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GRECIA - STORIA
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La "GUERRA DEL PELOPONNESO"
LA CADUTA DELLA DEMOCRAZIA (413-404
a.C.)
Alcibiade
Possiamo facilmente capire la costernazione degli Ateniesi, allorchè seppero lo sfortunato evento della spedizione Siciliana e la totale rovina sia dell'esercito che dell'armata. Mai prima di allora gli Ateniesi si erano ridotti a una simile condizione; senza denaro, senza esercito, senza una flotta.
Inoltre altre sventure si moltiplicavano. I Greci loro collegati, particolarmente quelli di Eubea, Chio e Lesbo, stanchi di versare ad Atene i contributi per la guerra, pensarono che questa sventura offriva una favorevole opportunità per assicurare la loro indipendenza e quindi scuotersi di dosso il gioco ateniese. Giunsero perfino a supplicare i Lacedemoni affinchè li prendessero sotto la loro protezione.
Ma non è che ad Atene le cose stavano meglio. Il partito oligarchico ritenne giunto il momento opportuno per abbattere gli ordinamenti vigenti. Una serie di uomini fra i più eminenti per cultura intellettuale e per posizione sociale si alleò a questo scopo. A capo di essi erano Antifone, un distinto oratore e giurista, che per odio contro la democrazia si era fino allora tenuto lontano dalla politica; c'era Pisandro, uomo di stato autorevole, che sino a quel momento aveva recitato la parte radicale ed ora invece si scoprì oligarca; poi c'era Teramene, il cui padre Agnone aveva occupato una posizione eminente sotto Pericle come uomo di Stato e come generale e sedeva ancora al governo.
Infine c'era Alcibiade che non si tenne estraneo al movimento. Il famoso Ateniese, da tempo era occupato in malvage trame contro i suoi concittadini per vendicarsi dell'ingiusto trattamento che gli avevano riservato.
Già in altre pagine abbiamo visto che Alcibiade dopo il benservito datogli dagli Ateniesi, era passato al servizio di Sparta. Integratosi perfettamente, perfino nella severa disciplina, aveva fatto di tutto per spingere gli Spartani alla guerra contro la sua città natale; li aveva accompagnati nella spedizione a Chio; ed aveva contribuito in misura assai notevole affinchè la Jonia si ribellasse ad Atene.
Entrato così nelle grazie degli Spartani, questi più nulla facevano se non con la mediazione di Alcibiade. Ma se a una parte degli Spartani questo andava bene, da un'altra parte il suo crescente potere attirò le gelosie, soprattutto di Re Agide e dei principali Efori, i quali temendo di essere esautorati da quel carisma che l'uomo possedeva, oltre l'abilità, si promisero di distruggere il loro avversario.
Alcibiade informato del pericolo, abbandonò il Peloponneso e questa volta trovò rifugio a Sardi, sotto la protezione del Satrapo di Persia Tisaferne.
Anche a Sardi Alcibiade trovò il modo di farsi apprezzare e benvolere, fino al punto che Tisaferne gli rivelò tutti i suoi futuri progetti contro Atene onde cancellare l'onta che i Persiani avevano provato a Maratona e a Salamina.
Dimostrandosi ancora una volta pieno di rancore per la sua vera patria, Alcibiade consigliò Tisaferne di non intervenire direttamente, ma di sostenere la discordia fra Sparta ed Atene, cioè di favorire alternativamente l'una e l'altra in modo da far esaurire le loro forze fino alla reciproca distruzione, per poi farne di una o dell'altra o di entrambe, una facile preda.
Ed infatti, Tisaferne più che usare la forza, impiegò il denaro per fomentare ribellioni ad Atene come a Sparta, e nel farlo bilanciava queste sovvenzioni in modo che una non potesse giungere ad una vittoria netta sull'altra.
Questi complotti non erano sfuggiti al movimento oligarchico di Atene, inoltre l'alta considerazione che Alcibiade godeva presso la corte Persiana, li portarono a pentirsi di aver riservato ad Alcibiade quell'ingrato esilio, e a pensare quanto sarebbe stato utile ora, con una crisi che era tutta a loro favore. Ma anche lo stesso Alcibiade nutriva la segreta speranza di poter tornare ad Atene. In qualche modo, al movimento oligarchico queste intenzioni le fece anche sapere; di voler tornare in patria, promettendo che con la sua influenza avrebbe fatto rompere l'alleanza fra la Persia e Sparta, e procurato ad Atene l'amicizia e l'assistenza di Tisaferne. Ma ad una condizione, che fosse abbattuta la "democrazia degli straccioni" come la chiamava, e stabilissero nuovamente l'aristocrazia.
