I "CONQUISTATORI": "INDIANI, FUORI"
1868, Generale Sherman: "Meglio buttarli fuori al più presto possibile, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l'imbroglio o uccidendoli". Generale Sheridan "… l'unico indiano buono che io conosca è l'indiano morto".

E NELLE PRATERIE AMERICANE
INIZIÒ L'ECCIDIO DEL POPOLO ROSSO


Il generale Custer era tristemente famoso col nome "figlio della stella del mattino".
Gli piaceva attaccare poco prima dell'alba piccoli accampamenti di indiani ancora immersi nel sonno
.


di PAOLO DEOTTO

"… se permetteremo anche a solo 50 indiani di rimanere tra il Platte e l'Arkansas dovremo far proteggere ogni treno, ogni cantoniera, ogni gruppo di persone che lavora alla ferrovia. In altre parole, 50 indiani "ostili" possono tenere in scacco 3000 soldati. Meglio buttarli fuori al più presto possibile, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l'imbroglio da parte dei commissari per gli affari indiani o uccidendoli". (
da una lettera scritta dal generale William T. Sherman, comandante della divisione militare del Missouri, al segretario della guerra, Edwin M. Stanton - novembre 1868).

"… Voi siete munito di pieni poteri per attuare la sistemazione definitiva delle tribù indiane nomadi su territori ad esse graditi e porle pacificamente sotto il controllo dei funzionari a ciò incaricati dal Dipartimento per gli Affari Indiani". (
dalla lettera di istruzioni scritta dal Presidente degli Stati Uniti, Ulysses S. Grant, al plenipotenziario Vincent Coyler - luglio 1871).

"Io… farò in modo di ridurre ciascuno di loro alla fame più nera se gli indiani non vorranno lavorare... "(
da una lettera scritta da Nicholas C. Meeker, agente per gli indiani Ute, al senatore Teller - febbraio 1878).



Abbiamo letto tre estratti, tre piccoli ma significativi documenti scritti nell'arco di un solo decennio, che possono ben servire da sintesi dell'evoluzione della politica americana nei confronti dei pellerossa. Passiamo dalla proposta pura e semplice del generale Sherman di sopprimere gli indiani, alla direttiva del Presidente Grant di addivenire a un controllo pacifico, all'affermazione dura di un agente indiano, ben deciso a trasformare un popolo di cacciatori (nella fattispecie, gli indiani della tribù Ute) in agricoltori, a costo di "ridurli alla fame più nera".

Naturalmente tre documenti, per quanto significativi, sono troppo pochi per spiegare compiutamente un fenomeno storico enorme, che vide non solo la soppressione fisica di un popolo, gli indiani d'America, o Pellirosse, ma anche l'annichilimento delle loro tradizioni, di un uso di vita che si perdeva nella notte dei tempi. Cercheremo perciò di fornire agli amici lettori che vorranno seguirci gli strumenti per conoscere più a fondo questa pagina di storia, una pagina ben poco onorevole per la civiltà: il genocidio del popolo rosso.

La nostra lettura si svolgerà sull'arco temporale di circa un secolo, dalla fine del 1700 al 1890, anche se l'insediamento europeo nei territori che avrebbero poi costituito il nucleo di partenza della nuova nazione americana risale a un paio di secoli prima. Nel 1616 gli Inglesi fondarono, in corrispondenza dell'odierna Virginia, la Nuova Inghilterra. Nel 1620 i Padri Pellegrini sbarcarono a Capo Cod, nel Massachusetts, ove sorse New Plymouth. Precedentemente i francesi si erano installati nell'attuale Canada, dove nel 1608 Samuel de Champlain aveva fondato Quebec, divenendo poi governatore della Nuova Francia. La penetrazione verso i territori dove vivevano le tribù indiane iniziò già da quei tempi, ma in termini commerciali più che di occupazione vera e propria e i rapporti col popolo rosso si mantennero in accettabili equilibri.

Queste prime colonizzazioni portarono nella vita dei Pellirosse elementi nuovi e importantissimi. Anzitutto il cavallo, importato fin dal XVI secolo dagli invasori spagnoli, che nelle mani indiane divenne uno strumento di caccia e di guerra usato in modo impareggiabile; poi le armi da fuoco e purtroppo anche il whisky, chiamato nel linguaggio immaginifico dei pellirosse acqua di fuoco, che ben presto si sarebbe dimostrato deleterio per l'equilibrio e la salute delle genti indiane. L'attività mercantile, l'andirivieni della carovane che trasportavano merci barattate o da barattare, portò anche tra le tribù indiane nuove malattie e in particolare il vaiolo. Un'epidemia del terribile morbo scoppiò nel 1780 e colpì in particolare le tribù che abitavano lungo il medio corso del Missouri, i Ree e i Mandan, che vennero completamente distrutte.

Comunque l'equilibrio fra uomini bianchi e uomini rossi si mantenne fino all'ultimo decennio del 1700; la fine della guerra per l'indipendenza delle colonie inglesi dalla madrepatria e la nascita della nuova nazione, gli Stati Uniti, segnarono l'inizio di una tragedia che si sarebbe consumata, come dicevamo, nell'arco di circa un secolo. La nuova nazione americana, terminato il periodo dell'edificazione, cercava uno sviluppo
territoriale e questo non si poteva realizzare che verso Ovest, verso gli immensi territori ancora semisconosciuti, capaci di dare lavoro e ricchezze non solo agli ex - coloni, ma anche ai numerosissimi emigranti che arrivavano dal Vecchio Mondo a cercare fortuna in questo nuovo Paese, che sembrava promettere libertà e progresso per tutti.

Ma prima di proseguire, conviene definire la terminologia con la quale si usa distinguere i vari gruppi che vanno sotto il nome generico di pellirosse; non ci soffermeremo invece sul grande problema delle origini remote delle genti rosse, che meriterebbe uno studio specifico, senza dubbio di grande interesse. Ci limitiamo qui a notare che la maggior parte degli studiosi è dell'avviso che gli indiani d'America discendano da popolazioni di origine mongolica, che avrebbero iniziato una migrazione agli albori della razza umana, quando lo stretto di Bering, tra Siberia ed Alaska, era ancora un istmo continuo che congiungeva i due continenti. Dall'Alaska la marcia sarebbe proseguita verso le terre più ospitali e coltivabili del Sud. Se molti caratteri somatici, comuni a tutte le genti rosse, possono avvalorare questa teoria, la grande diversità di linguaggio, di cultura e di usi che si riscontrava tra una tribù e l'altra pone ulteriori problemi che non è qui il caso di affrontare.

Le genti rosse si suddividevano anzitutto in nazioni, indicando con questa parola un insieme di individui accomunati da linguaggio, usi, religione e dallo stanziamento in un determinato territorio (o, come vedremo, da una comune abitudine migratoria). Le nazioni più grandi si articolavano in tribù, ognuna costituita da più clan o grandi gruppi famigliari, a loro volta ripartiti in famiglie. Questa classificazione, utile per lo studioso, trovava comunque un suo limite naturale nello stesso stile di vita indiano. Infatti gli indiani delle pianure, la cui economia si basava principalmente sulla caccia al bisonte (che forniva non solo cibo, ma anche materia prima per vestiario e armi), vivevano seguendo le migrazioni stagionali di questo grande animale.

L'incessante nomadismo rendeva spesso difficile individuare il luogo preciso di dislocazione di una tribù o di un clan. La mancanza di grandi animali migratori e le caratteristiche ambientali portavano invece gli indiani delle zone montuose o desertiche ad una maggior propensione per la vita stanziale. Inoltre si consideri che per i pellirosse era assolutamente incomprensibile il concetto, tanto caro a noi uomini civilizzati, di "confine" ("gli unici confini della terra sono là dove il sole sorge e tramonta") e il frammischiamento tra nazioni e tribù non era inconsueto, così come non era infrequente la guerra tra diverse nazioni indiane o anche tra tribù della stessa nazione, guerra che in genere veniva condotta per ragioni di bottino e che era l'occasione per i giovani di mostrare il proprio valore e meritare il titolo di guerrieri.

Dicevamo del primo assestamento delle genti rosse sotto la pressione degli uomini bianchi nella nuova nazione americana. Tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX la nazione dei Chippewa, che viveva nei territori degli odierni Minnesota e Wisconsin, fu la prima a spostarsi verso Ovest, urtando, non senza contrasti armati, contro la nazione Sioux e costringendola a spostarsi nelle pianure a est del Mississippi.

I Sioux, guerrieri di grande valore, nulla poterono contro i Chippewa, che erano i primi indiani ad essere dotati di armi da fuoco, ottenute dai mercanti e dai coloni bianchi dei territori da cui provenivano. I Sioux, scacciati ma a loro volta invasori delle pianure, si trovarono a fronteggiare una grande tribù che proveniva dalle Montagne Rocciose, gli Shoshone, che cercavano nel centro ovest terreni più ospitali degli sterili pianori montani. Gli Shoshone furono ricacciati nelle montagne da cui provenivano, ad eccezione di un forte gruppo, che la Storia avrebbe conosciuto col nome di Comanche, che continuarono il movimento verso sud, arrivando al territorio dell'attuale Texas e scontrandosi con un'altra tribù, quella dei Tinde. Quest'ultimi, sospinti dai guerrieri Comanche si stanziarono a cavallo del confine col Messico. Combattivi e feroci, i Tinde sarebbero divenuti per tutti gli "Apache", ossia, nel linguaggio comanche, "i nemici". In questo ebbero un aspetto comune con i Sioux, il cui nome derivava da una parola in uso tra i Chippewa, il cui significato era "vipera" o, fuor di metafora, "nemico".
In questi movimenti di assestamento furono coinvolte anche altre tribù minori; citeremo i Kiowa, i Pawnee, i Nasi Forati, gli Cheyenne. Ma i veri grandi avversari dei "visi pallidi" sarebbero state le nazioni Sioux ed Apache.
Contro di loro furono condotte le vere e proprie "guerre indiane"; sarebbero state loro a pagare e a far pagare il più alto prezzo di sangue prima di essere definitivamente sconfitte dall'uomo bianco.
Al termine dell'assestamento le genti indiane si potevano suddividere, a grandi linee, in due gruppi, a nord o a sud della linea tracciata dal fiume Arkansas. Le condizioni ambientali e la diversa presenza di selvaggina e di terreni coltivabili avrebbe determinato, come già accennavamo, due stili di vita fondamentali, quello del nomadismo delle tribù delle Grandi Pianure e quello stanziale delle tribù meridionali e montane. Nelle pianure era predominante la presenza della nazione Sioux, a Sud gli Apache furono i veri dominatori.

Diversi sarebbero stati anche i motivi per cui l'uomo bianco iniziò la sua politica contro l'uomo rosso. La pura e semplice espansione verso Ovest sarebbe divenuta estremamente più aggressiva con le scoperte dei giacimenti di oro e di argento, mentre la costruzione delle ferrovie avrebbe sconvolto l'assetto di vita degli indiani delle Pianure, avendo come primo effetto quello di mutare le direzioni delle migrazioni dei bisonti.
Ma cerchiano ora di procedere con ordine, per vedere nel dettaglio lo sviluppo di una politica che non è eccessivo definire di genocidio.

Genocidio: "metodica distruzione di un gruppo etnico, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l'annullamento dei valori e dei documenti temporali" (
Vocabolario della lingua italiana, di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Le Monnier, Milano 1984).
Non abbiamo quindi solo l'eliminazione fisica degli individui che compongono il gruppo etnico, ma anche l'eliminazione di tutti quei fattori che costituiscono l'identità stessa di un popolo (religione, cultura, usanze), per cancellarne la memoria, affinché il gruppo sterminato, privato anche della memoria storica, non possa più risorgere.
Chi, come l'autore di queste pagine, non è più un ragazzo ricorda nella sua giovinezza un mito del West, alimentato soprattutto da una filmografia che creò degli stereotipi divenuti classici. Il cow boy, lo sceriffo, gli indiani, l'avventura, le cavalcate nelle immense praterie, le immancabili sparatorie, la vittoria dei buoni sui cattivi. Gli indiani erano perlopiù i selvaggi e gli eventuali indiani buoni erano quelli disposti a collaborare con l'uomo bianco. Al manicheismo del "bianco buono - rosso cattivo" non è mancato purtroppo il manicheismo di senso opposto (ricordate il Piccolo grande uomo ?). A due estremismi, cerchiamo quindi di opporre la lettura dei dati di fatto, per trarre da questi qualche insegnamento.

Il primo dato di fatto, banale quanto si vuole, ma non per questo sbagliato, è che i pellirosse si trovavano sulla propria terra, che fu invasa; possiamo indagare a ritroso nella Storia quanto vogliamo e sempre troveremo affermato il diritto di un popolo di resistere contro gli invasori. E' pur vero che la Storia ci mostra innumerevoli esempi di grandi migrazioni, che si concludono col predominio di un nuovo popolo, che si stanzia su un territorio, facendolo suo. I lombardi non sono forse i discendenti dei Longobardi, uno dei tanti popoli barbari che invasero l'impero romano? Ma nello scontro tra uomini rossi e uomini bianchi ci furono alcune peculiarità che bisogna sottolineare.

