CECENIA A ritroso nel tempo per capire le origini di una drammatica crisi Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Romanov, Stalin ed infine la "democratica" Russia di oggi |
Maggio 2000
DAL PANSLAVISMO
ALLA CECENIA:
L'IDEA IMPERIALE RUSSA A CONFRONTO
CON LA STORIA
La crisi cecena riporta agli onori della cronaca
il ruolo fondamentale svolto dal nazionalismo, dall'imperialismo e dal militarismo
nelle vicissitudini della Russia, nonché la loro straordinaria funzione di collante
della coscienza nazionale. Dall'epoca zarista, attraverso il comunismo fino
alle incognite del dopo Eltsin, un filo comune caratterizza le scelte di politica
estera: un rapporto conflittuale con l'Occidente, inteso volta a volta come
modello da imitare o come portatore di corruzione dell'anima russa.
Ora che Eltsin si è fatto da parte consegnandosi alla storia come il padre fondatore della Russia democratica, e ora che il suo successore ideale, VLADIMIR PUTIN, ne ha raccolto simbolicamente lo scettro perpetuando, con l'escalation della guerra in Cecenia, l'immagine di uomo forte che già era del suo predecessore, i Russi hanno di nuovo il loro piccolo zar.
Naturale prevedere che morto il comunismo, e ancora lontano un equilibrato sviluppo economico del Paese, nazionalismo, imperialismo e militarismo saranno per l'immediato futuro - così come lo sono stati dall'età moderna a oggi - il collante capace di tenere assieme il gigante russo. Del resto, le più recenti statistiche fotografano una realtà interna fortemente preoccupata dei rapporti con le altre potenze. Il 69 per cento dell'opinione pubblica russa si ritiene assediata dall'Occidente, ancora percepito come un nemico, il 65 per cento rimpiange lo scioglimento dell'Urss e pressoché tutti approvano la guerra in Cecenia. Questione cecena che per la Russia è prima di tutto una questione di amor proprio, una prova di virilità, che dopo la prima fase della guerra, iniziata nel 1994 e conclusasi temporaneamente nel 1996 con l'autonomia di fatto della regione ribelle, attende in questo primo scorcio del 2000 una soluzione ancora una volta affidata alle armi.
Il destino è sempre stato infausto con la piccola regione chiusa nella parte nordorientale del Caucaso, tra Mar Nero e Mar Caspio. Porta di accesso all'Oceano Indiano e, in tempi più recenti, verso le risorse petrolifere del Medio Oriente, la Cecenia, abitata in prevalenza da popolazioni di religione musulmana sunnita, da secoli vede mortificate le sue aspirazioni separatiste dalle truppe russe.
Le prime frizioni risalgono alla prima metà del XVIII secolo, quando l'espansione di Pietro il Grande verso il Caucaso si scontrò con il forte spirito autonomistico di quelli che allora erano chiamati semplicemente "uomini delle montagne". Le ribellioni (regolarmente represse nel sangue) continuarono, soprattutto nel corso della seconda metà del XIX secolo, quando il separatismo ceceno si orientò verso la costituzione di uno stato autonomo di tipo islamico. Nel 1917 fu proclamata l'indipendenza politica della Confederazione dei Caucaso del Nord, ma nel 1918 i bolscevichi riuscirono a riprendere il controllo della situazione.
Nel 1924, dopo qualche anno di relativa autonomia come Repubblica Sovietica Autonoma della Montagna, STALIN strinse di nuovo i lacci e impose una russificazione della regione a tappe forzate. L'accusa di collaborazionismo durante l'invasione tedesca spinse infine il dittatore georgiano a organizzare la deportazione in Siberia di quasi tutta la popolazione cecena (circa 400 mila persone).
Solo nel 1957 i deportati poterono tornare alla loro terra, senza però rientrare in possesso dei beni che vi avevano lasciato, nel frattempo finiti nelle mani della minoranza russa e cosacca. Negli anni che hanno seguito il crollo dell'Urss l'aspirazione indipendentista ha ripreso fiato, forte di una connotazione religiosa (islamica) che appare ancora più marcata rispetto al passato. Ma il Cremlino non è disposto ad assistere alla disgregazione di questa importante regione. In gioco non c'è solo l'economia della Russia, ma la coscienza nazionale di tutto un popolo che non vuole più svendere i pezzi del suo impero. Ha affermato recentemente Richard Pipes, storico della Russia ed ex consigliere di Reagan, che il pericolo non è un ritorno del comunismo, "ormai morto e sepolto, ma una fiammata di nazionalismo violento e di antioccidentalismo".
Purtroppo l'amministrazione americana ha adottato e mantiene verso Mosca una politica contraddittoria che alimenta il pericolo. E l'Europa va al traino, anziché offrire alternative". Insomma, il rapporto difficile, talvolta conflittuale, della Russia con l'Occidente caratterizzerà il XXI secolo come ha caratterizzato i secoli precedenti, dall'età moderna a oggi.