Ad Atene queste condizioni trovarono grande opposizione ovviamente nelle rappresentanze democratiche popolari, massime fra i nemici di Alcibiade. Ma siccome altra via non c'era per sottrarre la repubblica alla sua totale rovina, il popolo assentì benché contro la propria inclinazione.
A Pisandro che capitanava la flotta e ad altri dieci deputati gli si diede l'incarico per trattare con Alcibiade e Tisaferne. La missione non ebbe però l'esito sperato, anzi fu un fallimento, perchè all'ultimo momento Tisaferne temendo di rendere gli Ateniesi troppo potenti fece -per arrivare a una pace- delle richieste tali (gli Ateniesi dovevano abbandonare tutti i domini della Jonia) che i deputati disgustati misero fine all'incontro. Adirati anche con Alcibiade, che probabilmente aveva promesso più di quanto lui poteva mantenere. Infatti Tisaferne anche se si fidava poco dei Peloponnesi, non voleva rompere con loro, in quanto avevano nelle proprie mani l'intera costa della sua satrapia.
Mentre questo accadeva a Sardi, ad Atene, Androcle ed altri capi del partito radicale erano stati tolti di mezzo con i pugnali di alcuni sicari. Il popolo ne rimase terrorizzato e quindi, magrado l'insuccesso delle trattative con la Persia, si potè procedere alla riforma della costituzione.
Seguendo quella linea che aveva proposta Alcibiade, fu abolito il governo popolare e prese le redini l'aristocrazia. Tutte le magistrature furono abbandonate nella mani di quattrocento persone rivestite di potere assoluto.
La cronaca di questi giorni sono diverse: Robertson (in "Istoria dell'Antica Grecia") riporta che questi tiranni manifestarono subito la loro tirannia. Entrarono in Senato circondati da guardie e armati di pugnali, disciolsero il vecchio governo popolare, poi iniziarono la loro amministrazione con una serie di sentenza di esilio, di proscrizioni, di avvelenamenti di tutti coloro dai quali prevedevano opposizione.
J. Beloch (In Storia Universale) invece narra che fu fatto tutto per le vie legali, che una deliberazione dell'assemblea popolare abolì la democrazia e vi sostituì a titolo di governo provvisorio un consiglio di 400 membri, che vennero nominati dai capi del movimento politico, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; era stabilito che d'ora innanzi il godimento dei diritti politici si sarebbe limitato ai 5000 cittadini più ricchi e che nessuno avrebbe ricevuto stipendio per la gestione di cariche pubbliche.
Da entrambi i due autori però sappiamo che l'esercito allora accampato a Samo, si sdegnò così tanto di ciò che era avvenuto ad Atene, che la massima parte dei soldati (di estrazione popolare) rifiutarono obbendienza agli ufficiali (sospetti di essere legati all'aristocrazia e conniventi al colpo di stato), ed elessero nuovi capi (Trasilo e Trasibulo) al loro posto, e proposero il comando supremo ad Alcibiade, nella giusta convinzione che egli solo era l'uomo capace di salvare lo Stato nella crisi che attualmente attraversava.
Alcibiade accettò l'incarico, poi mettendosi alla testa delle truppe avanzò fino a Mileto per presentarsi nella sua nuova dignità a Tisaferne, e tornando ad essere orgoglioso di essere Ateniese, mostrò al Satrapo persiano che il potere dei suoi concittadini era tornato ad essere nuovamente formidabile.Poi tornò a Samo; vi trovò messaggeri inviati dai quattrocento di Atene. I soldati non solo insistettero di non riceverli, ma proposero ad Alcibiade di marciare su Atene per sbarazzarsi subito dei tiranni.
Alcibiade tornò ad essere un grande stratega e un grande politico. Primo: considerò che partendo da Samo avrebbe lasciato sguarnita la Jonia incapace di difendersi dai probabili assalti del nemico. Secondo: temeva che la sua comparsa ad Atene avrebbe potuto provocare una guerra civile, nella quale i suoi concittadini avrebbero esaurito le proprie forze uno contro l'altro, facendo così il gioco dell'aristocrazia più insolente.
E a proposito di questa, dichiarò (proprio lui che l'aveva proposta come condizione per tornare ad Atene) che era necessario abolirla e di nuovo ristabilire il Senato.
Queste sagge decisioni valsero ad ottenere che i soldati rinunziassero di muovere contro il Pireo sotto la sua guida.
Ma intanto ad Atene la rivolta militare di Samo, e la notizia che Alcibiade era stato dai soldati nominato comandante supremo dell'esercito ateniese, aveva profondamente scossa l'autorità del nuovo dispotico governo. L'unico mezzo per quest'ultimo di mantenersi al potere era di venire ad una pronta intesa con Sparta, ed Antifone (il capo del movimento oligarchico che aveva preso il potere) era pronto a pagarla a qualsiasi prezzo, sia pure occorrendo a sacrificarle l'indipendenza dello Stato.