Anzitutto il periodo delle guerre indiane (XIX secolo) non può assolutamente essere assimilato a periodi storici ben anteriori, che vedevano i grandi movimenti di popoli causati dalla necessità, inevitabile, di trovare terre coltivabili, di trovare cioè di che sopravvivere. Qui abbiamo uno scontro condotto soprattutto nel nome del progresso, inteso nel senso più materialista del termine. Se è vero che gli Stati Uniti d'America nacquero come affermazione di libertà e furono la prima democrazia moderna, è altrettanto vero che la spinta economica fu determinante nelle scelte politiche generali e in particolare nella politica verso gli indiani. Inoltre lo scontro era tra due civiltà, tra due visioni della vita talmente diverse tra loro, da divenire inevitabile: ma non per questo accettabile moralmente.

Lo sviluppo degli Stati Uniti fu in effetti eccezionale, senza paragoni nella Storia, sia in termini di aumento della popolazione, sia in termini di progresso economico, tecnico e scientifico. Alcuni brevi dati ci aiutano a comprendere questa affermazione: popolazione nel 1810, 7.329.000; nel 1850, 23.261.000; nel 1860, 31.513.000.
Dal 1849 al 1851 erano giunti dall'Europa 1.046.470 immigranti. Gli Stati che costituivano l'Unione erano originariamente 13; nel 1860 erano già 34, più tre territori. Nel 1848, nella California da poco strappata al Messico, veniva scoperto l'oro e la popolazione balzava, in un mese, da 15.000 a 400.000 abitanti. La produzione industriale nel 1850 era di oltre 500 milioni di dollari, che divenivano più del doppio in soli dieci anni. Nel 1840 le ferrovie coprivano già oltre cinquemila chilometri; nel 1852 avranno uno sviluppo di 17.000 chilometri. Il 10 maggio 1869, a Promontory Point, nello Utah, si congiungeranno i due tratti della prima ferrovia transcontinentale.
Potremmo andare avanti per pagine e pagine ad enumerare altre cifre, dal numero incredibile di invenzioni, all'apertura di Università e Accademie Militari, ai dati sull'analfabetismo, al numero di giornali pubblicati, alcuni dei quali con tirature superiori alle centomila copie.
Pensiamo comunque di aver dato un quadro sufficientemente chiaro di una società in espansione esplosiva e irrefrenabile.

A questo movimento continuo, a questa frenesia di conquista in tutti i campi, si contrapponevano, nelle grandi pianure a Nord di quel confine indicativo tracciato dal fiume Arkansas, delle popolazioni che conducevano una vita totalmente differente, seguendo tradizioni secolari, con una spiritualità e un contatto, reale, con la natura che li portavano ad essere indifferenti verso quei valori che invece coinvolgevano profondamente l'uomo bianco. Per i Sioux e in genere per le tribù indiane del settentrione il credo religioso era fondato sulla figura di Manitou, il Grande Spirito, che chiedeva agli uomini di praticare alcune virtù e di regolare la propria vita su di esse. Le quattro virtù erano la generosità, il coraggio, l'integrità morale e la forza d'animo. I quattro peccati che un indiano doveva rifuggire erano: permettere che un ospite se ne andasse affamato; permettere che un bimbo orfano piangesse per fame; perdere in battaglia il più anziano dei figli e tornare senza di lui; tornare solo dal combattimento dopo che tutti i propri compagni fossero stati uccisi. Come si vede, la guerra era considerata una componente normale, diremmo ovvia, nella vita del pellerossa, né questo deve stupire in una società primitiva.

Ma non è corretto assimilare "primitivo" a "selvaggio", con tutta la negatività che questo termine porta seco. Se ha un significato, non solo materiale, la parola "civiltà", crediamo che la lettura delle virtù e dei peccati sia molto istruttiva. Si consideri anche che per i Sioux, come per i loro alleati e amici, gli Cheyenne, l'avidità e l'egoismo erano pressoché sconosciuti. Il loro maggior impegno rispetto alle ricchezze che possedevano era di farne dono ad ogni occasione possibile; un Grande Capo che non si fosse spogliato dei suoi beni per darli a chi era bisognoso si sarebbe attirato il biasimo di tutta la tribù, perdendo ogni autorità. Parlavamo di ricchezze, ma attenzione, si tratta di beni materiali, di immediata utilità, come scorte di cibo, pelli, armi, cavalli: i pellirosse non conoscevano il danaro né mai compresero la frenesia dell'uomo bianco per quel metallo, l'oro, che poteva servire al più per fare monili.

La stessa guerra era per l'indiano delle praterie anzitutto un modo di dimostrare il proprio valore; eccellenti cavalieri, i giovani pellirosse usavano anche, per superare quello che potremmo definire una specie di esame di maturità, lanciarsi al galoppo contro il nemico, disarmati e portando solo un bastoncino in mano. Arrivato a contatto col nemico, il giovane che aspirava al titolo di guerriero lo toccava col bastoncino e poi batteva in ritirata (sempre che l'avversario non l'avesse abbattuto). In questo modo aveva dimostrato il proprio coraggio, mettendo a repentaglio la propria vita e senza uccidere inutilmente nessuno.
Con ciò non vogliamo dare un'immagine idilliaca dell'indiano delle praterie; questi sapeva essere anche spietato, ma ciò accadeva soprattutto quando si sentiva ingannato. La sua mentalità era del tutto lontana dalle ambiguità, dalle bugie, dai tradimenti che spesso vengono contrabbandati sotto il nome di politica o di diplomazia.

Anche se legato a tradizioni religiose simili a quelle dei suoi fratelli del Nord, l'indiano del Sud era diverso, sia per le esperienze vissute, sia per le stesse condizioni ambientali. In particolare gli Apache furono gli indiani che maggiormente terrorizzarono l'uomo bianco, che pure si scontrò anche con i Navajo del Colorado, con i Comanche del Texas, e in Arizona e nel Nuovo Messico con i Pima e gli Zuni, due tribù nemiche giurate degli Apache.
I territori del Sud non erano battuti dalle grandi mandrie e l'economia dell'Apache si basava sull'agricoltura e sull'allevamento di bovini domestici. Non essendo nomade, non viveva nelle tende (i "teepe"), ma in povere capanne costruite con argilla e ricoperte con erba a larghe foglie. Le cosiddette apacherie erano i villaggi in cui gli Apache vivevano, spesso anche in gruppi di poche famiglie, senza una struttura precisa come quella degli indiani delle praterie.

La tradizionale ferocia dell'Apache aveva una radice storica ben precisa: gli sfruttamenti e le angherie subite dai messicani, che consideravano gli indiani come intrusi da eliminare dal loro territorio, che usavano rapire i bambini per venderli come schiavi e le bambine per avviarle alla prostituzione, avevano fatto dell'Apache un individuo eternamente spaventato, che per affrontare e rintuzzare la distruzione a cui era destinato era diventato un maestro nella guerriglia e un guerriero spietato e feroce, che combatteva senza alcun senso "agonistico", ma solo per uccidere il nemico e appropriarsi dei suoi beni.
La tortura del nemico catturato faceva parte degli usi di guerra degli Apache, che spesso assalivano le fazendas, sterminando gli occupanti e rubando tutto il bestiame. In un circolo vizioso di ferocia reciproca, i messicani arrivarono, nella municipalità di Chihuahua, a dichiarare "aperta" la caccia all'indiano, ponendo una taglia per ogni scalpo di Apache che fosse stato portato alle autorità, con una differenziazione di premio per scalpi di adulto maschio, di donna o di bambino; era premiato l'uccisione di qualsiasi indiano, che fosse o meno in guerra contro gli uomini bianchi.

Quando gli americani arrivarono nel Texas e nell'Arizona gli Apache ne cercarono l'alleanza, per combattere il comune nemico messicano, ma ben presto dovettero accorgersi che gli "occhi bianchi" (così gli Apache chiamavano gli americani per distinguerli dai messicani, detti "visi pallidi") applicavano anch'essi la politica dello sterminio. E così l'Apache continuò ad essere il "nemico" per eccellenza.
Prima della stabilizzazione che avrebbe visto la nascita degli Stati Uniti d'America il Nuovo Mondo era stato teatro di guerra tra le nazioni europee che se contendevano il dominio. Gran Bretagna, Francia, Spagna e Paesi Bassi fecero a gara per assicurarsi l'alleanza dei selvaggi contro il nemico del momento, impegnandosi con promesse, regolarmente disattese, di eterna amicizia, salvo ricominciare la spinta ad Ovest quando il conflitto si andava spegnendo. I primi seri dissidi con l'uomo bianco ebbero l'effetto di spingere diverse tribù o nazioni ad accantonare le ancestrali rivalità e ad allearsi per meglio resistere. Veri e propri conflitti armati vi furono, ai primi del XIX secolo, in Canada e nella regione dei Grandi Laghi, poi nelle coline inglesi e infine nei territori occupati dalla nuova nazione americana.

Durante la guerra tra Stati Uniti ed Inghilterra (1812 - 1815) il governo americano, nella convinzione che le tribù dei Creek si fossero alleate con gli inglesi, aveva ordinato al generale Jackson, comandante militare del sud - ovest, di risolvere questo problema indiano. Cosa che il generale fece con scrupolo, affrontando i Creek nella battaglia di Horseshoe Bend, in Alabama, che si concluse con la morte di oltre 900 indiani, contro ventisei soldati uccisi.
Nel 1818 Jackson, conducendo l'attacco e l'invasione contro la Florida (allora spagnola), dichiarava la sua intenzione di "spazzar via indiani e spagnoli in 60 giorni". E ci riuscì".

Ma eravamo ancora ad episodi limitati, e comunque di interesse puramente militare. Sarebbe stato con la nomina a Presidente proprio di quel generale Andrew Jackson, avvenuta nel 1829, che la politica americana avrebbe iniziato a mostrare il suo metodo nei confronti dei pellirosse. Uno dei primi atti del neo presidente fu l'emanazione del "Removal Act" che era, nella sostanza, null'altro che l'ordine di deportazione di cinque "nazioni indiane", i Creek, i Choctaw, i Chicasaw, i Cherokee e i Seminole dalla neo acquisita Florida, al di là del Mississippi, nella regione dell'odierno Oklahoma, che sarebbe in seguito divenuta il "territorio indiano". Il Capo Falco Nero riuscì ad organizzare una ribellione corale (che tenne in scacco per oltre tre mesi le truppe federali) contro la forzata deportazione, che fu il primo di una serie infinita di atti il cui scopo era unicamente quello di sloggiare gli indiani dai territori che via via dovevano rendersi disponibili alla spinta
colonizzatrice.
Per la cronaca, in questi fatti d'arme si distinse un giovane capitano, che avrebbe ancora fatto parlare di sé: si chiamava Abramo Lincoln.

Il Removal Act è il primo documento ufficiale di politica indiana del governo americano e vediamo bene di qual tipo di politica. Non siamo ancora al genocidio, ma comunque ve ne sono le premesse, perché si stabilisce il diritto del governo di deportare intere popolazioni, sconvolgendone così gli usi di vita e ponendo le basi per la distruzione di quella memoria storica che consente ad un popolo di salvare la propria identità. La prima guerra indiana mostrò anche il fianco debole delle forze armate degli Stati Uniti, che pur ben equipaggiate ed addestrate, avevano dovuto combattere per tre mesi per avere ragione di un gruppo di selvaggi, armati nel modo più eterogeneo e non inquadrati. Inoltre, sull'esempio di Falco Nero, un gruppo di Seminole, guidati da capo Osceola, diede vita tra le paludi della Florida ad una guerriglia che sarebbe durata, tra alterne vicende, per un quinquennio e che si sarebbe conclusa solo catturando Osceola con l'inganno, durante un colloquio indetto sotto la protezione della bandiera bianca; e purtroppo il metodo del sotterfugio verrà più e più volte usato, giustificato dalla necessità di liberare le regioni dai selvaggi, contro uomini che, l'esperienza l'avrebbe insegnato, non erano facili da battere in guerra ed erano praticamente imbattibili nella guerriglia.
Nel frattempo nei territori del Nord del Messico accadevano altre vicende, che avrebbero avuto il loro peso al passaggio di queste regioni, California, Nuovo Messico, Arizona, sotto la bandiera a stelle e strisce.

Accennavamo già prima alla "caccia all'indiano" legalizzata dalla municipalità di Chihuahua; questa spietata decisione arrivava come epilogo di oltre un decennio di guerriglia condotta dagli Apache Mimbreno contro gli insediamenti di bianchi nella zona di Santa Rita del Cobre, dove erano stati scoperti ricchi giacimenti di rame. Le decisioni di Chihuahua furono le più disumane, e portarono ad un massacro di Apache durante una fiesta indetta proprio per attirarli in trappola, con la falsa promessa di colloqui di pace; mancava però da parte messicana un sistema "organico" di affrontare la loro questione indiana.

Con lo scoppio della guerra (maggio 1846) tra Messico e Stati Uniti, guerra che si sarebbe conclusa con l'annessione all'Unione dei territori sopra citati, gli indiani si illusero di poter convivere con gli americani, dato il comune interesse a combattere i messicani. L'armonia durò poco. Il 9 febbraio 1848 un certo James W. Marshall, sorvegliante di un mulino per il grano in California, trovò un sasso che non aveva mai visto nel condotto dell'acqua che faceva muovere la ruota della macina. Si trattava di una pepita d'oro. Iniziò una delle più tumultuose e incontrollate migrazioni che la Storia ricordi, la California gold rush, la corsa all'oro della California.

