forme di conduzione cooperativa, ad una riforma dei patti agrari, alla estensione e difesa conseguente della piccola e media proprietà lavoratrice". O praeclarum ovium custodem, ut aiunt, lupum! è il commento sarcastico di un giornalista di area cattolica riferendosi al destino della piccola proprietà nel regime sovietico.
La tensione era forte e il PCI in un primo momento aveva perfino prospettato che la riassegnazione della terra avvenisse senza alcun risarcimento nei confronti dei proprietari. Del resto non erano in pochi a ritenere che il capitalismo fosse ormai condannato di fronte all'affermazione su scala mondiale di quelle che, con un certo eufemismo, venivano chiamate democrazie progressive. Interessante è anche un intervento contemporaneo apparso su La Civiltà Cattolica, al tempo considerato la voce ufficiale del Vaticano in Italia, dal titolo Il problema della distribuzione in agricoltura. L'autore, tal De Marco, dopo aver liquidato in tutta fretta l'ipotesi di una economia collettivista di stampo sovietico, cui si oppone categoricamente, opera un netto distinguo fra pensiero cattolico e liberale in ambito economico. Se quest'ultimo considera la ricchezza della nazione in base alla massimizzazione della produzione, il primo considera invece una nazione ricca solo se la ricchezza è ben distribuita. Ignorando la necessità dell'accumulo di capitali per superare certi stadi nello sviluppo economico di una nazione, De Marco giunge a sostenere che è preferibile una ricchezza inferiore, ma meglio ripartita, a una di dimensioni maggiori, ma concentrata. Altro punto fondamentale è la difesa dell'iniziativa privata, ma solo negli interessi generali della collettività.
E ci si accorge, leggendo alcuni passi citati dalla Summa Theologiae di san Tommaso, che a distanza di secoli la visione della Chiesa in fatto a certi temi è rimasta immutata. Antonio Segni, ai tempi Ministro dell'Agricoltura, si mosse in questa direzione. Secondo il primo abbozzo della riforma, le terre sarebbero dovute esser ottenute in parte "� primo, da una quotizzazione di beni patrimoniale, dello Stato e dei Comuni, suscettibili di coltura agraria; secondo, da una riduzione proporzionale progressiva della proprietà privata". Per quest'ultima il criterio suggerito dal futuro presidente della Repubblica, sarebbe dovuto essere il reddito catastale, secondo il triennio 1937/39. La quota percentuale coinvolta dalla riforma avrebbe dovuto invece oscillare da un minimo del 20, a un massimo del 50 per cento. Il fatto che tale massimo, su stessa ammissione del ministro Segni, avrebbe potuto riguardare "tutt'al più cento ditte e forse meno" va a tutto vantaggio di chi sostiene che il latifondo non fosse poi così radicato nell'economia agricola di quegli anni.
I proprietari sarebbero stati compensati in parte in contanti in parte con un titolo di Stato fruttifero redimibile, ma agli Enti pubblici si chiese di ricorrere all'enfiteusi. Un contratto che prevede l'usufrutto in perpetuità, o per lungo tempo, di un terreno, dietro pagamento di un contributo in denaro o in natura. Istituto di diritto romano, come recita uno Zingarelli di quegli anni, fu molto in uso nella penisola italiana durante il XIV secolo. Facevano eccezione quelle aziende per cui, "eccezionalmente attrezzate e industrializzate", un'amputazione sarebbe risultata fatale. In questo caso le indicazioni del Governo erano orientate verso "apposite forme associative di partecipazione ai prodotti e agli utili". Fondamentale sarebbe poi dovuta essere la scelta dei destinatari dei nuovi lotti e la loro assistenza. Crediti, consulenze tecniche e cooperative per l'acquisto e l'utilizzo delle macchine avrebbero dovuto consentire la nascita di una piccola proprietà condotta con un criterio moderno. Esclusi dalla riforma si sarebbero trovate le opere di carità e i beni ecclesiastici. Un argomento, quest'ultimo, che fu duramente criticato da liberali e repubblicani.