Se fu infatti Ivan il Terribile nel XVI secolo a portare avanti la formazione dell'unità nazionale, con l'annessione dei territori del Volga e della regione dei Cosacchi, fu lo stesso Ivan a dare il via alla politica di espansione verso il Baltico e verso il Mar Nero. Ma questa spinta andò a cozzare contro la Polonia che, approfittando dei disordini seguiti all'eliminazione dell'ultimo discendente di Ivan il Terribile, riuscirà a invadere la Russia e a occupare Mosca. Solo la rinascita di uno spirito nazionale russo (analogamente a quanto succederà contro Napoleone e contro Hitler), incoraggiato dal clero ortodosso, porterà infine alla liberazione del Paese e all'insediamento nel 1613 della dinastia dei ROMANOV. Durante queste prime fasi della sua storia la Russia (o meglio, la Moscovia, come allora si chiamava) era ancora un Paese estremamente chiuso su se stesso. Vissuta fino ad allora in perfetto isolamento politico e culturale, non aveva avuto la possibilità di un confronto con l'Occidente europeo.
La servitù della gleba caratterizzava ancora i rapporti di lavoro nelle campagne, mentre le classi dominanti ritenevano che il ruolo storico del Paese potesse svolgersi solo a patto di mantenersi immune dalle influenze esterne e difendendo le proprie caratteristiche nazionali. L'occidentalizzazione fece però il suo ingresso con Pietro il Grande (1689-1725) che trasformò la Russia in uno stato moderno (razionalizzazione dell'amministrazione pubblica, controllo regio sul Santo Sinodo della Chiesa ortodossa, modernizzazione dei costumi) capace di entrare nel consesso internazionale come una grande potenza. A costo di grandi sacrifici economici sconfisse la Svezia e conquistò il predominio sul Baltico. E a suggello di questa svolta imperialistica fece costruire alle foci della Neva una nuova capitale, San Pietroburgo. A Pietro si deve anche l'inizio dell'espansione verso il Caucaso, che prenderà nuovo vigore sotto Caterina, allorché tutto il Caucaso settentrionale (Dagestan e Cecenia in primis) verrà inglobato nell'impero.
Dell'espansionismo russo nel corso del XVIII secolo ne fecero quindi le spese la Polonia, cancellata dalle carte geografiche dopo l'ultima spartizione del 1795, e la Crimea, sottratta all'impero turco e annessa nel 1784. Caterina II, che di queste poderose acquisizioni territoriali verso l'Europa centrale e i Balcani fu l'artefice, si fece anche sostenitrice dei principi illuministici francesi senza tuttavia riuscire ad andare oltre a dispotismo illuminato di facciata. Il destino imperiale russo era però al suo culmine e la geografia politica di tutta Europa non poteva essere messa in discussione senza il beneplacito o l'intervento della Russia. Tuttavia, a fronte di tanti successi di politica estera la Russia restava un Paese arretrato. La questione contadina (emancipazione dei servi e migliore distribuzione della proprietà terriera), che fino ad allora era stata causa di innumerevoli rivolte popolari, rimaneva irrisolta.
Ha scritto Aleksandr Solzenicyn che "già alla fine del secolo XVII il popolo [russo] avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo di riposo, e invece per tutto il secolo seguente non fecero che tormentarlo. Non erano forse stati raggiunti tutti gli obiettivi, all'estero, che la nazione si era prefissa? Non era ormai possibile fermarsi e volgersi completamente al nostro ordinamento interno? No! Le avventure all'estero dei governanti russi erano tutt'altro che terminate". L'età napoleonica vide la Russia impegnata attivamente nel circoscrivere l'espansionismo francese. Sullo slancio della vittoria nella "grande guerra patriottica" del 1812 contro Napoleone, ALESSANDRO I divenne il principale animatore della VI coalizione (1813, che portò alla vittoria di Lipsia) e uno dei principali artefici del Sistema della Santa Alleanza, cui aderirono Austria e Prussia. Assertore del panslavismo, ovvero della volontà di riunire in un solo organismo politico tutti i popoli slavi, lo zar si proclamò anche protettore dei cristiani ortodossi sottomessi all'impero ottomano e puntò a una politica di espansione verso il Mediterraneo.
Gli effetti di tale politica si manifestano nella presenza pressoché costante delle truppe russe nelle crisi e nelle guerre europee di tutto il XIX secolo. Guerre contro l'impero ottomano per ottenere il transito attraverso il Bosforo e a favore dell'indipendenza greca e serba; repressione della rivolta polacca e di quella ungherese nel 1848-49; invio di truppe in Moldavia e Valacchia nel 1848. La guerra in Crimea e la conseguente sconfitta pose fine solo temporaneamente all'attivismo della politica zarista (in questo caso di NICOLA I). Nel 1863, infatti, la Russia non perse l'occasione di intervenire perfino nella guerra civile americana sostenendo con la propria flotta gli stati del nord. Sul continente europeo, invece, la vocazione panslavista resterà il chiodo fisso. Il vittorioso conflitto con la Turchia nel 1877-78 farà della Russia il difensore e il liberatore degli slavi dei Balcani, anche se il Congresso di Berlino - imposto dalle grandi potenze - ridurrà la portata del successo.