Ma quando già si preparava a consegnare il Pireo in mano alla flotta Spartana, si vide abbandonato dai suoi seguaci, gli opliti cominciarono ad ammutinarsi e soltanto la promessa del governo di pubblicare la lista dei 5000 cittadini di pieno diritto e far eleggere da essi un nuovo collegio di magistrati governanti potè impedire lo scoppio della guerra civile.
I nemici di Atene nel frattempo non erano rimasti a guardare; i Lacedomi (alleati di Sparta) approfittando della grave crisi all'interno e all'esterno di Atene, fecero avanzare una loro flotta fino all'Ubea, e qui essa si scontrò con una armata inviata dai quattrocento. Questa si fece incontro ai Lacedomi dinanzi a Eretria ma rimase sconfitta con gravi perdite. Ad Atene si cadde nella più gran costernazione, per la semplice ragione che l'Ubea somministrava la maggior parte delle vettovaglie. Questo grave colpo rovinò del tutto il governo oligarchico. La maggior parte vista l'aria che tirava fuggì da Atene, riparando presso gli Spartani. Antifone non si mosse, preferì il giudizio, che fu severo, fu condannato e mandato al supplizio.
A capo dello stato salì Teramene, che pur avendo capitanato l'opposizione, e provocato la caduta dell'oligarchia, rimase pur sempre sospetto ai democratici avendo un passato pure lui oligarchico.
Ma anche il fato andò incontro ad Atene: I Lacedomi pur conquistando l'isola, si attardarono a mandare rinforzi; inoltre essendoci ora - come abbiamo visto sopra- al comando supremo Alcibiade - per nulla impressionati della disfatta di Eretria, allestì tre potenti armate: le prime due con due validi comandanti, Trasilo e Tarsibulo, che misero in fuga i rinforzi Lacedomi; l'altra - bramoso di fare prima del suo ritorno ad Atene qualche luminosa azione - guidata dallo stesso Alcibiade, fece vela verso Coo e Gnido. Poi informato che una delle flotte stava per incrociare i Peloponnesiaci nelle vicinanze di Abido (autunno 411 a.C.) si precipitò in soccorso, piombò in piena battaglia, e pur avendo diciotto velieri, fece strage di navi, di soldati, catturò trenta navi nemiche, e si guadagnò la gloria che cercava.
L'anno successivo (primavera 410 a.C.) colse un'altra vittoria strepitosa a Cizico contro i Peloponnesi.
Pur avendo riunita la flotta che contava ormai 80 navi, con 40 di queste, mentre il cielo e il mare era plumbeo e i tuoni accompagnavano scrosci di pioggia, facendosi seguire ai lati dalle altre 40 navi, affrontò subito frontalmente quelle spartane guidate da Mindaro. Questi vedendo così poche navi davanti a se, si schierò a battaglia, ma quando avvicinandosi attaccò, ai suoi due lati piombarono le due flotte di 20 navi ciascuna; ne fecero strage, e lo stesso Mindaro fu ucciso da Alcibiade.
E mentre lui coglieva questi successi, Trasilo in Attica piombava sulla retroguardia e distruggeva l'esercito spartano che era stato condotto quasi fino alle mura di Atene dal loro re Agido.
In seguito a tale disfatta, Sparta si decise di trattare: essa offrì la pace sulla base dello stato attuale delle cose, tali che avrebbe conservato ad Atene più della metà dei suoi antichi domini.
Ma in Atene all'annunzio della vittoria, la costituzione temperata introdotta da Teramene era staya abbattuta ed era stata ripristinata la democrazia illimitata; e il fabbricante di strumenti musicali Cleofone, che ora portava la battuta all'assemblea popolare, non volle saperne di pace a meno che essa non ricostituisse pienamente il dominio ateniese. Perciò la guerra continuò. Fu compiuto l'anno seguente (409 a. C.) il tentativo di riconquistare la Jonia; ma nell'attacco portato contro Efeso gli Ateniesi subirono una grave disfatta. E invece di guadagnare dei territori li perse, e nello stesso periodo Atene perdè pure Pilo e Nisea che andarono nelle mani dei Peloponnesi.
Andò meglio invece l'anno dopo (408 d.C.) ad Alcibiade, che proseguendo la sua azione, con luminose gesta ricondusse all'obbedienza le città dell'Ellesponto; gli Ateniesi tornarono ad esserne i padroni di quelle contrade, ristabilendo il predominio marittimo di Atene.