Gli Apache Mimbreno si trovarono all'improvviso il loro territorio invaso da diecine di migliaia di cercatori, con l'immancabile codazzo di giocatori, prostitute, parassiti e trafficanti d'ogni tipo; gli indiani riuscirono a mantenere comunque rapporti tranquilli con i bianchi, pur non capendo bene cosa facessero. La scoperta di ulteriori giacimenti del metallo giallo sui Monti del Gila (estate 1851) fece morire, come dicevamo, l'illusione di una possibile convivenza pacifica. Quando gli indiani incominciarono a ribellarsi all'invasione ormai incontrollata dei loro territori si accorsero ben presto che i soldati, dei quali si erano considerati alleati contro il comune nemico messicano, avevano l'ordine di garantire comunque il libero passaggio delle carovane di cercatori e coloni, perché il governo di Washington voleva che i nuovi territori acquisiti venissero colonizzati e la corsa all'oro era una spinta formidabile, da favorire e non da frenare.

Significative la vicenda degli Apache Rogue River, costretti da una schiacciante superiorità militare a siglare un trattato di pace (che come molti altri non sarebbe mai stato ratificato dal senato degli Stati Uniti) e soprattutto quella dei Modoc, che tennero in scacco per cinque anni truppe regolari e compagnie di volontari, dopodiché il capitano Ben Wright (eravamo nel novembre del 1857) organizzò un banchetto come atto preliminare di un consiglio in cui parlare di pace, avvelenando i cibi, con lo scopo di uccidere il capo Old Schonchin e il suo seguito di guerrieri. Poiché il veleno non faceva effetto, il capitano Wright estrasse la sua pistola, uccidendo due degli ospiti indiani, imitato subito dai suoi soldati, che avevano aperto il fuoco tutti assieme. Il banchetto si era concluso con l'uccisione di 36 guerrieri. Anche i Modoc, sbandati dopo l'uccisione del loro capo, avevano cessato di essere un problema per gli insediamenti dei bianchi, ma a prezzo di un'azione aberrante come il tradimento.

Mentre accadevano questi avvenimenti, nelle Grandi Pianure la vita e le usanze degli indiani non sembravano minacciate. Nella prima metà del XIX secolo tra uomini rossi e uomini bianchi si era avviata una sorta di convivenza "quasi pacifica", basata principalmente sull'attività commerciale e i traffici che i due gruppi intrattenevano. Gli scontri armati erano stati di scarso rilievo; del resto, pareva ancora che lo spazio a disposizione fosse talmente tanto da consentire la convivenza di due gruppi etnici diversi tra loro per tradizioni, interessi, usanze, ma soprattutto per due visioni della vita profondamente differenti. Gli indiani avevano proseguito, come era loro antico costume, le guerre tribali: Sioux, Cheyenne e Arapaho avevano accampamenti dei Pawnee, dei Corvi e degli Shoshone, che a loro volta naturalmente avevano cercato di rendere la pariglia agli avversari.
Questi scontri tribali, inizialmente quasi inavvertiti dai bianchi, avevano preso a disturbare sempre più sia lo sviluppo dei traffici, sia i movimenti dei coloni e, seppur di rado, qualche carovana di questi ultimi era stata attaccata da gruppi di guerrieri. I reparti dell'esercito avevano percorso, nel decennio tra il 1830 e il 1840, a più riprese le Grandi Pianure, suscitando l'ammirazione dei pellirosse, che ne apprezzavano l'armamento, l'equipaggiamento, il colore delle uniformi e che non avevano mai cercato lo scontro con i grossi coltelli, come da loro venivano chiamati i soldati di cavalleria, armati di sciabola.

Nel 1851 su iniziativa di Tom Fitzpatrick, agente governativo per gli indiani, era stato convocato un grande consiglio, invitando tutte le nazioni delle Pianure a parteciparvi. La conferenza si era tenuta a Fort Laramie, che sorgeva alla confluenza dei fiumi Laramie e North Platte, nel territorio del Wyoming. La fama di Fitzpatrick, conosciuto e stimato dai pellirosse per la lealtà e l'onestà, aveva spinto circa 10.000 indiani a portarsi a Fort Laramie, in rappresentanza di tutte le nazioni e tribù delle Grandi Pianure, con eccezione dei Pawnee, che avevano rifiutato l'incontro. Nella più grande assemblea di indiani delle Pianure ricordata dalla Storia, i pellirosse avevano concordato sull'opportunità di una pace generale e si erano impegnati a mantenere un atteggiamento amichevole verso le carovane di emigranti, mentre l'esercito si era impegnato a mantenere nelle Pianure le truppe necessarie per difendere gli indiani da eventuali depredazioni dei bianchi.

Tutto insomma sembrava avviato per il meglio, in un clima di tolleranza e di pacifica convivenza. Ma era una pace provvisoria, perché il flusso dei coloni era in continua crescita e la fame di nuove terre dell'uomo bianco si sarebbe ben presto scontrata col diritto dell'uomo rosso a vivere sulla propria terra.
Il primo incidente grave fu generato da un motivo quanto mai futile: un Sioux Minneconjou aveva ucciso una malandata vacca per prendersene la pelle. L'animale apparteneva a un colono, che aveva protestato a Fort Laramie, pretendendo i danni. Gli indiani offrivano 10 dollari, il colono ne pretendeva 25. Un tenente del Forte si recò allora al campo Sioux per arrestare l'uccisore della vacca, con una scorta di 32 soldati. L'ufficiale si comportò con inutile irruenza, uccidendo con un colpo di pistola il capo dei Brulè, che si trovavano in visita ai Minneconjou. Gli indiani avevano reagito e non uno solo dei soldati aveva salvato la vita.

Era il primo sangue versato da soldati americani e l'opinione pubblica aveva chiesto a gran voce vendetta. In una successiva spedizione, nell'estate del 1855, un reparto di 1300 soldati aveva attaccato e distrutto un villaggio di Brulè, uccidendo 86 indiani. Ad una conferenza di pace, tenuta nella primavera dell'anno successivo, gli indiani avevano infine promesso di consegnare l'uccisore della vacca.
Il motivo, dicevamo, era ben futile, ma gli avvenimenti dimostravano che tra bianchi e indiani il fuoco covava sotto la cenere, pronto a scatenarsi anche per eventi che si sarebbero potuti risolvere con moderazione e buon senso.


L'IMPERO AMERICANO COSTRUITO
PORTANDO VIA LA TERRA AGLI INDIANI


Vedevamo come l'uccisione di una vacca fosse stata l'occasione per una serie di scontri a ripetizione tra soldati e pellirossa, con l'inutile sacrificio di decine di vite umane. Ma in quella stessa primavera del 1856 in cui si concluse la guerra della vacca bastò una contesa tra alcuni coloni e una banda di Cheyenne, circa la proprietà di un cavallo catturato da quest'ultimi mentre vagava per la prateria, per innescare un'altra serie di uccisioni, con relative rappresaglie e controrappresaglie.

Una decina di pellirossa e altrettanti tra soldati e coloni trovarono la morte in ripetuti scontri, conclusi solo nell'estate del 1857, dopo una battaglia combattuta nel Kansas, lungo il fiume Solomon tra i cavalleggeri del colonnello Summer e gli Cheyenne, che si erano sbandati dopo esser stati caricati alla sciabola dai soldati blu.
Battaglie per una vacca o per un cavallo: sembrano fatti incredibili, ma non erano che la punta dell'iceberg, i segnali esterni di un malessere profondo. Quanto più si faceva irruente la spinta ad Ovest della colonizzazione, tanto più la convivenza pacifica tra indiani e bianchi viaggiava sul filo del rasoio. Era inevitabile la tensione tra chi voleva vivere in libertà nei propri territori, secondo le proprie usanze, e chi invece questi territori voleva conquistarli e modernizzarli, spinto spesso anche da intenti onesti, ma il più delle volte mosso dalla bramosia della ricchezza, che rende gli uomini incapaci di ogni ragionamento.
La scoperta di pochissimo oro alle sorgenti del fiume Arkansas, nella primavera del 1858, aveva scatenato una nuova corsa all'oro, che aveva poi conosciuto un penoso riflusso, quando si era palesata l'inconsistenza dei giacimenti scoperti.

Nel corso di un anno le valli dei fiumi Platte, Smoky Hill e Arkansas avevano visto l'arrivo di oltre 100.000 persone, che al loro passaggio avevano distrutto erba, foreste, cacciato in modo indiscriminato, spaventando e deviando le grandi mandrie e sconvolgendo l'economia primitiva degli indiani delle pianure, che avevano assistito allibiti anche al contro - esodo di gran parte di questi cercatori, disperati per l'inutilità dei loro sforzi in zone, come dicevamo, dove l'oro era scarsissimo. Questa nuova e inutile corsa all'oro non aveva causato scontri di rilievo tra bianchi e indiani, ma era servita a rafforzare in questi ultimi la convinzione che l'uomo bianco era un pazzo esaltato, la cui presenza si traduceva comunque in un danno per l'uomo rosso, che vedeva sconvolto il proprio modo di vita e distrutte le fonti di sopravvivenza.
Abbiamo visto i principali avvenimenti nelle Grandi Pianure; anche nel Sud il comportamento diffuso tra i bianchi, segnatamente nei quadri dell'esercito, caratterizzato da superficialità e avversione verso i selvaggi, avrebbe contribuito ad alimentare una spirale di odio sempre più pericolosa. In particolare un episodio trasformò in acerrimo nemico un capo Apache che fino a quel momento era vissuto in pace coi bianchi. Eravamo nell'ottobre del 1860: l'imprudenza e la precipitazione di un ufficiale inesperto spinse Cochise, capo degli Apache Chiricahua, a cercare nella vendetta la soddisfazione a un grave torto subìto.

Cosa era accaduto? Un ufficiale fresco di nomina da West Point, il tenente George N. Bascom, si era recato con sessanta uomini al villaggio degli Apache Chiricahua, che si trovava nelle vicinanze della stazione di posta di Passo Apache, in Arizona, convinto senza alcuna prova di trovarvi gli autori di una razzia compiuta da un gruppo di Apache contro la fattoria di un colono, di nome Johnny Ward. Capo Cochise aveva dichiarato che sia lui stesso, sia i suoi uomini, erano del tutto estranei alla razzia, né avevano interesse a compiere atti del genere, che avrebbero rovinato il rapporto pacifico instaurato con i bianchi. In più, Cochise si era dichiarato disponibile ad aiutare l'ufficiale nella ricerca dei colpevoli. Il tenente Bascom, convinto dell'inaffidabilità dei selvaggi, per tutta risposta aveva ordinato l'arresto di Cochise; ne era nata una sparatoria, nella quale alcun indiani erano stati feriti ed altri erano rimasti prigionieri dei bianchi. Cochise, benché ferito, era riuscito a fuggire con la massa dei suoi guerrieri e, circondato il Passo Apache, aveva costretto i soldati ad asserragliarsi nella stazione di posta.

L'assedio era durato due giorni, nel corso dei quali gli indiani avevano anche assalito una diligenza e una carovana che erano arrivate alla stazione; infine, all'arrivo dei rinforzi da Forte Buchanan, gli Apache si erano ritirati, lasciando sul terreno i corpi di alcuni bianchi che avevano fatto prigionieri. I soldati, occhio per occhio, dente per dente, avevano ucciso e lasciato ai corvi gli Apache rimasti in loro mani. Il nome di Cochise, fino a quel momento sconosciuto, sarebbe entrato nella Storia come il nome di uno dei più temibili capi Apache, che avrebbe dato per anni filo da torcere ai soldati e ai coloni.
Così anche nel Sud il decennio 1850-60 si chiudeva nei peggiori auspici.

Fermiamoci un attimo a quest'anno, 1860, dopo aver letto gli avvenimenti più significativi delle Pianure e del Sud. Abbiamo visto che, ad eccezione del Removal Act del 1829, non esisteva ancora una vera e propria politica indiana, che affrontasse in modo unitario le problematiche della convivenza tra civiltà diverse. Se mancava la base teorica, i dati di fatto però già parlavano chiaramente e gli interlocutori principali dei pellirossa restavano i militari, ossia i soggetti che per definizione sono deputati all'uso della forza. Nel tumultuoso sviluppo della nazione americana si faceva sempre più stretto lo spazio per chi, come i pellirossa, voleva mantenere una propria identità, svincolata da ogni bramosia di ricchezza e di progresso.

Una civiltà che non conosceva l'uso del danaro, che non era affascinata dall'oro, che privilegiava l'atto di valore piuttosto che il risultato, non poteva non entrare in frizione con chi anteponeva il risultato e il successo ad ogni altra considerazione. In apertura di questo studio riportavamo una frase del generale Sherman: "…50 indiani ostili possono tenere in scacco 3000 soldati. Meglio buttarli fuori al più presto possibile, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l'imbroglio da parte dei commissari per gli affari indiani o uccidendoli". I fatti, dicevamo, parlano più chiaro di qualsiasi teoria politica.
Gli americani lavoravano per il progresso e lo stesso mito del self made man racchiude, a ben considerare, una notevole carica di violenza, laddove giunga ad esaltare la figura dell'uomo che ha raggiunto il successo, comunque l'abbia raggiunto. Sia chiaro che con questo non vogliamo presentare l'indiano come un cherubino: abituati alla guerra e alla lotta, i pellirossa sapevano essere anche feroci e senza alcuna pietà, ma ciò accadeva soprattutto quando i loro interlocutori ricorrevano alla menzogna e al tradimento: cosa che nei rapporti coi bianchi accadde molto spesso.