E se i socialdemocratici trovavano la proposta di legge contraria alla Costituzione, i comunisti, proprio citando quegli stessi principi, sostenevano che il Governo "non intende promuovere nessuna riforma agraria". Il dibattito si sarebbe protratto per quasi un anno. Nel frattempo la protesta dilagava nelle campagne. Il 15 maggio fu proclamato uno sciopero deciso e preparato mesi prima da Federterra, ma l'adesione dei sindacati autonomi indicava il "carattere economico dello sciopero". Il Governo si pose in questo caso come intermediario tra proprietari e contadini, ma agì anche con fermezza laddove lo sciopero si era trasformato in un abuso. Gli episodi di violenza andavano dai blocchi stradali, alla distruzione di covoni al danneggiamento di macchine agricole. Interi filari di viti furono tagliati, a numerosi pagliai fu appiccato il fuoco, chi non aderiva allo sciopero veniva malmenato. Contro la polizia furono esplosi diversi colpi di armi da fuoco, si registrano lanci di bombe a mano e sequestri di persona.
Un proprietario fu bastonato da 500 braccianti. La reazione del figlio sfociò in tragedia. In questo clima immediata fu l'approvazione di un disegno di legge sulla riforma dei contratti di mezzadria e di affitto. Il pacchetto fu presentato alla Camera il 16 maggio. Comprendeva diversi emendamenti fra cui il diritto di prelazione, da parte dell'agricoltore, sul fondo coltivato, la richiesta di una giusta causa per la disdetta del contratto d'affitto e la durata minima dei contratti fissata con un ciclo di rotazione colturale.
Si trattava di un primo passo verso la riforma, ma i comunisti la videro come "una legge nata dal timore del peggio, ispirata più a motivi di polizia che a motivi di giustizia sociale". E il peggio venne di lì a poco quando il 29 ottobre a Melissa, borgo calabrese nei pressi di Crotone, il malumore dei braccianti sfociò in una serie di incidenti dai toni di un dramma verista. Secondo un resoconto della PS "... da mesi migliaia di contadini a piedi e sui somari, bandiere e bande in testa, partono di buon mattino da paesi come Strongoli, Cutro, Rocca di Nato, San Giovanni in Fiore, raggiungono proprietà incolte, si spartiscono la terra, la picchettano e cominciano a dissodarla".
Ma quel disgraziato giorno, nel pomeriggio, circa trecento uomini, istigati in parte dalla miseria in parte da chi avrebbe potuto trarre tutto il vantaggio dai disordini che ne sarebbero seguiti, irruppero nel feudo Fragalà.Il proprietario, barone Berlingieri, aveva allertato le forze dell'ordine e queste, sotto il comando del commissario Rossi, avevano intimato ai braccianti di abbandonare il "feudo". Difficile dire, leggendo i resoconti dell'epoca, chi avesse aperto il fuoco per primo, ma sul terreno rimasero due morti e una ventina di feriti. Dopo poche ore si sarebbe aggiunta una terza vittima, una ragazza, morta all'ospedale. Vi furono scariche di mitra e lanci di bombe a mano, non in dotazione alle forze di polizia e evidentemente utilizzate dai braccianti. Nelle settimane successive seguirono altre vittime, tutti in casi analoghi. Una ragazza a Nardò, due dimostranti nel Foggiano, due ancora a Montescaglioso.
Per mettere fine alla carneficina, il 16 novembre Scelba si incontrò con Di Vittorio, segretario generale della CGIL, e Ilio Bosi, sua controparte nella Confederterra. La mediazione ottenne i risultati previsti, ma la riforma doveva essere approvata al più presto.Nel Consiglio dei Ministri, riunitosi il 15 novembre, i provvedimenti per la Calabria costituirono l'argomento principale. Segni fu incaricato di presentare d'urgenza al Parlamento un disegno di legge per la distribuzione dei terreni della Sila. Una manovra che dava inizio alla riforma agraria e riguardava oltre 45000 ettari, 5000 nuove piccole proprietà e 2000 proprietà che le assegnazioni andavano a integrare. Lo Stato si sarebbe accollato un onere di circa 20 miliardi dell'epoca, di cui solo una minima parte reperibile.