A questo punto nei primi mesi del 407 d.C. Alcibiade decise di far vela verso il Pireo; non solo bramava di sperimentare la gratitudine del suo paese, ma ritenne che era venuto il momento di ritornare ad Atene per prendere lui nelle proprie mani le redini del governo. Era quello che aspettava da anni.
Il giorno del suo arrivo fu il più glorioso della sua vita. Tutto il popolo di Atene uscì fuori ad incontrarlo per condurlo in trionfo in città. Entrando nel porto tutte le navi della sua armata erano agghindate a festa con le spoglie del nemico, seguivano poi un gran numero di navi spartane catturate che ora portavano sul pennone le insegne di Atene.
Alcibiade sbarcò fra le ripetute acclamazioni dei cittadini, e gli antichi amici gli si affollavano intorno trattandolo come una Deità. Cinto dell'aureola della vittoria, entrando in città, l'accoglienza fu un bagno di folla che purificò la maledizione religiosa che ancora gli gravava sopra per il sacrilegio compiuto contro i misteri. Infine, il popolo (anche se parte dei cittadini la consideravano una follia) lo elesse a stratega supremo per mare e per terra con poteri illimitati, gli decretarono una corona d'oro a titolo di riparazione per il cattivo trattamento che prima aveva ricevuto, e gli resero i suoi beni.
Per dissipare i sospetti di essere antireligioso, Alcibiade volle celebrare anche i misteri Eleusini. Ma da alcuni anni gli Ateniesi erano costretti a condurre questa processione per mare, perché le principali strade presso Eleusi erano in mano ai Lacedomi. Alcibiade volle svolgerla nella consueta maniera, cioè dalla terra e, con tale determinazione, pose le sue truppe lungo i lati del cammino, pronte a respingere ogni eventuale assalto del nemico. La processione si svolse con grande ordine per tutta la strada fino ad Eleusi; si celebrarono i riti con grande solennità e tornarono indietro senza alcun inconveniente. Anche quest'azione fu considerata una grande impresa e l'entusiasmo del popolo Ateniese salì alle stelle, fino al punto che molti volevano incoronare Alcibiade re.
Molti dei cittadini primari, con questo clima euforico della folla, sempre pronta ad esaltarsi, si aspettavano che Alcibiade sarebbe andato anche più in là, e che abbattuta la democrazia, si sarebbe reso padrone assoluto dello Stato. Ma Alcibiade non osò fare questo passo, si mantenne nei limiti legali nei successivi quattro mesi che rimase ad Atene. I primari temendo che prima o poi si pronunciasse in tal senso, non vedevano l'ora di farlo ripartire com'era sua intenzione, accordandogli quanto desiderava. Avuta a disposizione una flotta di cento navi, Alcibiade fece vela verso la Jonia, l'unica provincia che non si era riusciti a sottomettere.
Nella Jonia la situazione nel corso di questi tre anni era però alquanto cambiata ed era assai sfavorevole ad Atene. I Peloponnesi, dopo la sonfitta di Cizico, avevano avuto tutto tempo di creare una nuova flotta, e soprattutto avevano trovato nel loro nuovo ammiraglio, l'uomo adatto a comandare questa flotta.
Era costui LISANDRO; pur di nobile nascita, nondimeno era stato educato con tutto il rigore alla disciplina spartana. Era bravo, accorto, intelligente, ma era anche molto ambizioso e per raggiungere i suoi scopi avrebbe sacrificato ogni cosa, ogni piacere.
Anche i rapporti degli Joni con i Persiani erano diventati migliori di prima. Questo perchè Tisaferne nella Satrapia di Sardi era stato affiancato da Ciro, il secondogenito di Dario, giovane anche lui ambizioso, che nutriva in animo il disegno di soppiantare suo fratello maggiore (il futuro Artaserse) e insediarsi sul trono egli stesso.
Con questo progetto, non trovò di meglio che cercare un sostegno con gli Spartani, ed entrò immediatamente in contatto con Lisandro, accordandogli copiosissimi aiuti in denaro, che Lisandro accettò volentieri per aumentare di quattro oboli al giorno gli stipendi dei suoi marinai. Lui con quelle forti somme, sollevato da preoccupazioni finanziarie per molto tempo, e decisamente più motivati i suoi uomini, le due cose insieme contribuirono fortemente all'indebolimento dell'armata Ateniese.
Tuttavia, Liasandro non ingaggiò subito battaglia con un uomo del valore di Alcibiade. Pertanto le due flotte stettero per un po di tempo una di fronte l'una all'altra inoperose, i Peloponnesi all'àncora nel porto di Efeso e gli Ateniesi nel vicino porto di Notion.