Ci eravamo fermati al 1860, non a caso. La giovane nazione americana si apprestava a una feroce lotta interna: l'attacco sudista alle truppe nordiste, asserragliate a Forte Sumter, nella Carolina del Sud, segnò, il 12 aprile del 1861, l'inizio di quattro anni di guerra civile, che avrebbe contrapposto gli stati del Nord, Unionisti, agli stati Confederati del Sud.
La guerra civile americana ebbe conseguenze diverse per gli indiani delle Grandi Pianure e per quelli del Sud. Le operazioni militari di maggior rilievo non interessarono mai le regioni ad occidente del Mississippi; in quelle zone (le "Grandi Pianure"), che erano totalmente sotto il controllo dell'Unione, l'interesse era quello di mantenere la massima tranquillità tra popolazione e indiani, per non turbare il flusso di rifornimenti provenienti da quei territori. Gli eventi militari ovviamente furono di freno alla penetrazione ad Ovest e per gli indiani delle Pianure ciò significava un periodo di tranquillità.

Diversa era la situazione del Sud Ovest. Mentre Texas, Arizona e Nuovo Messico avevano aderito alla Confederazione, California e Kansas erano rimasti fedeli all'Unione, sicché si era creato un fronte del Sud Ovest, nel quale i nordisti si impegnavano per tagliare le comunicazioni col Messico, unico stato confinante coi territori della Confederazione, che da quel Paese riceveva rifornimenti. In questi Stati gli indiani si trovarono nel mezzo della guerra e vi parteciparono, schierandosi decisamente con la Confederazione. Le cinque nazioni indiane (Creek, Choctaw, Chicasaw, Cherokee e Seminole) che poco più di trent'anni prima avevano subito il Removal Act, la deportazione dalla Florida, presero le armi contro il governo di Washington, con la promessa di tornare nelle loro terre d'origine in caso di vittoria delle armi del Sud. Il prezzo che questi pellirossa pagarono in seguito alla sconfitta fu altissimo.

Nei territori dell'Arizona e del Nuovo Messico le cose andarono diversamente. Allo scoppio del conflitto il Nord ritirò le guarnigioni disseminate nella regione e gli indiani vi ebbero mano libera senza contrasti. La vendetta (ricordiamo agli amici lettori la strage di Chihuahua e la battaglia di Passo Apache - per non citare che due episodi) si scatenò: sotto la guida dei capi Cochise e Mangas Coloradas gli Apache fecero terra bruciata degli insediamenti dei bianchi, che dovettero abbandonare ogni cosa, le fattorie, le miniere, persino le città.

La sola comunità che rimase attiva in Arizona fu la città di Tucson, la cui popolazione si ridusse comunque a meno di 200 persone che vivevano in continua angoscia. L'esercito Confederato, nel tentativo di riprendere il controllo della regione, occupò Fort Davis, nel Texas meridionale, e Fort Stanton, nel Nuovo Messico, nel cuore del territorio dei Mescalero. Queste misure non furono sufficienti a riportare gli Apache sotto controllo completo; essi continuarono le loro scorrerie, cancellando ogni insediamento dei bianchi. Nonostante l'impegno del 7° reggimento cacciatori a cavallo del Texas, solo i due piccoli centri di frontiera col Messico, Presidio del Janos e El Paso, si salvarono dalla distruzione.

La vendetta degli Apache fu terribile e nasceva dai soprusi e dalle angherie subite negli anni precedenti; per riportare sotto controllo il territorio si adottarono poi, come vedremo, misure di tale sproporzionata crudeltà sia da parte dei sudisti sia da parte dei nordisti, da innescare quella spirale dell'odio che avrebbe avuto fine solo con la distruzione della parte più debole.

Solo il ferimento grave di Mangas Coloradas in un combattimento in cui gli Apache avevano impegnato un gruppo di volontari nordisti della California, al Passo Apache, rallentò l'attività degli indiani, privati per diversi mesi di uno dei loro capi carismatici. Il 1862, a causa delle uccisioni e delle rapine commesse dalle tribù indiane, segnò l'avvento di quella che fu chiamata, a ragione, "politica di sterminio". In quello stesso anno, evidentemente segnato dalla malasorte, si spezzò anche l'equilibrio tra uomini bianchi e uomini rossi nel Nord. Nel Minnesota le tribù dei Sioux Santee vivevano da anni in armonia coi bianchi, con i quali avevano anche stipulato diversi trattati, cedendo terre in cambio di concrete forme di sostentamento. Per molte necessità gli indiani di questa regione si appoggiavano alle agenzie costituite dal governo con lo scopo di attuare quanto previsto dai trattati.

I Santee non molestavano più gli insediamenti dei bianchi e non si opponevano all'arrivo di nuovi coloni; Washington in cambio si impegnava a fornire ai Santee cibarie, coperte e indumenti per l'inverno, armi per la caccia. Questo almeno sulla carta, e per qualche anno il sistema sembrò reggere. Ma a Piccolo Corvo, grande capo della nazione Santee, e garante di pace con i popoli rossi del Minnesota, da tempo giungevano troppe lamentele dalle tribù, che invocavano il suo intervento: mercanti disonesti anziché consegnare agli indiani le merci concordate con il governo le trattenevano per poi rivenderle a prezzi esorbitanti; bianchi degenerati seducevano o violentavano donne Sioux, facendo aumentare a dismisura le nascite di sanguemisti, che erano ormai divenuti una macchia per il buon nome dei Sioux; una sempre maggior ingerenza veniva esercitata dai visi pallidi nella vita degli indiani, nelle loro abitudini e soprattutto nelle loro credenze religiose, che venivano schernite, con la pretesa di imporre loro un credo incomprensibile e innaturale.

La sincera amicizia che Piccolo Corvo aveva per gli uomini bianchi andava affievolendosi, sotto il peso dei torti subiti e del disonore che ricadeva sul suo popolo. Ai primi di agosto del 1862 Piccolo Corvo insieme ad altri capi si era recato all'agenzia per ritirare le provviste governative da tempo attese. Il mercante concessionario del servizio governativo, Andrew J. Myrick, che di quelle provviste aveva già fatto commercio, si era limitato a rispondere sogghignando ai capi Sioux: "… se i vostri sono affamati, per quello che me ne importa possono mangiarsi l'erba della prateria". Era la goccia che fa traboccare il vaso. I Sioux, come era loro abitudine, non avevano risposto nulla; avevano tenuto a mente quest'ultimo sopruso e deciso che era venuto il momento di pareggiare i conti.

Il mattino di domenica 17 agosto 1862, come a un segnale convenuto, lungo tutto il Minnesota bande di guerrieri Sioux si lanciarono all'attacco degli insediamenti dei bianchi, uccidendo, rapinando e bruciando ogni cosa. Il giorno successivo fu il turno del villaggio dell'agenzia, e il mercante Myrick fu ucciso per primo. Lungo i 25 chilometri che dividevano l'agenzia da Fort Ridgely venne inseguita e uccisa la maggior parte di coloro che cercavano scampo fuggendo verso il posto militare. I registri dello Stato del Minnesota annotano in quei giorni l'uccisione di 644 persone; incerto restò invece il numero di donne e bambini rapiti, stimato comunque in circa 300 unità.
La rivolta dei Sioux Santee impegnò per oltre un mese ingenti forze militari e solo per un tempestivo uso di un pezzo di artiglieria gli indiani non riuscirono a distruggere completamente Fort Ridgely; uccisero il comandante del Forte, capitano Marsh, con 24 soldati e arrivarono quasi ad occupare la cittadina di New Ulm, di cui distrussero e incendiarono molte case. Contro i guerrieri Sioux, armati in modo disorganico e non tutti provvisti di armi da fuoco, dovette intervenire il colonnello Henry H. Sibley, con una forza di 1.600 uomini.

Il 18 settembre 1862 si giocò la partita finale, sulle sponde del Yellow Medicine; i Sioux riuscirono a infliggere gravi perdite ai reparti militari, ma alla fine dovettero cedere di fronte alla superiorità numerica e di armamento del nemico, che era provvisto anche di artiglieria, alla quale gli indiani non avevano modo di opporre nulla. Dopo la vittoria il colonnello Sibley riuscì, operando con molta diplomazia e giocando sulla perdita di autorità di Piccolo Corvo, sconfitto in battaglia, ad ottenere dagli altri capi Sioux il rilascio della maggior parte delle donne e bambini prigionieri.

A questo punto la rivolta poteva considerarsi sedata; ma il governo di Washington aveva ordinato una punizione esemplare. 1.500 Sioux, ormai disuniti e demoralizzati, vennero tratti in arresto e condotti a Fort Snelling. 392 furono giudicati da una corte marziale, che comminò 370 condanne a morte e 22 ergastoli. La maggior parte delle condanne a morte furono commutate in ergastolo dal presidente Lincoln, meno che per 39 condannati, giudicati colpevoli dei delitti peggiori. Il 28 dicembre 1862 i condannati a morte furono impiccati davanti a tutti gli altri prigionieri.

Si concludeva così nel peggiore dei modi il 1862 per gli indiani delle Grandi Pianure. I bianchi trassero da questi eventi la convinzione che non era possibile fidarsi dei pellirossa, nemmeno dopo lunghi periodi di pacifica convivenza e che solo la forza poteva risolvere la questione indiana. Gli indiani a loro volta si sentirono sempre più oppressi da una razza di invasori che non solo non rispettavano la parola data né i trattati stipulati, ma imprigionavano i guerrieri, li giudicavano e li condannavano in base a leggi per loro incomprensibili e sconosciute. Da entrambe le parti era stato gettato un altro seme per incrementare ulteriormente i sentimenti di odio e di rivalsa tra uomini bianchi e uomini rossi.
Pochi giorni dopo questi avvenimenti si riaccese la spirale della violenza nel Sud Ovest, dove la cattura di Mangas Coloradas fu ottenuta con l'inganno, invitando l'anziano capo degli Apache Mimbreno a un finto colloquio di pace. Era il 17 gennaio 1863: Mangas Coloradas fu catturato e portato in catene in un campo militare, dove nella notte venne ucciso dai due soldati che lo vigilavano, con la motivazione ufficiale di una tentata fuga, alquanto difficile, essendo il prigioniero incatenato alle caviglie.

Intanto in Arizona una campagna di prospezione aveva dato ottimi risultati: in quelle terre c'era oro in abbondanza. Per garantire maggior sicurezza ai cercatori che affluivano, il generale nordista Carleton propose ai governatori messicani di Chihuahua e di Sonora di condurre assieme la caccia agli Apache nelle due provincie messicane e in territorio americano. Questo generale aveva già al suo attivo un famigerato ordine di servizio, col quale disponeva, per il dipartimento militare del Sud Ovest, "l'uccisione di ogni Apache adulto di sesso maschile, dovunque trovato e indipendentemente dal fatto che la sua tribù fosse o non fosse in guerra". Per le donne e i bambini Apache non veniva ordinata esplicitamente l'uccisione, limitandosi l'ordine a prescrivere che essi potevano essere catturati. Un ordine analogo era stato dato dal colonnello sudista Baylor, quando quei territori erano sotto il controllo della Confederazione, ma va ricordato che il governo Confederato era subito intervenuto, annullando le disposizioni e rimuovendo il colonnello Baylor dai suoi incarichi.

Comunque la "campagna di caccia" voluta dal generale Carleton diede ottimi risultati: dai dati ufficiali si evince che 363 indiani furono uccisi e 140 feriti. I militari ebbero 7 morti e 25 feriti, mentre tra i civili si registrarono 18 morti e 13 feriti. La "politica dello sterminio" procedeva. Significativa anche la vicenda degli Apache Pinal Coyotero, il cui capo, Para-A-Mucka fu invitato dal colonnello King S. Woosley, aiutante del governatore dell'Arizona a un colloquio di pace insieme a 35 guerrieri. Il "colloquio" si concluse con l'uccisione del capo e di 19 guerrieri. Gli altri erano riusciti a fuggire, imparando qualche altra cosa in merito alla fiducia da accordare agli "occhi bianchi" o ai "visi pallidi".

Toccò poi ai Navajo sentire il peso della "politica di sterminio". Per loro fortuna fu mandato a combatterli il colonnello Kit Carson, leggendaria figura della frontiera, uomo valoroso che conosceva gli indiani, li combatteva, ma mantenendo fede all'etica militare. Carson andò a scovare i Navajo nel loro stesso territorio, il nord est dell'Arizona; se avesse eseguito gli ordini avrebbe dovuto sterminarli; fece invece un gran numero di prigionieri, che avviò alla riserva di Bosque Redondo, sul fiume Pecos, dove aveva già confinato gli Apache Mescalero, anch'essi in teoria da uccidere tutti, in base agli ordini del generale Carleton. Kit Carson era estremamente popolare e questo gli permise di disattendere, senza conseguenze, gli ordini di massacro.

Ma il suo comportamento fu l'eccezione che conferma la regola e la "politica di sterminio" venne adottata anche nel grande territorio del Nord Ovest, dove il 29 novembre 1864 sul Sand Creek, un piccolo corso d'acqua che si getta nell'Arkansas, nell'angolo sud orientale del Colorado, si consumò uno degli eventi più infami, passato alla storia appunto col nome di "massacro di Sand Creek". In questa zona si era accampata per l'inverno la tribù di Cheyenne di capo Pentola Nera, fautore convinto della pace coi bianchi, che si era adoperato per far cessare una serie di scontri fra guerrieri Cheyenne e militari, scontri nati ancora una volta da contese con i coloni che accusavano gli indiani di furto di bestiame.