L'esecuzione del programma, che comprendeva anche un'opera di trasformazione e bonifica delle terre assegnate, avrebbe fornito impiego stabile a non meno di 20.000 contadini. La legge, ricordata come la legge Sila, fu accolta come una grande conquista sociale dalla stessa stampa legata al PCI. De Gasperi, effettivamente occupato dagli avvenimenti più recenti, volle assistere personalmente all'inizio dei lavori di bonifica e di avviamento della riforma, ribadendo la vicinanza dello Stato, e soprattutto del Governo, alle regioni coinvolte. Nel frattempo anche la Giunta siciliana aveva provveduto a un primo abbozzo di riforma, per la cui attuazione il Governo centrale avrebbe dovuto però contribuire con un finanziamento di 30 miliardi.A Palermo, il 18 novembre, gli accordi fra agricoltori e Federterra subirono però uno stallo quando quest'ultima chiese l'estromissione dei gabellieri. Costoro, eredità del regime feudale, concedevano ai contadini le terre a mezzadria e costituivano uno degli abusi più evidenti nei confronti dei contadini. Ancora il 21 novembre l'intervento delle autorità fu necessario per impedire i tentativi di occupazione nelle province di Palermo, Agrigento, Caltanissetta e Catania. La riforma fu approvata di lì a poco. Il 1950 vedeva inoltre la nascita, il 27 gennaio, di un nuovo governo De Gasperi, mentre le agitazioni proseguivano nelle regioni non ancora riguardate dai provvedimenti. Nella bassa bresciana gli agricoltori e gli affittuari arrivavano a assoldare chi proteggesse la loro vita e i loro averi. Spesso venivano costretti a barricarsi nelle cascine subito dopo il tramonto.
La prefettura di Brescia, pur smentendo le voci più allarmanti, parlavano, con termini del tutto eufemistici, di "episodi spiacevoli in talune cascine e a danno di taluni agricoltori". Ancora il 29 settembre si registra la morte, a Mede Lomellina, di Ernesto Corsico, "libero lavoratore" sessantacinquenne, probabilmente deceduto in seguito all'aggressione di un gruppo di scioperanti. Nello stesso giorno moriva anche Mosè Praga, un giovane contadino freddato con un colpo di pistola dall'agricoltore Andrea Rosso a Quinto Vercellese. Costui sarebbe stato circondato da una quarantina di facinorosi, tra cui la vittima. A Gaggiano, presso Milano, fu la volta di Angelo Troni, ex partigiano, ucciso dal fittabile Valsecchi. Scioperi venivano proclamati a Torino per tutto il 10 ottobre in solidarietà con i braccianti agricoli. Unica voce fuori dal coro la democristiana Liberterra, contraria all'abuso di scioperi e astensioni dal lavoro. Il 6 ottobre era stata però ratificata dal senato la "legge stralcio", ultimo capitolo della tormentata legge fondiaria. Riguardava una vasta quantità di appezzamenti, in Puglia, Campania, lungo il bacino del Fucino e del Flumendosa, nella Maremma Toscana e infine nel Delta Padano.Contrari i liberali, che la trovarono eccessiva e videro in Segni il "vero e unico arbitro della proprietà terriera". Ottomila mila ettari di terra furono assegnati in lotti minimi e divisi in circa 200mila proprietà. Segni non riuscì però a seguire fino in fondo la riforma che lui stesso aveva studiato. Nel luglio del 1951 fu costituito il settimo governo De Gasperi.
Al parlamentare sardo fu affidata la Pubblica Istruzione e l'Agricoltura toccò a Fanfani. Come discordi furono i pareri al momento della votazione in Parlamento, così sono discordi le opinioni di storici e studiosi nei confronti della riforma. Sicuramente non raggiunse gli obiettivi prefissati e, almeno in alcuni casi, si prestò a forme di clientelismo che non favorirono certo il processo di sviluppo delle campagne. Altre volte riguardò terreni quasi del tutto sterili e, spezzettando le grandi proprietà in minuscoli appezzamenti, impedì all'agricoltura italiana quello sviluppo su larga scala che si verificò in altri paesi come Francia e USA. Osservando le statistiche contribuì però, tramite le opere di bonifica, a un aumento della produzione agricola e a un miglioramento delle stesse condizioni di vita nelle campagne.
MATTEO SOMMARUGA
Bibliografia
Nuove questioni di storia contemporanea, vol. IV, MarzoratiQuesta pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net