Purtroppo accadde l'irreparabile nella primavera del 406 a.C. Essendosi Alcibiade per alcuni giorni allontanato dalla flotta, pur avendo dato ordine al suo sostituto Antioco di non ingaggiare battaglia, costui bramoso di dimostrare il suo coraggio fece vela con due galere nel porto di Efeso a sfidare il nemico. Affrontato dalle navi ben posizionate nel porto da Lisandro, non solo lui fu catturato, ma per toglierlo dal pasticcio che aveva combinato, altre 15 galere corsero in suo aiuto. Ma strette al centro, dai lati della flotta nemica, furono tutte catturate.
Le conseguenze non furono solo di carattere militare, ma politiche. Al suo ritorno, nell'udire Alcibiade questo disastro non è che si perse d'animo. Radunò tutte le navi davanti a Samo pronto ad ingaggiare battaglia con Lisandro. Che però pago del suo successo a Efeso, ritenne opportuno evitare.
Ma la notizia del disastro a Efeso e lo smacco a Samo, giunse ad Atene, e i nemici di Alcibiade riacquistarono il sopravvento. Giunsero perfino a dire che la disfatta di Antioco era da amputarsi alla negligenza di Alcibiade; e qualcuno ancora più malizioso, affermò che bisognava fortemente dubitare della sua fedeltà, vista la precedente connivenza con Spartani prima e Persiani poi. L'ingrato e capriccioso (ignorante) popolo - come al solito- prestò fede a queste insinuazioni.
Erano in quel momento ad Atene imminenti le elezioni, i suoi avversari riuscirono a far sì che Alcibiade non venisse eletto. E ciò equivaleva a una vera e propria immeritata deposizione. Da parte sua Alcibiade, sdegnato, depose immediatamente la sua carica e, con quell'aria pesante che tirava, prima che accadesse qualcosa di simile alle sue due precedenti esperienze se ne partì per un volontario esilio in uno dei suoi castelli in Tracia.
Al comando della flotta ateniese fu scelto CONONE. Un inetto come vedremo in seguito.
Ma anche presso gli Spartani, il proprio ammiraglio cadde nella disgrazia dell'ingratitudine. La costituzione spartana non consentiva una rielezione, e Lisandro (che nel frattempo per compiere il suo personale ambizioso progetto si era dato molto da fare nel mettere nella mani dei suoi amici il potere delle città soggiogate) fu sostituito da Callicratida, uno spartano di stampo antico, militare tutto d'un pezzo, senza stravaganze, che invece di restare in attesa davanti al nemico, preferiva imporre alla guerra un indirizzo del tutto diverso da quello praticato da Lisandro; lui era un uomo d'azione, e la sua strategia era molto semplice: attaccare sempre, infliggere al nemico incessanti e rapidi colpi, non dargli tregua.
Lisandro vedendolo arrivare, non nascose la sua gelosia, e si comportò nella più bassa e immaginabile maniera. Prima di lasciare il comando al suo successore, rimandò a Sardi tutto il denaro che aveva ricevuto dal Satrapo persiano per aumentare gli stipendi alle truppe; poi rivolgendosi a Callicatrida, gli disse che se desiderava denaro doveva prima andare a inginocchiarsi e adulare il gran Re persiano.
Per il nuovo comandante fu dura doversi abbassare a quelli che considerava barbari, ma con gran senso pratico, o costretto dalle necessità, ad elemosinare alla corte persiana ci andò per davvero. Ma ora con uno, ora con un altro pretesto non riuscì a ottenere udienza da Ciro. Sdegnato se ne tornò a casa.
Con il concorso di contingenti di navi fatte venire da Chio portò ugualmente la flotta a 140 unità. Poi attaccò Lesbo e con un primo assalto prese immediatamente Metimma; Conone, accorso in aiuto dell'isola con 70 navi; non subì una vera e propria rovinosa sconfitta, ma fu bloccato nel porto di Mitilene. Se non giungeva pronto aiuto, la flotta ateniese di Conone era perduta.
Infatti ad Atene compresero subito il pericolo. Vennero allestite tutte le navi che si trovavano ancora disponibili nel Pireo, si caricarono di ogni uomo disponibile, compresi gli schiavi che vennero liberati, e furono richiamate tutte le squadre che si trovavano sparse nell'Egeo e aggiungendo le 40 navi dislocate a Samo, in tal modo si riuscì a formare una flotta di 150 navi e far vela verso Mitilene per liberare le altre 70 navi di Conone.
Callicratida con la sua solita strategia di voler sempre attaccare, anche incautamente, fidandosi solo del suo coraggio, con a disposizione 120 navi non attese quelle ateniesi nelle proprie acque, ma mosse incontro al nemico preso le isole Arginuse. Allo stretto che separa Lesbo dal continente si venne a battaglia.