Pentola Nera aveva convocato un consiglio dei capi Cheyenne convincendo anche i più riottosi a riprendere la vita pacifica di prima e aveva effettuato poi molte visite al colonnello Chivington, comandante di Fort Weld, per sapere se le sue proposte di pace erano state accettate dal "padre bianco" di Washington. Il colonnello Chivington prendeva tempo, rassicurando peraltro il capo Cheyenne affinché stesso tranquillo nel suo campo. L'ufficiale stava semplicemente ammassando forze sufficienti per "dare una lezione" ai pellirossa. All'alba del 29 novembre 1864 il colonnello Chivington con una forza di 800 uomini attaccò di sorpresa il campo indiano, uccidendo circa 300 pellirossa, dei quali solo 75 erano guerrieri; gli altri erano donne, bambini e vecchi. Le perdite dei bianchi furono di 7 morti. Pentola Nera riuscì a salvarsi e anche sua moglie sopravvisse, nonostante nove ferite da arma da fuoco. Ufficiali e soldati in cerca di facile gloria l'avevano trovata, massacrando senza alcuna giustificazione una tribù pacifica, anziché assumersi il rischio di prendere contatto con tribù ostili con le quali ingaggiare un combattimento, Qualche sera dopo nel teatro di Denver i partecipanti all'azione si esibirono, tra i battimani della folla, agitando tra le mani un centinaio di scalpi di indiani.

L'infamia del Sand Creek fu l'innesco di un incendio destinato ad estendersi sempre di più, eliminando ogni possibilità di pacifica convivenza tra uomini bianchi e uomini rossi. Nelle sue conseguenze vanno ricercate le cause di quello che entro pochi anni sarebbe accaduto al Little Big Horn. Analizzando questo terribile episodio e i diversi altri che lo precedettero e che abbiamo prima tratteggiato, notiamo anche un particolare di importanza tutt'altro che secondaria: sia per il Sand Creek, sia per tutti gli altri episodi di uccisioni gratuite, mai accadde che i responsabili di tali atti subissero alcuna conseguenza, che quantomeno venissero privati di quell'uniforme che avevano disonorato. La politica di Washington circa il problema indiano era ormai chiara nei fatti concreti e ben si attagliano alla realtà le parole che usavamo prima: politica dello sterminio.

Occorsero diversi anni, e il sacrificio di un gran numero di vite umane, perché un uomo più illuminato di altri, il presidente Ulysses Grant (il vincitore della guerra di secessione), cercasse di avviare una politica meno disumana, anche se, come vedremo, ciò si concretò comunque nella distruzione del popolo rosso, attuata non più con mezzi bellici, ma con la cancellazione delle tradizioni, degli usi, del modo di vita; in una parola, con la cancellazione dell'identità.

Il 9 aprile 1865, domenica, ad Appomattox Court House, un villaggio della Virginia settentrionale, il generale Lee, comandante dell'esercito confederato, si arrendeva al generale Grant, comandante dell'esercito unionista. Era la fine della guerra di secessione e la nazione americana, risolto il nodo della sua unità, poteva ora riprendere il suo sviluppo, incentrato sulla colonizzazione definitiva della parte occidentale. Già durante il periodo di guerra, nel 1862, era stato emanato l'Homestead Act, la legge che offriva ai pionieri le terre dell'Ovest, alla sola condizione di occuparle e lavorarle.

Gli eventi bellici avevano cristallizzato la situazione, ma ora la penetrazione a Ovest poteva riprendere con tutta la sua forza e per il popolo rosso, mai censito, ma stimato attorno ai due milioni di persone, si preparava il confronto definitivo con una massa di diecine di milioni di uomini ben decisi a costruire una nazione, forti della disponibilità di enormi mezzi tecnici e di un apparato militare ampiamente collaudato. E a proposito dell'apparato militare, va sottolineato che, nel quadro del ridimensionamento delle forze armate dopo la guerra di secessione, fu costituito un nuovo corpo dell'esercito, gli U.S. Volunteers, i Volontari degli Stati Uniti, destinato esclusivamente all'impiego contro gli indiani dell'Ovest.
La fine della guerra di secessione comportò, oltre alla realizzazione dell'Homestead Act, anche la ripresa dei lavori per le ferrovie intercontinentali, allo scopo di collegare la costa dell'Atlantico con quella del Pacifico; due fattori che fecero rinascere, aumentandolo, il flusso di colonizzatori verso Occidente.

Ma l'Ovest non era da colonizzare solo dal punto di vista agricolo. Gli immensi territori erano ricchi anche di oro, di argento e di materiali strategici; erano terre troppo ricche per poter sperare di frapporre alcun ostacolo alla conquista. L'unico nemico da fronteggiare per i colonizzatori era il pellerossa e i più lungimiranti tra i capi indiani si rendevano ben conto della fine della loro civiltà. La lotta dei popoli rossi assunse sempre di più quei caratteri di orgogliosa disperazione che hanno gli uomini fieri della propria libertà, quando sanno di combattere una battaglia persa, in cui resta però da salvare un bene più prezioso della ricchezza e della stessa vita: la dignità.
Da parte dei bianchi la politica nei confronti degli indiani si sarebbe realizzata con tre principali mezzi: l'esercito, che, come abbiamo già visto, risolto il problema della secessione confederata, aveva ora un solo nemico da combattere, i pellirossa; lo sterminio dei bisonti, che sconvolgeva le basi stesse dell'economia primitiva degli indiani delle pianure, gettandoli nell'indigenza; e infine, come vedremo, il confinamento nelle "riserve", dove l'indiano era costretto a un nuovo tipo di vita, a credenze religiose per lui incomprensibili, alla rinuncia alle proprie tradizioni; dove, in una parola, lo si annullava come realtà sociale e culturale distinta da quella del bianco.

Mentre la guerra di secessione era ancora in corso era esplosa, come diretta conseguenza del massacro del Sand Creek, la rivolta dei Sioux e degli Cheyenne, le due grandi nazioni indiane del Nord Ovest. La disunione che affliggeva perlopiù le nazioni e le tribù era stata superata dal desiderio di vendetta degli Cheyenne, che avevano trovato alleati nei Sioux e negli Arapaho settentrionali, mentre il capo Pentola Nera, pur avendo subìto l'attacco proditorio dei soldati, non aveva accettato di partecipare ad azioni di guerra e si era trasferito con un gruppo di Cheyenne meridionali a sud dell'Arkansas, ove si era unito ai Kiowa, ai Comanche e agli altri Cheyenne ed Arapaho meridionali che svernavano in quella regione.

In un consiglio tenuto il 2 gennaio 1865 sullo Cherry Creek, un fiumiciattolo affluente del Republican, nell'angolo nord occidentale del Kansas, contrariamente alle usanze secondo le quali nessun conflitto veniva mai iniziato nei mesi invernali, si era deciso di dare inizio ad una serie di atti di guerra per vendicare l'infame attacco del Sand Creek. Tra i capi guerrieri che avevano preso questa decisione alcuni sarebbero diventati famosi: Nuvola Rossa, Naso Aquilino e soprattutto Toro Seduto.

L'obiettivo prescelto dai pellirossa fu Julesburg, allora centro di smistamento dei servizi postali e bivio da cui la pista proveniente da Kansas City si divideva in due rami, uno dei quali si dirigeva verso Fort Laramie e verso Ovest e l'altro verso Denver, scendendo a Sud verso l'Arkansas, fino a raggiungere Santa Fé. Il piccolo insediamento era costituito dalla stazione di posta della Overland Stage Line, da un posto di ristoro per i viaggiatori, da una stazione telegrafica, da un magazzino e un emporio. A un paio di miglia sorgeva una postazione militare, Fort Rankin, presidiato da uno squadrone del 7° cavalleggeri dello Iowa. Tutt'intorno vi erano numerose fattorie isolate. In tutto nella zona erano presenti un centinaio di militari e meno di duecento civili.

Contro quest'obiettivo mossero, il 7 gennaio 1865, circa 1.000 guerrieri pellirossa, che distrussero completamente Julesburg, infliggendo anche gravi perdite ai soldati. La rivolta continuò fino alla fine di luglio 1865 e vide i pellirossa vincitori su reparti militari sempre più numerosi, tanto da spingere Washington a cercare contatti di pace con le tribù del Nord Ovest, per guadagnare il tempo necessario per completare un dispositivo militare più efficace, al quale poter devolvere compiti di sicurezza e repressione. Una commissione, presieduta dai generali Sanborne e Harney, fu nominata col compito di perseguire due risultati: il permesso di transito attraverso i territori del Wyoming e del Montana per le carovane di minatori e coloni, e l'insediamento di stanziamenti permanenti; la cessione della regione compresa tra i fiumi Platte e Arkansas, abitata da Cheyenne, Kiowa, Arapho e Comanche, ove realizzare il tracciato di una delle ferrovie intercontinentali.



Si trattava della parte ancor incontaminata di territorio indiano e soprattutto Nuvola Rossa si oppose alla firma di qualsiasi trattato stipulato con i bianchi su queste basi. Il grande ascendente che il capo dei Sioux Oglala aveva anche sugli indiani di altre tribù aveva fatto sì che i risultati conseguiti dalla commissione fossero molto più formali che sostanziali, perché l'accettazione da parte di capi come Pentola Nera e Piccolo Corvo lasciava fuori proprio le tribù più reattive ed animose. I trattarti stipulati dai due generali, lungi dal garantire la pacifica espansione verso Ovest, avevano posto le premesse per l'acuirsi dello scontro sia sul fiume Platte, sia più a Nord sui fiumi Powder e Tongue. Infatti in base ai trattati sarebbe stata sconvolta proprio la zona di caccia delle tribù meridionali, la regione del fiume Smoky Hill, dove era in progetto il passaggio della linea ferroviaria.

Il rifiuto esplicito di questi trattati venne ben presto anche da parte degli Cheyenne meridionali e dei Kiowa, che semplicemente non avevano partecipato alle riunioni preliminari alla firma; dopo molte pressioni il maggiore Wynkoop, agente indiano del Missouri, era riuscito, il 13 novembre 1866, a convincere anche i capi più riottosi. Ma agli inizi del 1867 voci sempre più insistenti di una nuova rivolta indiana avevano messo il
il comandante del dipartimento militare del Missouri, generale Hancock, che aveva deciso di organizzare una spedizione contro i pellirossa "… per far loro capire che entro i limiti di questo dipartimento siamo in grado di punire quanti di essi molestino coloro che viaggiano attraverso le pianure o che commettano ostilità contro i bianchi". I superiori di Hancock, generali Sherman e Pope approvarono incondizionatamente il piano, anche se le voci di rivolta non avevano effettivi riscontri: erano state a bella posta messe in giro dai finanziatori delle ferrovie che, preoccupati di dover continuare i lavori sotto la costante minaccia indiana, auspicavano una pressione militare contro i pellirossa, nella convinzione che in tal modo si sarebbe garantita la tranquilla prosecuzione dei lavori.

Il 28 marzo 1867 la spedizione voluta da Hancock, forte di oltre 1.400 uomini, e che comprendeva tra l'altro il 7° reggimento di cavalleria, da pochi mesi al comando del tenente colonnello George A. Custer, lasciò Fort Riley, per iniziare una delle più curiose campagne della storia dell'esercito degli Stati Uniti. Infatti per quasi quattro mesi i soldati non riuscirono mai ad avere un contatto diretto con i pellirossa che, giocando come il gatto col topo, li precedevano o li aggiravano su territori a loro notissimi e dei quali i militari non possedevano nemmeno carte topografiche. Il risultato fu che gli indiani, messi in allarme comunque dai movimenti di truppe, da loro considerati atti aggressivi, si diedero a scorrerie attaccando gli insediamenti del Kansas e del Nebraska, distruggendo stazioni di posta e fattorie e punzecchiando le colonne militari con continui attacchi di guerriglia, soprattutto notturna. I reparti rientrarono stremati e frustrati.

L'inutilità dell'azione militare spinse il Congresso a cercare di nuovo soluzioni politiche, che si concretarono nel trattato stipulato il 28 ottobre 1867 sul Medicine Lodge Creek, nel Kansas meridionale. Con questo trattato si definiva il territorio indiano ristretto nei limiti dell'attuale Oklahoma, entro il quale i pellirossa avrebbero dovuto tenersi senza sconfinare a nord, col divieto per i bianchi di valicarne i confini per cacciare.
Con questo trattato l'Amministrazione di Washington era convinta di aver risolto ogni problema di convivenza con gli indiani delle Pianure, mostrando ancora una volta di non aver capito la mentalità del pellerossa, al quale nessun accordo, quasi sempre preso sotto pressioni militari, ma non compreso, poteva impedire di vivere secondo regole ancestrali.

La restrizione in un territorio definito segnava per gli indiani la fine della loro vita di liberi cacciatori e guerrieri e quindi anche il trattato di Medicine Lodge non fu altro che un incentivo a ulteriori atti di guerra. Dopo la firma del trattato infatti seguirono altri sei mesi di scontri, che si chiusero con l'umiliazione subita dal generale Sherman, che dovette scendere a patti con Nuvola Rossa il quale, in cambio dell'impegno a non ostacolare la costruzione della ferrovia Northern Pacific, che correva molto più a sud dei territori di caccia, pretese e ottenne che le truppe abbandonassero Fort Kearny, avamposto per la progettata penetrazione nei territori del Montana e dell'Idaho.