La vocazione panslavista uscirà ulteriormente rafforzata dopo lo smacco di Tsushima nel 1905, contro la flotta giapponese. E la decisiva partecipazione al primo conflitto mondiale non farà che confermare l'effetto calamitante del Vecchio continente sulla politica estera russa. Venne quindi il bolscevismo, ma questa ormai è storia recente. I settant'anni di vita dell'Unione Sovietica suscitano oggi un grande rimpianto nel popolo russo (privazioni e sofferenze a parte). L'espansionismo che non riuscì agli zar fu raggiunto con grande determinazione da Stalin e da suoi successori: al culmine della sua potenza l'Urss controllava direttamente i Balcani e gran parte dell'Europa, e indirettamente spezzoni importanti dell'Africa, dell'Asia e dell'America centrale.
Viene quindi da chiedersi se l'Occidente, con i suoi influssi politici, ideologici ed economici abbia nuociuto o meno all'evoluzione storica della Russia. Ritornando a quel senso di minaccia proveniente da Occidente, che abbiamo visto all'inizio essere oggi percepito dal 69% dei Russi, fino a quale punto è possibile ritenerlo fondato?
Per spiegarlo possiamo prendere l'esempio di Aleksandr SOLZENICYN, il vecchio dissidente che meglio di tutti oggi incarna l'intricata anima russa. Personaggio contraddittorio, autore della prima e più importante denuncia del sistema concentrazionario dei Gulag ma anche recente sostenitore della guerra in Cecenia, di lui si può dire tutto e il contrario di tutto. Vittorio Strada così ha sintetizzato le opinioni più diffuse sul suo conto. "I più immaginifici giornalisti lo soprannominano il Profeta o il Vate. I più colti gli affibiano l'appellativo di slavofilo o panslavista, considerando sinonimi i due termini. I più progressisti lo etichettano, ovviamente, come reazionario e zarista. I più letterati, invece, lo reputano un residuo della vecchia Russia, quasi un Tolstoj in ritardo".
Una cosa però è certa, per Solzenicyn la competizione con l'Occidente ha corrotto l'antica anima contadina russa. Occidente che secondo lui - come ha scritto nel suo pamphlet "La questione russa alla fine del secolo XX" - si è prima manifestato in Pietro il Grande, sovrano "rivoluzionario" più che riformatore, che portò la Russia al livello di sviluppo del resto d'Europa ma "al prezzo di calpestare (in stile perfettamente bolscevico e con una enormità di eccessi) lo spirito storico, la fede, l'anima e le consuetudini popolari" del suo Paese. E poi nel bolscevismo, ideologia nata dall'unione del marxismo (nato in Occidente) con la violenza asiatica. "La secolare arretratezza della coscienza civile e nazionale e l'inaridimento dei principi religiosi negli ultimi decenni - scrive Solzenicyn - fecero sì che il nostro popolo cadesse nelle mani dei grandi profittatori bolscevichi quale materiale da esperimenti, plasmabile, che fu facile rimodellare nelle forme da essi volute".
Ma forse l'anima russa, come ha scritto in tempi recenti la scrittrice Tatyana Tolstaya, pronipote di Tolstoj, è troppo lontana dal pragmatismo occidentale: "In Russia, a differenza che in Occidente, la ragione è sempre stata considerata una fonte di distruzione, mentre l'emozione (o l'anima) una fonte di creazione. Quante pagine sprezzanti hanno dedicato i grandi scrittori russi al pragmatismo, al materialismo degli occidentali! Hanno deriso gli inglesi con le loro macchine, i tedeschi con il loro ordine e la loro precisione, i francesi con la loro logica, gli americani con il loro amore per il denaro. Il risultato è che in Russia non abbiamo né macchine, né ordine, né logica, né denaro".
Le crisi in Cecenia, dalla quale abbiamo preso le mosse, può essere quindi interpretata come la volontà della nuova Russia di trovare in un conflitto il comune denominatore tra passione e razionalità. Da un lato denunciare il separatismo, conservare il Caucaso e ristabilire - dopo i fasti dell'Unione Sovietica - l'autorità "imperiale" di Mosca dove ancora è possibile. Dall'altro, non lasciarsi sfuggire - a qualunque costo - i 154 mila barili di greggio al giorno che rappresentano la capacità estrattiva della piccola terra cecena. Pecunia non olet.
di ALESSANDRO
FRIGERIO
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Si ringrazia per l'articolo
il direttore di