Fra gli Ateniese si distinse Pericle, figlio e omonimo del più famoso ateniese. Con il rostro della sua nave colpì proprio la nave di Callicratida. Immobilizzata l'ammiraglia, caduto nella lotta il comandante, le altre navi senza più una guida precipitarono ben presto nella confusione, 70 velieri furono affondati, altri si diedero alla fuga, i rimanenti furono catturati. Fu un tracollo totale per Sparta.
Ma gli uomini di Callicratida prima della disfatta si erano non solo difesi eroicamente, ma avevano inflitto numerose perdite agli Ateniesi. Di navi loro ne avevano affondate 25, e questo mentre durante la battaglia si era alzata una tempesta che impedì agli Ateniesi di salvare gli equipaggi naufraghi, che per la massima parte trovarono la morte nelle onde limacciose "proprio a causa della tempesta, che impediva di soccorrerli". Così almeno dissero al ritorno ad Atene gli ammiragli vittoriosi, mentre invece alcuni marinai superstiti li accusarono di non aver fatto il possibile per salvare i loro compagni afferrati alle carcasse delle navi distrutte. Furono così chiamati i responsabili sul banco degli imputati prima davanti al Senato (che se ne lavò le mani) poi davanti a un'assemblea popolare per rendere conto davanti agli Ateniesi quello che fu considerato un delittuoso operato. Dopo un procedimento tumultuoso sei di essi su dieci vennero condannati a morte (compreso il figlio di Pericle, che in un certo senso era stato - mandando in fondo al mare l'ammiraglia e lo stesso Callicratida - l'artefice del successo).
A difendere gli accusati fu chiamato il famoso Socrate. La sua accorata tesi difensiva fu quella che "i generali a causa della tempesta, non mettendo a repentaglio gli equipaggi delle proprie navi, avevano adempiuto al proprio dovere come comandanti delle navi stesse. Inoltre, era la più manifesta e crudele ingiustizia il porre a morte uomini che si erano esposti con tanta gloria e buon successo in difesa della patria".
Purtroppo gli accusatori avevano infiammato il popolo, e il popolo ingrato, istigato da una pietosa demagogia ("i poveri resti dei nostri fratelli che non hanno potuto avere l'onorata sepoltura giacciono in fondo al mare") furono spietati. Quale irragionevole ingrato popolo!
Platone colse da questo evento occasione per sostenere che "la plebaglia è un incostante, ingrato, crudele e geloso mostro, assolutamente incapace di essere guidato dalla ragione; e un tale sentimento è confermato dalla universale esperienza di tutte le età e di tutte le nazioni".
E non aveva visto i successivi duemila anni !!!
Paradossalmente ci furono elogi postumi per l'ammiraglio nemico. Plutarco in seguito, pur facendo gli encomi al coraggioso Callicratida come uomo, lo biasimò come comandante per avere incautamente ingaggiato battaglia dove non doveva ingaggiarla. "Pericoloso - scrisse- per un generale condottiero abbandonarsi all'impeto del proprio coraggio. Nel farlo non pone a rischio soltanto la propria vita, ma quella di tutti coloro che sono al suo comando".
Anche Cicerone era di questo parere: condanna coloro che "...per una falsa opinione della propria gloria, o per salvare la propria reputazione, mettono a rischio i propri uomini e la propria patria."
Infatti sembra che Callicratida, prima della impulsiva e sciagurata decisione, fosse stato consigliato di schivare la battaglia al largo. L'ammiraglio spartano rispose al saggio consiglio dicendo che "Sparta poteva allestire un'altra flotta nel caso questa fosse stata distrutta; ma che la sua fuga lo avrebbe oppresso di eterna vergogna". Pensò più al suo onore che non a quello della Patria.
Nonostante questo infausto dibattito che si concluse con la morte dei responsabili, non passò in secondo piano la vittoria che gli stessi imputati avevano clamorosamente ottenuta, che non solo avevano vinto e poi liberato la flotta di Conone a Mitilene, ma anche la supremazia degli Ateniesi sul mare con quella clamorosa vittoria era stata restaurata.
Inoltre Sparta, uscita distrutta dallo scontro, offrì ancora una volta la pace, ma gli Ateniesi, convinti ora più che mai della propria invincibilità sul mare (pur avendo mandato a morte gli artefici di quel successo), respinsero le proposte. A Sparta ne approfittarono i seguaci di Lisandro, che chiesero agli Efori e al re di metterlo nuovamente a capo della flotta.
Il rancore e le ambizioni di quest'uomo non erano per nulla cessate, e nemmeno gli intrighi per raggiungere i suoi personali scopi. Nuovamente a capo della flotta, si rimise subito in contatto con il persiano Ciro, per ottenere come in passato, sovvenzioni in denaro. Con questo allestì una nuova potente flotta, 180 navi, e nell'estate del 405 riprese l'offensiva veleggiando verso l'Ellesponto; assediò Lamsaco, la prese di assalto e l'abbandonò al saccheggio.