Il desiderio di rivalsa dopo la sconfitta è ben espresso in quella lettera inviata dal generale Sherman al ministro della guerra, Stanton, di cui riportavamo un brano all'inizio di questo nostro studio. Tracciando un quadro di grave insicurezza dell'Ovest, il generale scriveva: "…50 indiani ostili possono tenere in scacco 3000 soldati. Meglio buttarli fuori al più presto possibile, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l'imbroglio da parte dei commissari per gli affari indiani o uccidendoli". Ossia: usiamo pure dei trattati con i pellirossa, ma teniamoci pronti, ove necessario, all'imbroglio; se non riusciamo poi a imbrogliare gli indiani, possiamo sempre ucciderli.

Con questa mentalità partì la "campagna invernale" voluta dai generali Sheridan e Sherman e appoggiata dal governo di Washington, con lo scopo di effettuare una spedizione punitiva che convincesse gli indiani della regione del Missouri a non commettere più razzie e attacchi contro gli insediamenti. E in questa campagna si "distinse" il tenente colonnello George A. Custer, che sul fiume Washita, nel cuore del territorio indiano, il 27 novembre 1868, distrusse completamente una tribù, adottando la sua abituale tattica di attaccare alle prime luci dell'alba, quando la vigilanza si attenua. Peccato che, nell'ansia di raccogliere gloria militare, Custer non avesse controllato chi erano con precisione gli indiani che si apprestava ad attaccare. Gli indiani uccisi furono oltre un centinaio, contro sette caduti tra i soldati. La tribù distrutta era quella degli Cheyenne di capo Pentola Nera, che si era sempre tenuto ostinatamente fuori da qualsiasi conflitto e che venne ucciso mentre al centro del campo agitava una bandiera a stelle e strisce per far capire che lui e i suoi uomini erano "amici" dei bianchi.

Oscillante tra interventi militari e ricerca di patteggiamenti, la politica del governo americano verso gli indiani delle Pianure tendeva comunque, sempre di più, a restringere il territorio a disposizione dei pellirossa per far spazio all'inarrestabile flusso di coloni. Le sconfitte subite da un esercito potente e addestrato, ma tenuto spesso in scacco da bande di guerrieri "selvaggi", acuivano nei militari il desiderio di salvare la faccia in ogni modo, attaccando anche, come vedevamo sopra, tribù inermi e pacifiche, sicuri comunque dell'impunità, perché alle tragiche leggerezze dei comandi dell'esercito, che costavano gran numero di vittime innocenti, non seguiva mai né mai seguì alcuna sanzione da parte delle autorità politiche. La vita di un indiano non era molto considerata; non c'era motivo particolare per considerare la vita di intere tribù.
Mentre il decennio 1860-70 si concludeva tra venti di guerra nelle Grandi Pianure, la politica dello sterminio era continuata contro gli indiani del Sud Ovest, con meno veemenza ma senza interruzione. L'ordine per i soldati in servizio in quelle zone era sempre quello di uccidere a vista ogni Apache in grado di usare un'arma.

La pressione continua spinse la tribù degli Apache Aravaipa a cercare un accordo con il comandante di Camp Grant, un posto militare a circa 80 chilometri da Tucson. Questi, il tenente Royal E. Whitman, era fortunatamente un uomo ragionevole, che non odiava gli indiani e anzi cercava di aiutarli ad integrarsi in una realtà nuova. Invitò quindi gli Aravaipa ad accamparsi in prossimità del posto militare e a lavorare per la provvista di fieno necessaria al forte. La proposta fu accolta e oltre 300 Apache, che sarebbero divenuti ben presto 500, si stabilirono nelle vicinanze del Forte. Tucson era all'epoca una città che brulicava di banditi e avventurieri e il 30 aprile 1870 un gruppo di questi, approfittando dell'assenza dal forte di gran parete dei soldati, impegnati in una missione esplorativa, attaccò nottetempo il campo indiano, uccidendo tutti gli Apache che vi si trovavano.

Con tipica ipocrisia, il massacro di Camp Grant, compiuto da avventurieri e non soldati, fu commentato con sdegno e meraviglia ed ebbe però, se così si può dire, il risultato positivo di far capire che la politica dello sterminio doveva essere abbandonata, sia per ragioni morali, sia perché non era possibile perseguire la distruzione fisica di tutti gli indiani. Il primo atto di questa svolta fu l'invio da parte del presidente Grant di un inviato speciale, Vincent Coyler, incaricato di muovere i primi passi di una nuova politica di conciliazione. Vedremo come effettivamente questa politica venne realizzata; per gli indiani d'America si preparavano gli ultimi anni: erano comunque destinati a scomparire come popolo, perché sarebbero stati di ostacolo alla costruzione definitiva della nazione americana.
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Decenni di lotte per difendere la libertà e le Grandi Pianure in cui erano vissuti per secoli.
Poi le armi dei "visi pallidi" vinsero...

... E IL GRANDE POPOLO INDIANO
FINI' NEI GHETTI CHIAMATI RISERVE


Non si può parlare compiutamente dell'ultimo ventennio del periodo cosiddetto delle "guerre indiane" senza un accenno a un uomo che ne fu il più significativo simbolo, in negativo.
George Armstrong Custer nasce il 5 dicembre 1839 a New Rumley, Ohio. Il 1° luglio 1857 viene ammesso all'Accademia Militare di West Point; ottiene la nomina a sottotenente il 24 giugno 1861, con la classifica di 33° su 33 cadetti.
Nei suoi anni di frequenza in Accademia, Custer non brillò né per disciplina, né per senso del dovere. Poco portato allo studio e alla riflessione, nell'ultimo anno incorse anche in una mancanza disciplinare grave, tale da essere deferito a una corte marziale.
Le accuse erano di "negligenza in servizio" e di "condotta pregiudizievole per la disciplina militare".

Comandato quale ufficiale di guardia, Custer aveva mancato di prendere le misure appropriate per sedare una lite tra due cadetti, incitando addirittura i due litiganti a uno "scontro leale". Nella lite era rimasto anche ferito accidentalmente un soldato di sentinella. Le mancanze in cui era incorso avrebbero potuto comportare l'espulsione dai ranghi dell'esercito. La sentenza fu invece insolitamente mite: "rimprovero solenne, da iscriversi nei documenti personali, per leggerezza nell'esecuzione dei propri compiti". Tanta indulgenza aveva una semplice spiegazione: la guerra di Secessione comportava, per entrambe le parti in lotta, uno sforzo militare eccezionale, aggravato, nel caso del Nord, da una grave carenza di ufficiali. La necessità impellente di inquadrare milioni di uomini chiamati alle armi imponeva di non andare troppo per il sottile nella nomina degli ufficiali, e così anche Custer, ultimo del suo corso e con la macchia delle mancanze disciplinari, ebbe la nomina a sottotenente, inquadrato nel 2° reggimento di cavalleria dell'Unione.

Il 21 luglio 1861 fu per il giovane neo - ufficiale il giorno del battesimo del fuoco, nella prima battaglia di Bull Run, nella Virginia settentrionale. Il 3 agosto di quell'anno venne trasferito al costituendo 5° reggimento di cavalleria, col quale partecipò alla difesa di Washington, minacciata dalle truppe confederate, e successivamente alla campagna della Virginia peninsulare. Promosso capitano il 5 giugno 1862, venne nominato, il 14 aprile 1863, aiutante di campo del generale Pleasonton, comandante della cavalleria dell'armata del Potomac.

Gettatosi a capofitto nella guerra, l'ex cadetto indisciplinato aveva fatto dimenticare i propri trascorsi poco onorevoli, mettendosi in luce come ufficiale energico, instancabile e di grande coraggio personale. La guerra del resto non è la situazione ideale per chi ha scelto la carriera delle armi? Ma per George Armstrong Custer il destino aveva in serbo una sorpresa formidabile: la promozione a generale, all'età di 23 anni!
Conviene qui chiarire che l'esercito dell'Unione era quasi del tutto privo di ufficiali generali, né ciò è strano, considerando che in tempo di pace erano solo 16.000, tra truppa, sottufficiali e ufficiali, gli effettivi dell'esercito degli Stati Uniti, la cui unità di base era il reggimento. Nel momento di massimo sforzo militare, nella prima parte del 1863, l'Unione mise in armi 3.000.000 di uomini; le relative armate, corpi d'armata, divisioni e brigate che andavano a costituirsi per necessità bellica avevano bisogno di generali che le comandassero, e si consideri anche che buona parte dei quadri dell'esercito avevano aderito alla Confederazione.

A questa necessità si rispose con tipico pragmatismo americano, promuovendo gli ufficiali in servizio permanente al grado nel quale erano necessari sotto il profilo funzionale e adottando per loro una duplice carriera, quella appunto funzionale, nella quale il grado era contrassegnato dal termine brevet, per indicare la posizione solo nominale, imposta dalle esigenze di guerra, e quella regolare, che proseguiva secondo gli schemi di avanzamento del tempo di pace. In questa situazione il 28 giugno 1863 il generale George G. Meade, comandante dell'armata del Potomac, dovendo organizzare tre brigate di cavalleria, richiedeva tre generali di brigata. Su conforme proposta del generale Pleasonton, uno degli ufficiali segnalati per il grado di generale era il capitano George A. Custer; il giorno successivo era già pronto il decreto presidenziale di nomina del giovane capitano al grado di generale di brigata "brevet". (
i gradi "brevet", erano puramente funzionali alle esigenze della guerra).

Pochi giorni dopo, il 3 luglio 1863, il neo - generale si distingueva per slancio e ardimento al comando della 2° brigata di cavalleria del Michigan, nella storica battaglia di Gettysburg, che segnò l'inversione di tendenza della fortuna militare sudista. Il 1° ottobre 1864 Custer assunse il comando della 3° divisione di cavalleria, inquadrata nell'armata comandata dal generale Sheridan. La promozione al grado di generale di divisione brevet giunse il 13 marzo del 1865. The
boy general, il ragazzo generale, era ormai divenuto un personaggio popolare; fu tra i quattro generali che presenziarono alla firma della resa sudista, domenica 9 aprile 1865, nella piccola fattoria di Appomattox Court House, quando il generale sudista Lee si arrese al generale nordista, e futuro Presidente, Grant.
Durante il conflitto, il 9 febbraio 1864, Custer aveva sposato Elisabeth Bacon, una graziosa giovane di 21 anni, che lo avrebbe poi sempre seguito per il resto della vita e gli sarebbe a lungo sopravvissuta, sino al 4 marzo 1933, difendendo sempre la memoria del marito con una tenacia possibile solo in una donna profondamente innamorata.

Finita la guerra, la smobilitazione dell'esercito prevedeva, oltre lo scioglimento dei reparti non più necessari, anche il riordinamento dei quadri degli ufficiali. Quelli che non provenivano dall'Accademia (che erano la maggioranza) vennero congedati col grado che rivestivano alla fine del conflitto. Agli ufficiali provenienti dal servizio permanente venne posta un'alternativa: o essere anch'essi congedati col grado raggiunto in guerra, o restare in servizio tornando al grado che si sarebbe conseguito per normali avanzamenti in tempo di pace. Applicata al caso di Custer, che optò per la permanenza in servizio, tale regola significava il ritorno al grado di capitano. Tuttavia, dati i meriti conseguiti in guerra, gli vennero concesse due promozioni e alla data del 28 luglio 1866 fu definitivamente nominato tenente colonnello in servizio permanente.

A titolo di soddisfazione morale, a lui come a tutti gli altri ufficiali, venne conservato anche il grado brevet, nel nuovo significato di "grado onorario", sicché il titolo di cui poteva fregiarsi era "tenente colonnello, generale di divisione brevet". Il che comportava però il fatto di essere "solo" un tenente colonnello.
Questa "retrocessione", peraltro comune a gran parte degli ufficiali rimasti in servizio dopo la guerra di secessione, fu vissuta da Custer con un bruciante senso di umiliazione, convinto com'era di essere in grado di continuare a rivestire il grado di generale. Il senso di frustrazione e di amarezza lo avrebbe sempre accompagnato, spingendolo a lasciarsi guidare dall'irrefrenabile desiderio di primeggiare sempre e comunque. Più temuto che amato dai suoi soldati, Custer, già duro di carattere, s'indurì vieppiù, palesandosi come un uomo privo di ogni scrupolo morale nel conseguimento dei propri interessi e nel soddisfacimento della propria ambizione.

Appena ripreso servizio col grado di tenente colonnello, assegnato al 7° reggimento cavalleria, di stanza a Fort Riley, Kansas, Custer continuò a farsi chiamare "generale" e ad indossare le stravaganti uniformi fuori ordinanza (sulle quali non di rado apponeva i gradi di generale) che, insieme all'uso di portare i capelli molto lunghi sulle spalle, lo avevano reso popolare tra i volontari che aveva comandato in guerra. Ora era necessario avere nuovi nemici per mostrare al mondo che George Armstrong Custer era a tutti gli effetti un "generale".
E i nemici erano lì, pronti: i pellirossa. In quel periodo, come già accennavamo, nelle regioni del Nord Ovest erano in pieno svolgimento la rivolta dei Sioux di Nuvola Rossa e la guerriglia condotta dagli Cheyenne guidati da Naso Aquilino. Il generale Hancock, comandante del dipartimento militare del Missouri, aveva disposto una serie di operazioni contro gli indiani ostili per convincerli che "… entro i limiti di questo dipartimento, siamo in grado di punire…".

Dopo l'inverno trascorso in attività addestrativa, la spedizione iniziò il 28 marzo 1867; otto squadroni del 7° cavalleria vennero posti al comando di Custer, che avrebbe poi raccontato gli eventi e le esperienze di quella campagna in un libro di grande successo,
My life on the Plains (La mia vita nelle Pianure). Sappiamo peraltro (ne parlavamo nella seconda parte di questo studio) che quella "spedizione" si risolse in quattro mesi di peregrinazioni a vuoto per le Grandi Pianure, senza alcun risultato militare concreto, con pochissimi contatti con gli indiani, peraltro sempre provocati dagli stessi, maestri nella guerriglia e negli agguati. Il senso di frustrazione generale che pervase le forze armate dopo quell'inutile spedizione viene capovolto del tutto da Custer, che nel suo libro riesce a contrabbandare come "battaglie" piccoli scontri isolati o un'attività nella quale si distinse tristemente e che gli sarebbe valsa il soprannome indiano di "figlio della stella del mattino".

Il soprannome in apparenza poetico stava ad indicare l'uso di Custer di attaccare poco prima dell'alba piccoli accampamenti ancora immersi nel sonno, nel momento in cui la vigilanza è più attenuata; poco importava se le tribù attaccate erano, o meno, ostili. Il massacro del Washita fu il più crudele esempio di questa tattica, consumato contro una tribù, quella degli Cheyenne di capo Pentola Nera, che non avevano mai commesso atti ostili contro i bianchi.
Divenuto popolarissimo, come abbiamo visto, nella guerra di secessione, gran pubblicitario di sé stesso, Custer rappresentava per l'americano medio "l'uomo che vinceva" e che, come tale, era dalla parte del giusto e da ammirare. Poi sarebbe arrivato il 25 giugno 1876 e la battaglia del Little Big Horn, quando gli indiani saldarono il conto al "generale", e tutto ciò che ne sarebbe seguito. Ma non anticipiamo i tempi e cerchiamo di riprendere l'ordine nell'esposizione dei fatti.

Nella seconda parte eravamo arrivati alla nomina da parte del Presidente Grant di un plenipotenziario, Vincent Coyler, incaricato di avviare una politica di conciliazione con gli indiani e di integrazione degli stessi nella nuova società americana che si stava formando. Le intenzioni di Grant erano senz'altro lodevoli, perché la politica dello sterminio adottata contro le tribù del Sud, segnatamente gli Apache, era non solo disumana, ma anche senza via d'uscita se non quella di causare un'inutile e infinita perdita di vite umane e di rendere invivibili i territori del Sud - Ovest. Vincent Coyler lavorò con grande impegno e senza dubbio il suo maggior successo fu la resa di Cochise, che accettò di incontrare una commissione di pace guidata dal generale Granger e di cessare le ostilità contro i bianchi. Il generale offrì al grande capo Apache un'ampia parte della zona dei Monti Chiricahua come territorio in cui insediarsi, in cambio dell'impegno alla pace.

Quei territori erano la patria originaria degli Apache e Cochise accettò, anche se non mancò, in un discorso rimasto famoso, di far notare che un "nuovo popolo" ( i bianchi) venivano a concedergli ciò che era sempre stato degli Apache, cioè i territori sui quali essi erano nati e vissuti. Ma il desiderio di pace di Cochise era sincero. Come sola condizione pose quella di non essere trasferito nella riserva di Tularosa, nel Nuovo Messico, dove già erano state confinate alcune bande minori di Apache Chiricahua. Pochi mesi dopo la firma del trattato e nonostante l'impegno del Presidente Grant che le tribù sarebbero state trasferite "su territori ad esse graditi", il Dipartimento per gli Affari Indiani dispose il trasferimento della tribù di Cochise da Canada Alamosa, nel cuore delle montagne in cui si erano insediati, alla riserva di Tularosa.

Era il primo sabotaggio da parte del Dipartimento della politica di conciliazione voluta dal Presidente; non sarebbe purtroppo stato l'ultimo. Sulle autorità di governo premevano i rappresentanti di troppi interessi legati all'espansione nei territori dell'Ovest; si andava dalle ferrovie, alle compagnie minerarie, all'industria, alle società commerciali, tutte concordi nel voler risolvere il "problema indiano" confinando i pellirossa in zone che venivano giudicate non interessanti dal punto di vista economico, senza alcun riguardo alle esigenze dei pellirossa stessi e a quanto stabilito nei diversi trattati che via via venivano stipulati nell'ambito della politica di conciliazione.

Il risultato concreto della mancanza di parola dimostrata dai bianchi ordinando il trasferimento degli Apache Chiricahua nella riserva di Tularosa fu che Capo Cochise, sentendosi a ragione beffato e tradito, fuggì tra le montagne con un migliaio di guerrieri e la guerriglia indiana incendiò nuovamente il Sud - Ovest. In circa un anno, sino all'ottobre 1872, gli Apache effettuarono razzie e aggressioni, uccidendo una cinquantina di uomini bianchi, rubando bestiame e distruggendo fattorie.

Sull'esempio trascinante di Cochise anche i Kiowa e i Comanche ripresero le ostilità contro i bianchi, e il presidente Grant affidò al generale George Crook il compito di riportare l'ordine nei territori sconvolti dalle scorrerie, mentre nell'estate del 1872 Vincent Coyler, visto il fallimento della politica di conciliazione alla quale si era dedicato con entusiasmo, rassegnò le dimissioni. La mano passava ai militari, ma per fortuna il generale Crook non era un soldato che partiva da presupposti razzisti come un generale Sheridan...

... padre della famosa frase: "… l'unico indiano buono che io conosca è l'indiano morto".

Crook, che era ammirato dagli stessi indiani per le sue doti militari e la sua abilità di cacciatore, condusse una campagna militare efficace, attaccando i vari insediamenti di indiani ostili, in particolare le tribù degli Apache Tonto Basin, ma senza commettere le inutili stragi di cui tanti suoi colleghi si erano macchiati. Avviati numerosi prigionieri nella zona di Campo Verde, poco a sud di Fort Apache, il generale Crook ebbe l'idea di impiegarli, sotto la supervisione dei soldati, nella gestione di fattorie da loro stessi create, facendo eseguire i lavori necessari per l'irrigazione e la preparazione dei terreni da coltivare. Gli Apache, consci del fatto che non potevano più battere sul campo di battaglia i soldati, si rassegnarono alla nuova esistenza di agricoltori, che iniziava a dar loro stabilità ed autosufficienza. Ancora oggi è possibile vedere nella regione intorno a Campo Verde il fosso irriguo scavato dagli Apache, largo oltre un metro e lungo circa 8 chilometri. L'esperimento, ben organizzato ed eseguito, sembrava finalmente indicare la via giusta per risolvere la questione indiana, aiutando i pellirossa a passare dalle loro tradizioni tribali ad un'integrazione che salvasse però la loro dignità con un lavoro che li rendeva autosufficienti.

Ma proprio il successo che stava avendo l'esperimento del generale Crook, unitamente al rischio che si estendesse anche ad altre riserve, metteva in pericolo gli interessi dei gestori degli acquisti e rifornimenti per gli indiani confinati nelle riserve. Se i pellirossa confinati riuscivano a conquistare l'indipendenza economica, un ricco business rischiava di inaridirsi; gli indiani che avevano abbandonato le ostilità contro i bianchi dovevano invece vivere nella più completa indigenza, per consentire ai gruppi commerciali appaltatori dei rifornimenti di continuare a guadagnare. E così dall'onnipotente Dipartimento per gli Affari Indiani arrivò l'ordine di trasferire gli Apache dalla zona di Campo Verde alla riserva sul fiume San Carlos. Il risultato fu quello di causare l'ennesima rivolta. Come già aveva fatto Cochise, molti capi minori rifiutarono il trasferimento forzato.

Ma ormai gli Apache, dopo le operazioni militari del generalo Crook, non avevano più la forza di un tempo. Disorganizzati, sparpagliati in piccoli gruppi, furono portati, con le buone o con le cattive, nella riserva del fiume San Carlos. Alcuni capi caddero in un inutile, disperato combattimento: lo stesso Cochise fu ucciso il 26 maggio 1874. La vita libera degli indiani del Sud - Ovest era ormai finita.
Nelle Grandi Pianure l'espansione verso Ovest era ripresa con veemenza, come già vedevamo, dopo la fine della guerra di secessione. Il trattato stipulato il 28 ottobre 1867 sul Medicine Lodge Creek, nel Kansas meridionale, aveva definito i confini del territorio indiano ristretto nei limiti dell'attuale Oklahoma, entro il quale i pellirossa avrebbero dovuto tenersi senza sconfinare a nord, col divieto per i bianchi di valicarne i confini per cacciare.

Nella primavera del 1874 incominciò però a palesarsi per gli indiani delle Pianure una nuova sconvolgente realtà: le mandrie dei bisonti non seguivano più le piste abituali e le mandrie ancora esistenti erano sempre più esigue. Il bisonte era essenziale per la vita degli indiani delle Pianure, che utilizzavano tutte le parti del corpo del grande animale per far fronte alle esigenze di cibo, vestiario, armi e casa (il tipico tepee, la tenda dei pellirossa nomadi, era costruita con le pelli di bisonte). Con grande ira gli indiani attribuirono subito ai visi pallidi la colpa: con le strade, le ferrovie, con la loro stessa presenza avevano di sicuro spaventato gli animali, che avevano abbandonato gli antichi territori di caccia.

La realtà era diversa e ben peggiore. La strage dei bisonti era in atto già da un paio d'anni, ed ora se ne vedevano le conseguenze. Anzitutto le compagnie ferroviarie avevano assoldato numerosi cacciatori, col preciso scopo di procurare la carne per il vitto di migliaia di operai dei vari cantieri disseminati nel grande Ovest; la caccia indiscriminata aveva poi fatto nascere un nuovo lucroso commercio con il mercato dell'Est, quello delle pelli di bisonte e delle parti più pregiate della carne, col risultato che il numero di cacciatori, attratti da questa nuova forma di guadagno, era enormemente aumentato. Gli animali venivano abbattuti senza alcuna regola, e senza preoccuparsi di conservare alle mandrie un numero congruo di maschi e femmine in età feconda, in modo da garantire la riproduzione. Era un nuovo business, che per gli indiani si traduceva in gravi carestie.

Il fenomeno non era sfuggito alle autorità politiche e militari, sempre preoccupate per la soluzione della questione indiana. Il generale Sheridan, uomo di punta nel Nord Ovest di ogni iniziativa che avesse come risultato quello di mettere in ginocchio i pellirossa, perseguì addirittura l'obiettivo di uno sterminio totale del bisonte, e comunque diede ai reparti dipendenti istruzioni per concedere ogni possibile agevolazione ai cacciatori. Tra il 1872 e il 1874 i bisonti abbattuti furono circa 3 milioni e mezzo, di cui solo 150.000 uccisi dai pellirossa. Quando la caccia indiscriminata calò, perché non più conveniente per eccesso di offerta rispetto alla domanda, ormai il danno era compiuto e i cacciatori indiani si trovarono nella drammatica situazione di non poter più procurare alle loro tribù il sostentamento necessario. Kiowa, Apache della prateria, Comanche e Arapaho si ribellarono violentemente quando, come la classica "ultima goccia" che fa traboccare il vaso, accadde che alcuni gruppi di cacciatori si spingessero dentro al territorio indiano, per inseguire le poche mandrie di bisonti ancora esistenti, oltretutto senza che i militari (che in base ai trattati avrebbero dovuto garantire l'integrità del territorio indiano) facessero nulla per impedirlo. La rivolta durò con alterne vicende fino all'ottobre 1874 e costò la vita di oltre 300 bianchi.

Come sempre, risultava difficile, se non impossibile, stabilire il numero esatto di indiani morti, data l'usanza pellerossa di portar via il maggior numero possibile di corpi dei caduti in battaglia. Comunque lo sterminio dei bisonti, anche se non totale, aveva raggiunto lo scopo prefisso, portando brusche mutazioni in sistemi di vita atavici; chi voleva mantenersi indipendente dall'uomo bianco doveva fare i conti con una nuova situazione di indigenza, avendo perso la principale fonte di sostentamento.

Restavano ancora relativamente liberi gli indiani del Nord Ovest, in quella regione costituita dall'attuale Dakota del Nord e del Sud. Il governo americano, con la firma del trattato di Fort Laramie, si era impegnato a mantenere libero questo territorio, nel quale vivevano principalmente i Sioux, e in particolare a difendere l'inviolabilità delle Black Hills, le Colline Nere, considerate dai pellirossa luogo sacro. La vita degli indiani in quella regione scorreva abbastanza tranquilla, con l'appoggio delle agenzie di Pine Ridge, alla confluenza tra i fiumi Rock e Missouri, e di Standing Rock, su un affluente del White.

Le agenzie avevano il compito di provvedere alla distribuzione dei viveri e rifornimenti assegnati dal governo in base alle clausole del trattato e regolavano anche un certo commercio di scambio che si era instaurato tra il territorio indiano e quelli confinanti. Non tutti gli indiani della regione si appoggiavano alle agenzie, preferendo mantenere un'orgogliosa indipendenza, legati all'atavico nomadismo, su territori in cui la caccia era ancora possibile; ma spesso la separazione tra gruppi nomadi e gruppi ormai stabilizzati nella vita d'agenzia non era così netta. I gruppi si mischiavano, si alternavano, e a poco a poco si attuava un adeguamento indolore dei pellirossa alla nuova realtà.
Non era però in discussione, almeno per i pellirossa, il fatto che quel territorio fosse territorio indiano. La libertà che gli indiani godevano ancora nei territori del Nord Ovest era però osteggiata da quanti, rappresentanti di grossi interessi economici e commerciali, premevano sul governo di Washington, considerando inammissibile che un territorio vasto e ricco rimanesse chiuso alla penetrazione della civiltà, solo per consentire ad alcune migliaia di "selvaggi" di vivere come piaceva loro, ostacolando così il "progresso". Bisognava quindi che il governo si impegnasse ad aprire alla colonizzazione anche quei territori, se possibile pacificamente, altrimenti con la forza.