Gli ateniesi con un po' di ritardo si mossero pure loro con 180 navi. Ma si mossero incautamente, e altrettanto incautamente Conone scelse il luogo per mettere all'ancora le navi: su una inospitale costa senza porto e città dove in caso di necessità poter ritirarsi. Iniziale fortuna per i Greci che Lisandro non voleva ingaggiare subito la battaglia. Però si era egregiamente organizzato qualora gli Ateniesi avessero deciso di attaccare. E si era anche organizzato per fare un attacco di sorpresa appena si sarebbe presentata l'occasione buona.
Resi fiduciosi dall'esitazione del nemico, gli ateniesi alla fonda per quattro giorni trascuravano servizi di guardia, scendevano a terra, gozzovigliavano allegramente notte e giorno.
A salvarli da una potenziale precaria situazione, si offrì ancora una volta Alcibiade, che trovandosi da quelle parti, incontratosi con i comandanti ateniesi, da buon stratega qual'era, espose il grave pericolo in cui si trovavano se rimanevano in quel posto. Si offerse di cooperare piombando sul nemico dalla parte di terra con un esercito trace al suo comando. Ma i generali ateniesi, o per boria o per gelosia, sicuri di sè non accettarono nè l'aiuto nè i saggi consigli di abbandonare quel luogo infame.
Con la solita negligente maniera, soldati e marinai, inoperosi da giorni, seguitarono ad abbandonare le navi per scendere a terra a gozzovigliare. Funzionando bene i suoi informatori, per Lisandro l'atteso momento per attaccare di sorpresa era arrivato. Con lui al comando la grande flotta spartana si mosse, attraversò l'angusto stretto per poi piombare come un falco sulle navi quasi vuote. Conone su una di queste, scoprendo che il nemico si avvicinava, si agitò e gridò verso terra come un ossesso per richiamare gli uomini di salire a bordo. Ma i soldati essendo sparsi sulla costa non poterono obbedire. Sentendosi impotente, Conone con poco più di una decina di navi che avevano ancora un misero equipaggio a bordo, vista la critica situazione decise di salvarsi con la fuga, facendo vela per Cipro presso il suo amico Euagora, re di Salamina.
(Una nota su questo inetto Conone. - Dopo la figuraccia a Mitilene (con il blocco delle sue 70 navi), e dopo quest'altra disfatta a Egospotami, Conone non osò più comparire dinanzi agli occhi dei suoi concittadini. Alla fine il suo amico Euagora gli trovò un posto presso i persiani, dove Farnabazo gli diede il comando di una flotta).
La flotta di Lisandro, come detto, piombata all'improvviso in quelle acque, catturò l'intera flotta, circa 170 navi, quasi senza colpo ferire. Molti Ateniesi a terra si diedero alla fuga sulla inospitale terra, ma 3000 di loro compresi tre comandanti furono circondati catturati, poi trucidati tutti spietatamente a sangue freddo.
Con la massima facilità, ormai incontrastato, proseguendo l'azione, Lisandro occupò tutte le piazze che sull'Ellesponto, nella Tracia e nelle isole erano occupate dagli Ateniesi, che si arresero senza resistenza al vincitore.
Giunti a questo punto, la sanguinosa guerra che era durata ventisette anni, era ormai decisa.
Atene non aveva più una flotta, nè aveva i mezzi necessari per metterne in piedi un'altra. Inoltre Lisandro terminato il lavoro a nord, comparve minaccioso con la sua forza navale davanti al Pireo, mentre l'esercito del Peloponneso guidati dai due re di sparta Agide e Pausania, circondava la città di Atene dalla parte di terra.
La città non poteva sperare soccorso da alcun lato; ma i capi radicali - che la plebe seguiva ciecamente e irrazionalmente - non volevano sentir parlare di resa, anche perchè loro sapevano che voleva dire che era finita. O forse qualcuno voleva proprio questo. Così gli Ateniesi si ressero per tutto l'inverno con accanto due uniche compagne: la fame e la disperazione. Ma trovarono il tempo di riversare la loro rabbia e mandare a morte Cleofone, la cui politica di guerra a oltranza, aveva attirato su Atene tutte queste sciagure.
Intanto a Sparta gli Efori decidevano il destino degli Ateniesi e della stessa Atene; i più esaltati dalla vittoria ne volevano la distruzione totale, e Tebe e Corinto erano della stessa opinione. Quasi inutile fu l'invio a Sparta di due ambasciate Ateniesi guidati da Teramene. La condanna per Atene, sempre seguendo l'opinione della plebaglia spartana, doveva essere la sua totale distruzione. La nuova generazione, che nei 27 anni era cresciuta nella sanguinosa guerra, fin dalla loro culla gli avevano insegnato a coltivare questo sogno: di vedere rasa al suolo la città rivale.