Questa opinione, peraltro molto popolare e quindi fonte di voti per i politici che la sostenevano, era condivisa anche negli ambienti militari, che non vedevano l'ora di mostrare ai "selvaggi" chi era il più forte, chi era in grado di imporsi, in rivincita delle umiliazioni già subite a causa dei Sioux.
Nel territorio era presente un'installazione militare, il Forte Lincoln, e i soldati ufficialmente erano incaricati di proteggere gli indiani nella cornice del trattato. Nell'atmosfera politica che descrivevamo, non stupisce che agli inizi del 1873 si decidesse di aumentare la presenza militare di Forte Lincoln, inviandovi proprio il 7° reggimento di cavalleria, comandato dal tenente colonnello - generale di divisione brevet George A. Custer, che al fiume Washita, come ricorderanno i nostri lettori, aveva dato una significativa prova del suo modo personale di affrontare il problema indiano.

Intanto si intendeva dare ai pellirossa la sensazione di uno stretto controllo, iniziando a ridimensionare la loro convinzione di poter vivere per sempre come un popolo libero. Poi si sarebbe visto: se la pressione psicologica non fosse stata sufficiente per spingere gli indiani ad accettare la presenza stabile dei bianchi, restava sempre l'opzione militare. Ma non ce ne fu bisogno: ancora una volta fu l'oro il detonatore di un nuovo sconvolgimento. La scoperta, proprio sulle Colline Nere, di grossi giacimenti auriferi causò nel territorio il consueto assalto incontrollato di avventurieri, minatori, cercatori più o meno dilettanti, con l'immancabile codazzo di sfruttatori, prostitute, giocatori di professione, venditori di whisky.

La vita dei Sioux ne rimase sconvolta; l'invasione causò la fuga degli animali di montagna, l'orso, il cervo, l'alce, che venivano abitualmente cacciati. I cercatori abbattevano alberi per costruire le abitazioni, si auto - concedevano concessioni minerarie, mentre le autorità governative non erano in grado, o non volevano esserlo, di fermare tutta quell'orda, che, in base ai trattati, non avrebbe mai dovuto penetrare nel territorio indiano. Insomma, l'oro era riuscito a fare ciò che politici, militari e mercanti auspicavano da tempo: aprire alla "civiltà" l'ultimo territorio in cui gli indiani vivevano ancora quasi del tutto liberi.

Il governo americano si trovò pressato dalle proteste dei pellirossa e da quelle, molto più potenti, dei sostenitori della colonizzazione. In mancanza d'altro, provò ad intavolare una trattativa commerciale coi Sioux, per la cessione della regione delle Colline Nere, ma offrendo una cifra così esigua che gli indiani la considerarono come una beffa insolente. Solo Nuvola Rossa, già protagonista di una grande rivolta indiana, accettò le proposte governative, ma non lo fece certo perché le giudicava eque. Molto più semplicemente aveva constatato che la prosecuzione della lotta era inutile: l'inveterata abitudine dell'uomo bianco a non rispettare la parola data si univa purtroppo ad una netta superiorità tecnica, economica e militare.

Nuvola Rossa non voleva fare guerre inutili, sapendosi già sconfitto in partenza, anche se era ben conscio dell'ennesimo tradimento subito dagli indiani. Una gran parte delle tribù però non volle o non seppe comprendere le argomentazioni di Nuvola Rossa e all'inizio dell'estate del 1875 abbandonò le agenzie andando ad accamparsi nel bacino del fiume Powder, tra le Big Horn Mountains e le Black Hills, nella parte più remota del territorio, dove i visi pallidi non erano ancora giunti. E da lì gli indiani cominciarono la solita guerriglia contro qualsiasi bianco o gruppo di bianchi tentasse di entrare nella regione. Ai Sioux si unirono ben presto i loro tradizionali alleati, gli Cheyenne settentrionali che, guidati dal capo Due Lune, abbandonarono in massa l'agenzia di Red Lodge, nel Montana meridionale. Sul Powder si concentrarono così diverse migliaia di indiani, riuniti attorno a due capi che possono essere considerati tra i più grandi uomini della razza pellerossa nell'ora del tramonto: Toro Seduto, capo politico dei Sioux Hunkpapa e Cavallo Pazzo, capo di guerra della tribù Oglala.

L'estate del 1875 trascorse così in continue scaramucce; il governo, conosciuta la risposta negativa degli indiani circa la vendita delle Colline Nere, e saputo del concentramento di tribù lontano dalle agenzie, decise di prendere misure militari per costringerle a tornare sotto il controllo degli agenti indiani. Dopo un'inutile intimazione a tornare alle agenzie entro il 31 gennaio 1876, il 1° febbraio il segretario agli interni dichiarò "ostili" gli indiani che vivevano fuori dalle agenzie e chiese al segretario alla guerra di prendere contro i loro le misure militari ritenute più opportune.
Comandante della divisione militare del Missouri era da poco quel generale Sheridan che abbiamo più volte citato come esempio di razzismo e di disprezzo verso i pellirossa. Sheridan con i suoi collaboratori, tra cui il generale Crook, tracciò un piano di campagna per invadere il bacino del Powder, cogliere di sorpresa le tribù indiane e riportarle con la forza alle agenzie.

La campagna contro i Sioux registrò subito un punto a sfavore, perché l'elemento sorpresa mancò. Mentre i soldati si inoltravano in un territorio pressoché sconosciuto, gli indiani erano in grado di controllarne i movimenti, evitando, come era loro costume, lo scontro se non necessario. La campagna ebbe inizialmente le caratteristiche di tante altre azioni militari già fallite in passato: lo stesso generale Crook, veterano delle guerre contro gli indiani, subì una pesante sconfitta a opera di Cavallo Pazzo, che lo costrinse a ritirarsi e a riorganizzarsi. Il 26 maggio 1876 partì così la seconda offensiva contro i Sioux, di cui sarebbe divenuto protagonista il tenente colonnello Custer, di cui tracciavamo in apertura un profilo.

Custer aveva come principale preoccupazione quella di riportare una vittoria che fosse soprattutto "sua"; imbaldanzito da tante facili azioni contro tribù semi inermi, si era convinto della propria buona stella e della propria abilità. Era solito dire che gli indiani ormai avevano paura di lui, che la sua presenza aveva un effetto tale da demoralizzare il nemico. Con questi presupposti Custer, che già aveva interpretato in modo molto personale le disposizioni del suo superiore, il generale Terry, quando ebbe notizia dagli scout che il suo reggimento era stato avvistato dagli indiani, non fu nemmeno sfiorato dal pensiero che questi fossero pronti ad ingaggiare battaglia. Molto più forte era la preoccupazione che i pellirossa tentassero di sganciarsi, privandolo così dell'occasione di coprirsi di gloria.

Era il 26 giugno 1876. Accecato dalla smania di giungere a uno scontro che fosse "suo personale" Custer non si preoccupò di accertare la forza dell'avversario, ordinando oltretutto l'attacco frontale su un terreno sconosciuto. Quando si rese conto che l'accampamento individuato non era di poche centinaia di Apache, ma di circa cinquemila indiani (di cui almeno duemila guerrieri) era ormai troppo tardi. L'esito della battaglia del Little Big Horn è noto: il gruppo squadroni comandato direttamente da Custer (che aveva suddiviso il reggimento in tre gruppi) fu completamente annientato. Custer e 238 soldati trovarono la morte, lanciati all'attacco contro oltre duemila pellirossa, comandati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo.

(in questa battaglia, si salvò un solo uomo, il trombettiere: un emigrato ITALIANO, di Sala Consilina)
Vedi la singolare sua avventura, e i dettagli della battaglia dove trovò la morte Custer)

E qui potrebbe chiudersi la narrazione della triste epopea del popolo rosso, perché la vittoria contro il "generale" Custer fu di fatto anche il canto del cigno di un popolo che ormai era sconfitto, non solo schiacciato dalla superiorità militare americana, ma condannato a sparire dalla totale incompatibilità con una nuova "civiltà" che aveva dimostrato, nei fatti, di anteporre l'interesse economico, di potere, di espansione, a qualsiasi considerazione di lealtà ed umanità. Lo choc causato nella pubblica opinione dalla sconfitta e dall'uccisione di Custer fu tale da far prendere il sopravvento in ambito governativo a quanti sostenevano la necessità di una soluzione energica del problema indiano. E poiché la politica dello sterminio non poteva comunque essere ripresa, si adottò subito una politica che ebbe l'effetto non di uccidere fisicamente gli indiani, ma di distruggerli sempre più come civiltà originale e autonoma, con i propri valori da difendere secondo le proprie tradizioni.

Il primo provvedimento fu la trasformazione delle agenzie in riserve, col risultato che mentre nelle agenzie gli indiani comunque riuscivano a conservare il proprio modo di vita, nelle riserve si imponeva loro l'integrazione, volenti o nolenti, nella società americana. Il pellerossa che viveva nelle riserve era di fatto anche prigioniero, non potendo varcare i confini senza autorizzazione, rinunciando al libero esercizio della caccia, dipendendo dagli aiuti governativi per tutto.
Gli anni che seguirono al combattimento del Little Big Horn videro ancora una serie di guerriglie, scaramucce, ma ormai il popolo rosso, decimato non solo dalle azioni militari ma anche dalle malattie, abbruttito dall'uso degli alcolici, smarrito in una società che per lui restava comunque incomprensibile, non esisteva più. Per gli indiani del Sud Ovest, come per quelli delle Grandi Pianure e per quelli del Nord Ovest non c'era posto in una società che si basava comunque sul progresso, sul successo, sull'arricchimento. E chi non veniva ucciso veniva "integrato", ma chi non era "integrabile" doveva essere ucciso.

Emblematica è la fine di Toro Seduto: la grande autorità che egli esercitava ancora sui pellirossa era considerata pericolosa, e ne fu ordinato l'arresto, con la falsa accusa di avere fomentato un movimento, quello della danza degli spettri, che pretendeva, attraverso ritualità magiche, di far rinascere gli antichi padri per riportare i popoli rossi all'antico stile di vita e all'antica gloria. Toro Seduto in realtà si era dichiarato contrario a questa nuovo movimento, ma non aveva impedito ai suoi di parteciparvi, pur sottolineando l'inutilità.
Toro Seduto, che per qualche tempo aveva partecipato anche allo spettacolo circense di Buffalo Bill, col quale era in grande amicizia, morì il 15 dicembre 1890, ucciso durante il tentativo di arrestarlo operato in modo maldestro da poliziotti indiani, della sua stessa gente. La fama del capo dei Sioux Hunkpapa era tale che la sua uccisione a sangue freddo determinò la decisione, per gli altri indiani della sua tribù, di portarsi alla riserva Oglala di Pine Ridge, dove viveva Nuvola Rossa, per porsi sotto la sua protezione, ora che non c'era più il loro capo carismatico. Un gruppo di circa 250 indiani si mise in marcia guidato dal capo Grosso Piede e venne intercettato da un distaccamento comandato dal maggiore Whiteside, che accettò le giustificazioni di Grosso Piede, ordinandogli però di passare la notte nei pressi del posto militare di Wounded Knee, dal nome di un torrente affluente del White, che scorreva nei pressi.

Gli indiani, che comunque dovevano considerarsi prigionieri, perché avevano lasciato senza autorizzazione la riserva, obbedirono e al mattino si svegliarono vedendo che il loro accampamento era circondato da quattrocento soldati, appoggiati da due cannoni Hotchkiss. Senza dubbio il maggiore Whiteside temeva chissà quali atti di ostilità da parte di un gruppo di uomini, donne e bambini che erano solo stanchi, sfiduciati e atterriti per il proprio avvenire, dopo lo choc dell'uccisione a freddo di Toro Seduto.
Chi sparò il primo colpo?. Non si seppe mai. Sta di fatto che il gruppo di Grosso Piede fu distrutto, con un bilancio di oltre duecento indiani uccisi. Una cinquantina di feriti furono lasciati diverse ore senza cure e molti di loro morirono per congelamento.

Il massacro di Wounded Knee fu l'ultimo atto. La politica americana era stata tremendamente efficace, riuscendo a cancellare il popolo rosso come presenza sociale e culturale, come popolo indipendente, portatore dei propri valori e geloso del proprio modo di vita. Dalla politica del massacro, ai timidi tentativi di integrazione pacifica, subito stroncati, si era passati poi all'integrazione forzata e al confinamento nei territori delle riserve. Resterà l'indiano come personaggio di folclore; era morto l'indiano che rappresentava un tipo di vita libera, tanto più libera perché distaccata dalla furiosa attività, tipica di chi ha l'arricchimento come prima ragione di vita.

( Fine)


BIBLIOGRAFIA
Uomini bianchi contro uomini rossi, di Gualtiero Stefanon, Mursia, Milano 1985.
La mia vita nelle Pianure, di George A. Custer, Mursia, Milano
Storia del mondo moderno, Cambridge University, Garzanti, Milano 1982

Ringrazio per l'articolo
concesso gratuitamente
solo a Cronologia"
il direttore di

 

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