A quel punto fu Lisandro ad opporsi, e radunata la classe più saggia, dichiarò che "sarebbe stata un'infamia estinguere uno degli occhi della Grecia". Per quanto fosse spartano, Lisandro insomma riconosceva la grandezza e la magnificenza di Atene.
Si giunse così con la sua saggia moderazione a preparare un trattato di pace, che anche se dettava severe condizioni, Atene riuscì a conservare una propria modesta autonomia e il possesso del territorio attico con Salamina. Dovette però rinunciare a tutti i suoi possedimenti esterni, abbattere le lunghe muraglie e le fortificazioni del Pireo, consegnare le sue navi da guerra, infine entrare a far parte della confederazione spartana.
Gli Ateniesi che da mesi stavano morendo di fame, furono costretti ad accettare tutte le dure condizioni.
Lisandro nell'aprile del 404 a.C., entrando da trionfatore nel Pireo, coronò la sua nota ambizione nel vedere smantellare le fortificazione del Pireo, che fu fatta fra il suono dei vari strumenti musicali. Per gli Spartani una festa, per gli Ateniese una marcia funebre.
Così finì la guerra Peloponnesiaca.
La sola Samo resistette invano ancora per qualche mese; poi Lisandro la tenne bloccata alcuni mesi fin quando si arrese. Tutte le altre piccole o grandi città e le isole, informate del fato di Atene, volontariamente aprirono le porte e i porti ai vincitori
Atene prostrata, ridotta a una così misera condizione mai provata da quando essa esisteva, non potendo reagire, si abbandonò alla discrezione dei propri nemici. Più nulla di peggio poteva ormai accadere.
Tuttavia una gran parte delle classi abbienti e principalmente gli esiliati reduci precipitatisi in patria, guidati da Trisibulo, credevano giunto il momento di abolire la democrazia dominante; ma essi non erano abbastanza forti per riuscire a compiere in contrasto col popolo il mutamento di costituzione. Invitarono quindi Lisandro ad intervenire, convinti che avrebbero ricevuto dei benefici e le nuove cariche di un governo oligarchico.
Lisandro dopo l'appello ad Atene giunse, ma maneggiò ogni cosa a piacer suo. Obbligò la città ad abolire la democrazia, ma stabilì trenta suoi Arconti, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; uomini interamente devoti ai suoi interessi perchè gran parte erano sue proprie creature. (Dagli storici sono stati distinti giustamente col nome "dei trenta Tiranni").
Lisandro acquisita una specie di sovranità su tutte le città, al colmo della sua gloria, pensò di ritornarsene a Sparta a godersi i frutti del successo. Si fece precedere da Gilippo con tutto l'oro e l'argento da lui raccolto nelle sue imprese. Ma si narra che Gilippo avido e venale nell'assolvere questo compito, lungo il tragitto, aprendo i preziosi sacchi asportò quasi un quinto dell'intero contenuto. Scoperta la sua slealtà, per evitare il cartigo e una severa pena, ebbe comunque il tempo per fuggire. Ma Sparta venuta a sapere che si voleva introdurre in città quei metalli (dai tempi di Licurgo banditi), biasimò altamente Lisandro perchè introduceva ciò che era sempre divenuto il veleno e la corruttela degli Stati e del genere umano. Gli Efori ordinarono che i metalli rimanessero fuori dalla città, ribadendo che l'unica moneta in metallo che doveva circolare a Sparta era quella solita, di ferro. I due preziosi metalli non furono banditi, perchè gli amici di Lisandro si opposero; tuttavia dopo averli requisiti, finirono nel pubblico tesoro per essere solennemente in futuro impiegato solo dallo Stato.
Lisandro invece di godersi il suo tesoro, rientrato in patria, dovette accontentarsi solo delle adulazioni; gli eressero anche degli altari e dei monumenti; e vanitoso com'era ordinò che le sue statue dovevano essere fatte non in pietra ma fuse in rame. Conoscendo la sua vanità, i migliori poeti non si risparmiarono nel servilismo, ed usarono tutto il proprio talento per celebrare le sue lodi.
Ma se a Sparta si celebravano i successi - con gli spartani che finita così la guerra ora erano divenuti il primo popolo della Grecia - per Atene iniziava il giogo spartano; che riuscì a scrollarsi di dosso solo dopo trent'anni. Tali furono i tempi di reazione.
Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania. Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco, Plinio
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECA
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1 - Sei
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI