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GRECIA - STORIA

* L'ETA' DI PERICLE - (460-429 a.C.)

Lo rimproveravano che spendeva troppi denari per le monumentali costruzioni -
"Userò allora i miei denari, però com'è giusto, metterò nei monumenti la mia firma, non quella di Atene".
(Per il Partenone e tante altre opere non ebbe bisogno di mettere la firma).

LA CULTURA, L'ARTE, LA VITA ATENIESE

 

Prima di arrivare al grande conflitto "civile" che prese poi nome di Guerra Peloponnesiaca
che porterà lentamente alla rovina la Grecia, soffermiamoci al periodo dell'illuminato governo di Pericle. Un governo che favorì lo sviluppo di una cultura che sarà esemplare nei secoli; quando Atene visse la sua età più gloriosa.
Abbiamo visto nella precedente puntata, che dopo Temistocle e Cimone, sulla scena politica ateniese era emersa la figura di Pericle. Poi con la pace di Callia (449), fu Pericle a completare la democratizzazione dello stato ateniese che, con lui, raggiunse la massima potenza.

Ma oltre alla potenza, uno dei principali intenti di Pericle fu di incivilire gli animi degli Ateniesi ed educarli al culto del bello; per raggiungerlo, favorì tutti gli ingegni che allora fiorivano in patria, e fece in breve tempo di Atene la città più bella della Grecia, la più ricca di monumenti. Fu anche rimproverata questa sua prodigalità per questo suo "mal della pietra", accusandolo di favorire oltre che gli artisti, scultori e architetti, anche le cortigiane (la celebre Aspasia, era infatti sua amante), e così di esaurire il tesoro. Ma il sentimento della vera gloria soffocò i rimproveri meschini.
In Atene, nell'"Età di Pericle" si manifestò un'attività intellettuale, una gara per il bello e per il grande, in tutte le loro forme, un'abilità in tutte le imprese, che non ha forse riscontro in nessuna altra epoca storica; fu insomma il secolo d'oro dell'arte antica. Ciò che ci è stato tramandato ne è la palese testimonianza.

Purtroppo proprio parallelamente alla meravigliosa "Età di Pericle" il tipo morale scompare: ciascuno mira soltanto ai propri interessi individuali. L'energia e l'attività eccitate dalle vittorie nelle guerre persiane, la flotta creata e mantenuta unicamente per queste guerre e la lega creata pure a questo scopo, erano altrettanti impulsi per il commercio, e fonti di ricchezza; ma nello stesso tempo vi erano fomiti di cupidigia e di ambizioni favorite dalla forza di cui molti si trovavano a disporre. E queste furono le cause della nuova guerra: la guerra del Peloponneso. A quest conflitto ci arriveremo con la prossima puntata, mentre in queste pagine parliamo solo del periodo d'oro.

Il mezzo secolo che seguì all'invasione persiana é stato in complesso per il mondo greco un periodo di pace; ne fu conseguenza uno sviluppo economico senza l'uguale. Specialmente Atene, in grazia della sua posizione predominante sul mare, salì straordinariamente in fiore; il porto costruito da Temistocle, il Pireo, nel corso di pochi anni divenne il centro del commercio mondiale, dove scaricavano le loro mercanzie navi provenienti da ogni parte del Mediterraneo e si poteva trovare tutto ciò che produceva l'Oriente e l'Occidente. Favorita da questo movimento commerciale, anche l'industria ateniese assunse uno splendido sviluppo; le braccia che poteva fornire il paese stesso ben presto non bastarono ai bisogni e fu necessario importare dai paesi barbari transmarini grandi masse di schiavi per adibirle al lavoro. Similmente l'industria si sviluppò nelle vicine città di Megara, Egina, Corinto; verso l'epoca della guerra del Peloponneso in queste città ed in Atene la popolazione servile sarà stata all'incirca uguale per numero alla popolazione libera, se pure non la superò alquanto. Così l'uso del lavoro servile, che sinora era rimasto limitato alla Jonia, cominciò ad espandersi anche nella madre-patria greca, da principio peraltro soltanto nella regione industriale intorno al golfo saronico, mentre nel resto della penisola ellenica rimase tuttora assolutamente prevalente il lavoro libero o quello dei semi-liberi, come nella Laconia ed in Tessalia.

Naturalmente anche numerosi immigranti di condizione libera affluirono verso questi centri industriali e vi furono accolti a braccia aperte, benché di regola sia stato loro negato il diritto di cittadinanza. Specialmente ad Atene questi stranieri domiciliati (meteci) costituirono ben presto una porzione assai considerevole della popolazione ; vi erano rappresentati Greci d'ogni regione, ma anche Lidii, Fenici ed Egiziani, e molti di essi riuscirono ad accumulare notevoli ricchezze e quindi una posizione sociale autorevole.
Tutto ciò produsse un rapido aumento della popolazione della città. Atene al tempo dei Pisistratidi poteva a mala pena contare 20.000 abitanti ; un secolo dopo, compresi i porti e i sobborghi, era divenuta una città di più di 100.000 abitanti. Essa era ora la massima fra le città greche, cui forse poteva stare a paragone soltanto Siracusa, che sotto il governo di Gelone e di Gerone era del pari assurta al grado di grande città (alcuni narrano che vi erano poco meno di 500.000 abitanti). Occupava il terzo posto fra le città greche Corinto; dopo di essa venivano, nella madre-patria, Sparta, Argo e Tebe, e nell'Occidente Acraga e Crotone, mentre le città greche dell'Asia Minore in parte non si riebbero mai più dal colpo subìto in conseguenza dell'insurrezione contro Dario, come Mileto, ed in parte non furono in scarsa misura in grado di seguire il movimento economico ascendente, perché lo stato di guerra in cui si trovarono con la Persia le isolò dai paesi interni posti alle proprie spalle.

Già a tempo delle guerre persiane la Grecia aveva dovuto importare grano dall'estero; ora poi l'agricoltura interna non era in grado di sopperire al fabbisogno della popolazione crescente. E difatti le città industriali studiarono in tutti i modi di favorire l'importazione e di tener bassi i prezzi, sopra tutto Atene che, signora com'era del mare, si trovò posta in condizione di assicurare al suo porto del Pireo una specie di monopolio del commercio granario. I paesi che provvedevano di grano il mercato greco erano in prima linea le fertili pianure a nord del Ponto, poi la Sicilia e l'Egitto. L'importazione di grano al Pireo alla metà del IV secolo é fatta salire ad 800.000 medimni (circa 150.000 quintali) ; e siccome Atene prima della guerra del Peloponneso non aveva meno abitanti che un secolo dopo, la somma delle importazioni non può essere stata allora inferiore.
È coerente alla posizione dominante di Atene nell'economia sociale ellenica il fatto che ora i suoi tetradrammi divennero in tutto l'àmbito del Mare Egeo la moneta corrente prevalente; essi erano accettati ovunque ben volentieri, perché la zecca attica poneva la massima cura ad emettere moneta di esatto peso e giusta proporzione di argento fino. Anche Siracusa e la maggior parte delle altre città siciliane, quando verso il principio del V secolo cominciarono a coniar moneta, accolsero la valuta attica. Invece gli Stati del continente greco seguirono quasi senza eccezione il tipo monetario di Egina; la sola Sparta, coerentemente al suo spirito conservatore, continuò a mantenere anche ora la sua antica (e spartana) moneta di ferro. Monete d'oro gli Stati della Grecia europea, non esclusa Atene, non ne coniarono in questa epoca quasi per niente; é vero che circolava molto oro in commercio, ma si trattava press'a poco esclusivamente di darici persiani e di stateri d'electron ciziceni.

L'aumentato movimento del denaro provocò lo svolgersi dell'attività che diremmo noi "bancaria". Questo sviluppo prese le mosse dai forzieri dei templi, che in parte disponevano di considerevoli capitali e naturalmente cercarono di impiegarli vantaggiosamente; Stati e privati deponevano nei templi il loro denaro, perché la santità del luogo gli garantiva una sicurezza quale non si sarebbe potuta conseguire altrove. Ben presto sorsero oltre ai templi vere e proprie banche private, specialmente ad Atene, che anche in questo campo divenne la città dominante.
Ma, nonostante il forte aumento del denaro circolante il tasso delle usure rimase alto, perché l'industria sempre più fiorente aveva bisogno di notevoli capitali; a meno del 10-12 % non si poteva avere denaro, anche con le migliori garanzie; nei prestiti cui andava unito un forte rischio, come ad es. nel prestito marittimo, l'interesse saliva al doppio e anche al triplo. Un tasso di usure così elevato presuppone che l'industria ed il commercio arrechino profitti molto alti, cosa che era allora possibile soltanto in grazia dell'uso del lavoro servile, che permetteva al capitale dì sfruttare senza misericordia il lavoro.
I prezzi degli schiavi si mantenevano bassi, perché si poteva averne quanti se ne voleva dai paesi barbari, in particolare dall'Asia Minore e dalla Tracia, né vi era migliore impiego di capitale che quello di comprare schiavi e adoperarli in imprese industriali. Conseguenza naturale di ciò fu che il salario del lavoro libero scese ad un tasso assai modesto. Per il lavoro che non esigeva abilità tecniche esso era ad Atene di circa due oboli; per tre oboli si potevano reclutare nelle isole quanti rematori si desideravano, eppure non vi era forse lavoro più duro di quello del remo a bordo d'una galera.
Gli operai forniti d'attitudini tecniche erano naturalmente pagati meglio, ad Atene circa una dracma (tre volte di più che un rematore, circa 10 oboli) al giorno, e press'a poco uguale era l'onorario del lavoro intellettuale, se questo era di tal natura che poteva esser prestato da coloro che avevano qualche istruzione.

Siccome predominava assolutamente la piccola e media industria, molti erano coloro che pervenivano ad un certo benessere materiale, ma relativamente pochi quelli che arrivavano ad ammassare grandi ricchezze. Lo stesso si può dire per il commercio di banca; Pasione, il primo fra tutti i banchieri ateniesi, il « Rotschild greco», anche lui non lasciò, che un patrimonio di 50-60 talenti. Eppure con questo patrimonio faceva di lui l'uomo più ricco di Atene, se si pensa che qui prima della guerra del Peloponneso era ritenuto già notevole un patrimonio di 8-10 talenti. (che equivaleva tuttavia a circa 3750 quintali di grano)
Anche la proprietà fondiaria era molto suddivisa nell'Attica, tanto che persino famiglie nobili fra le maggiori assai di rado possedevano più di 30 ettari di terra all'incirca. Analogo era lo stato delle cose che regnava nella maggior parte degli altri Stati greci. Invece nella Laconia, nella Tessalia ed in Macedonia predominava la grande proprietà fondiaria, e per conseguenza in queste regioni vi eran molte famiglie che possedevano patrimoni veramente principeschi, ed prima di tutte le famiglie reali spartane.

Con tutto ciò tuttavia non dobbiamo dimenticare che il prezzo della vita era allora assai più basso, ad es. ad Atene sul passaggio dal V al IV secolo il frumento costava molto poco, soltanto la 375ma parte di un talento al quintale, mentre il capitale fruttava un reddito all'incirca triplo di quello odierno. Oltre a ciò il Greco aveva sul confort della vita pretese molto minori delle nostre. Le case private erano senza eccezione piccole e di modesta apparenza, il loro arredamento povero, e lo stesso lusso nelle vesti che aveva altre volte dominato, al tempo del governo aristocratico, aveva sotto l'influenza della corrente democratica ceduto il posto ad una semplicità di abbigliamento, il mantello di porpora e le stoffe riccamente lavorate erano stati sostituiti da vesti di tessuto di lana bianca.
Anche a tavola il Greco era in generale molto sobrio; soltanto nei banchetti e nei festini che li seguivano si faceva gran lusso di pesci, la passione del buongustaio attico, di vini esotici e di aromi preziosi; naturalmente le suonatrici di flauto erano immancabili per accompagnare il canto dei convitati. Invece il personale di servizio nelle buone famiglie era molto numeroso; era un vezzo, anche per gli uomini, di farsi accompagnare fuori di casa da un servo, e le signore ad Atene ed in altre grandi città non comparivano in strada se non accompagnate da un seguito di ancelle. Peraltro il basso prezzo degli schiavi rendeva relativamente facile soddisfare questa specie di lusso servile.

Vero è che i sacrifici che si esigevano dai cittadini per scopi di ragion pubblica erano gravi. Erano da un pezzo passati i tempi in cui alle spese dell'amministrazione sopperivano i redditi dei beni della corona; come la tirannide, così la democrazia non potè fare a meno di imposte. In contrapposto caratteristico alla nostra moderna democrazia che non vede salvezza se non nella tassazione diretta, l'economia dello Stato era in tempo di pace basata soltanto sopra un sistema di imposte indirette, come dazi e tasse di mercato, e sulla percezione di diritti o balzelli, mentre per principio non si ricorreva alla esazione di imposte dirette che in tempo di guerra; in questo caso peraltro, a cagione dell'assai limitato credito dello Stato, lo si faceva spesso in misura oppressiva.
In compenso però dell'assenza di imposte dirette i cittadini benestanti in tempo di pace erano tenuti ad onerose prestazioni personali (così dette liturgie), specialmente per metter su i cori che dovevano agire nelle feste celebrate dallo Stato. Si aggiungeva poi in tempo di guerra là «trierarchia» vale a dire l'obbligo di armare una nave da guerra e mantenerla in buono stato durante il tempo in cui prestava servizio; in compenso la persona obbligata a tale prestazione spettava l'onore di comandare la nave. Le spese inerenti a quest'obbligo eran tanto considerevoli che, se la prestazione si ripeteva con una certa frequenza, anche un uomo fornito di un buon patrimonio poteva esserne ridotto alla miseria.

Fra le spese normali dello Stato occupavano tuttora il primo posto quelle richieste dal culto. Anche in quest'epoca gli Stati greci riposero il loro orgoglio nel manifestare la propria gratitudine agli Dei tutelari della cosa pubblica mediante l'erezione di templi sontuosi, ed il progresso economico nazionale offrì il mezzo di far ciò con tale splendore da lasciarsi addietro di molto tutto ciò che di simile era stato fatto fino allora. Così la vittoria di Imera porse l'occasione ad una fioritura di templi in Sicilia; col denaro ricavato dal bottino Gerone eresse presso Siracusa un sontuoso santuario alle dee tutelari dell'isola, Demetra e Core, e ad Acraga sorse appunto allora quella splendida serie di templi, le cui rovine ancora oggi ci mettono in grado di comprendere come Pindaro potesse celebrare quella città come « la più bella di tutte le città dei mortali ».
All'incirca verso la stessa epoca gli Elei cominciarono a costruire nel bosco sacro di Olimpia il grandioso tempio di Zeus, che fu poi portato a compimento nel 460. Atene, i cui templi erano stati per la massima parte distrutti dai Persiani, non potè nei primi decenni che seguirono la sua vittoria attendere alla loro ricostruzione perché la fortificazione della città e del porto e le spese della guerra persiana impegnarono tutte le risorse dello Stato. A quest'opera si pose mano soltanto nel periodo di pace successivo sotto il governo di Pericle. Ed allora venne eretto dall'architetto Ictino sull'Acropoli un nuovo tempio alla dea tutelare della città, Atena, il « Partenone», che per la bellezza delle sue proporzioni si lasciò dietro tutto ciò che l'architettura aveva saputo prima creare (447-432). La via che sale all'acropoli fu adornata dall'architetto Mnesicle con una sontuosa porta a colonne, i propilei (437-432).

Un po' più tardi fu ricostruito nell'elegantissimo stile ionico l'antico tempio di Erecteo ed Atena, il santuario più venerato di Atene. Nella città bassa sorse verso quest'epoca a piedi dell'acropoli quel tempio che noi sogliamo chiamare il Teseion, e che probabilmente era dedicato ad Efesto; l'unico tempio greco che è rimasto in piedi quasi intatto che possiamo ammirare ancora oggi in tutta la sua grandiosità.


Ad Eleusi fu sotto Pericle ricostruito a nuovo il tempio dei misteri e considerevolmente ampliato. Sul capo Sunio, la punta meridionale dell'Attica, sorse verso la stessa epoca quel tempio di Posidone le cui colonne anche oggi dominano da ogni parte una vasta distesa di mare.
La fama di queste opere architettoniche invase ben presto tutta l'Ellade e gli architetti attici ricevettero commissioni anche di fuori. Così Ictino, il creatore del Partenone, edificò un tempio ad Apollo presso Figalia in Arcadia, il quale, grazie alla sua posizione isolata ha sfidato fino ad oggi tutti gli assalti del tempo.
Verso la stesa epoca un incendio distrusse l'antico e venerato tempio di Era presso Micene (423), che fu poi ricostruito più grande e più sontuoso dall'architetto Eupolemo.

Questi tuttavia non sono che i più famosi fra i templi allora edificati; e dobbiamo tener presente che per l'erezione di un grande tempio come il Partenone occorreva una spesa di circa 3300 talenti e che le sole opere compiute da Pericle nel periodo quinquennale compreso fra il 437 ed il 432 richiesero una somma di circa 20.000 talenti. Che equivalevano a circa 7.500.000 di quintali di grano ( corrispondenti a circa 10 volte il fabbisogno annuale di grano della sola Atene).
Pericle riempì Atene di ornamenti che furono la meraviglia degli stranieri, e ovviamente ispirarono loro un'alta idea del genio e del potere. Atene prese un nuovo aspetto. Le magnificenze occuparono il luogo della sua primaria semplicità. Tutto ciò che veniva fatto non solo era grande ma era di una incredibile bellezza.
Pericle con una giudiziosa distribuzione di premi, eccitò lo spirito di emulazione di grandi artisti.
Ma molti, critici cittadini, innanzitutto degli stati collegati, videro chiaramente in questa superba magnificenza la corruzione dei costumi. Pericle secondo Cicerone, fu biasimato da quei critici come colui che aveva esaurito il pubblico denaro per riempire la Città di superflui abbellimenti. Infatti, questi suoi nemici si lagnavano che impiegava in modo insensato fondi che dovevano essere invece conservati per i bisogni della guerra.
Pericle a questi attacchi dall'esterno rispondeva che per quelle spese gli Ateniesi non dovevano giustificare a loro proprio nulla, e che i collegati dovevano essere più che soddisfatti di ricevere quella protezione che impediva le irruzioni di barbari. E che forse erano solo gelosi delle opere che Atene si dotava.
Ma di critici ne aveva anche in casa, nella stessa Atene, come Tucidede. A questi lui rispondeva, che i lavori davano impiego e sussistenza ad un gran numero di cittadini. Che erano insomma soldi spesi bene, e che le stesse spese producevano un nutrito indotto nelle altre attività.
Giunse perfino a dire "Userò allora i miei denari, però com'è giusto, metterò nei monumenti la mia firma, non quella di Atene".

Se l'architettura trovò in queste costruzioni un ricco campo di esplicazione della propria virtù, non lo trovò meno l'arte sorella, la scultura, per la decorazione plastica dei templi e per l'esecuzione degli innumerevoli doni votivi che in ogni occasione erano offerti agli Dei dagli Stati e dai privati. Salì al primo posto, verso l'epoca delle guerre persiane, la scuola di scultura dell'Argolide, che si prodigò soprattutto alla fusione in bronzo, un'arte in quella regione tradizionale fin dall'antico. I suoi più famosi maestri sono Agelaida di Argo, Canaco di Sicione, Onata di Egina, che lavorarono per tutti i paesi del mondo greco, dalla Jonia all'Italia. Ci è rimasto tuttora un capolavoro di questa scuola: i gruppi in bronzo che decoravano il frontone del tempio di Afea ad Egina e che ora sono il più bell'ornamento della gipsoteca di Monaco. Essi ci rivelano negli artisti il possesso di ricche cognizioni anatomiche e di una progredita capacità nel riprodurre il corpo umano, ma ce li fan vedere ancora in lotta con la rigidità della forma e sopra tutto ancora incapaci di dare alle facce una espressione vivente.
Ad Atene fiorirono verso quest'epoca Crizia e Nesiote, i creatori del gruppo dei tirannicidi, eretto poco dopo la vittoria di Platea sulla piazza di Atene. L'originale in bronzo è da lungo tempo distrutto; in compenso il museo di Napoli ne possiede una bellissima riproduzione in marmo che ci rende possibile ancora di ammirare l'opera. È questo il più antico gruppo di composizione veramente plastica che ci sia pervenuto. Nel resto il carattere dell'arte - nè diversamente può essere - è molto affine alla maniera degli Eginati; una certa mitigazione della durezza della forma può darsi che abbia a mettersi a conto dei copisti. Sembra che una maggior grazia abbia dato alle sue opere Calamis, la cui Sosandra godette di gran fama nell'antichità; ma è per noi un nome soltanto, al pari del suo autore. Il reggiano Pitagora, che modellò specialmente statue di atleti, è da un antico storiografo dell'arte vantato come il primo che si sia studiato di introdurre nelle sue opere ritmo e simmetria; ma anche della sua, maniera ci mancano tuttora esemplari concreti.
Se non che la fama di questi artisti venne di gran lunga oscurata da quella del Ioro contemporaneo Mirone, originario della piccola città di Eleutere sul confine fra l'Attica e la Beozia, il primo della serie dei grandi maestri classici della plastica greca (verso il 450). Egli fu il primo che sia stato capace di riprodurre ín modo che avesse vita la figura umana isolata, atteggiata a movimento. Nessuna delle sue numerose opere
rivelò questa sua maestria in misura così splendida come la statua del "discobolo", la cui miglior copia è quella che esiste a Roma nel palazzo Massimi.

Fama non minore ebbero nell'antichità la sua statua del corridore Lada, di cui non ci è arrivata alcuna imitazione, e le sue riproduzioni di figure d'animali, specialmente il bronzo raffigurante una giovenca che fu decantato in innumerevoli epigrammi.
Ma anche Mirone venne superato da uno più grande di lui, dal suo contemporaneo e concittadino (giacchè Eleutere politicamente apparteneva all'Attica), l'ateniese Fidia. Già presso i suoi contemporanei egli ebbe il nome di "primo maestro della plastica", ed i millenni che da allora sono trascorsi non sono valsi a scuotere questa fama. Legato d'intima amicizia con Pericle, gli fu consigliere in tutto ciò che egli fece; a lui toccarono le massime commissioni d'opere d'arte dell'epoca, la statua colossale di Zeus per il tempio di Olimpia e la statua colossale di Atena per il Partenone. Esse avevano la scopo di presentare agli occhi dello spettatore la divinità in tutta la sua maestà sovrumana e perciò erano fatte di materiale preziosissimo; il viso e le altre parti scoperte del corpo di avorio, le vesti e gli altri accessori d'oro.

Dell'impressione che simili opere nella penombra delle nicchie dei templi devono aver suscitato negli spettatori possono darci una pallida idea i mosaici su fondo d'oro delle chiese cristiane più antiche e delle chiese bizantine. Chi entrava nel tempio di Olimpia credeva di vedere il padre degli Dei quale era stato dipinto da Omero, placido e benevolo, in tutta la sua sublime grandezza, e si sentiva trasportato in regioni più alte così da dimenticare le cure e le calamità della vita. Di fronte ad una creazione simile ogni tentativo di imitazione non poteva non riuscir vano, e perciò noi non abbiamo mezzo di farci un concetto sufficientemente, concreto di questa opera massima del grande scultore.

Non del tutto alla pari di questa fu la statua di Pallade virginale; in questo caso Fidia dovette fare al tipo tradizionale dell'immagine sacra concessioni maggiori dell'opportuno a discapito dell'effetto artistico. Di questa statua ci sono pervenute delle copie, ma esse sono troppo piccole per permettere di formarci un giudizio proprio sul merito dell'originale. Di modo che per rilevare il carattere dell'arte dí Fidia non ci restano che le sculture decorative del Partenone, che peraltro furono bensì fatte sotto la direzione del maestro, ma non sono state eseguite dalla sua mano. Ma esse sono più che sufficienti per constatare il progresso che la plastica deve al genio di Fidia; dalla durezza delle linee dell'arte arcaica noi ci troviamo d'un tratto trasportati nel mondo della perfetta bellezza.

Gli ateniesi con Fidia furono però ingrati. Si narra che il grande artista fosse assai superbo per la sua abilità, e che nello scolpire la colossale statua della dea Minerva richiesta da Pericle (era alta 39 piedi, e l'oro impiegato ascendeva a 40 talenti) che scolpisse la sua effige nel viso della della Dea, mentre quella di Pericle la disegnò sullo scudo. Per questa imprudenza e perchè fu accusato di aver sottratto nell'eseguire la statua di Atene una parte del prezioso materiale affidatogli, fu bandito da Atene e Fidia si ritirò in Elide. Decise a vendicarsi dell'affronto fattogli dai suo concittadini, facendo un'altra statua che oscurasse tutti i pregi della Dea Minerva di Atene. Mantenne la parola producendo il suo Giove alto 60 piedi, stimato il capolavoro uscito dalle sue mani. Stupendi i bassorilievi, trentasette figure ornavano la colossale statua. La testa di questo Giove su sempre stimata come la cosa più perfetta dell'arte. Il popolo dell'Elide si autotassò per dare a lui e ai suoi discendenti un assegnamento e perchè ci si prendesse cura di quella che fu poi reputata una delle sette meraviglie del mondo.
Tuttavia Fidia morì in prigionia durante l'inchiesta prima ancora che il processo venisse dinanzi ai giudici.
Il colpo più che a lui era diretto contro Pericle, al quale era toccata la sorveglianza in occasione della erezione della statua. Ma era chiaro che prossimamente sarebbe venuto il suo turno.

Il terzo fra i grandi scultori di quest'epoca è Policlito di Argo. Egli appartiene alla scuola della sua patria, ma ha superato i difetti dell'arcaismo al pari di Fidia. Policlito era un artista metodico dalla tecnica rigorosa che dava la massima importanza alla perfetta armonia delle proporzioni, e di questa tecnica egli ha lasciato un modello molto ammirato nel suo portatore di lancia (« doriforo »). Ma anche i suoi capolavori massimi riguardano le statue degli Dei. Egli ebbe incarico, dopo l'incendio del tempio di Era (423), di modellare la statua della dea per il nuovo tempio. Si trattò di una statua colossale in oro ed avorio, che fece degno riscontro alla statua di Zeus olimpico di Fidia, anzi a giudiziodi molti intenditori Policlito avrebbe superato il suo modello. Ma, quand'anche la palma debba rimanere a Fidia, basta a Policlito la gloria di essere segnalato accanto a lui.

Né la pittura si dimostrò da meno della plastica. Mentre sinora essa aveva servito a scopi decorativi, in quest'epoca le vicende grandiose delle guerre persiane evocarono in vita la grande e monumentale pittura parietale. Essa ebbe il suo primo maestro nell'Ateniese Micone, che fu pure stimato come scultore. Egli, poco dopo il 470, ornò il tempio di Teseo in Atene con pitture a soggetti tratti dalle leggende degli eroi, il tempio dei Dioscuri con una scena desunta dal mito degli Argonauti e il «portico variopinto » eretto dal cognato di Cimone, Pisianace, sul mercato con un combattimento di amazzoni.

Con lui fiori il fratello di Fidia, Paneno, che eseguì nel portico un famoso dipinto della battaglia di Maratona. Ambedue peraltro vennero di gran lunga superati da Polignoto di Taso, che esercitò del pari la sua arte in Atene dove godette della stretta amicizia di Cimone; egli dipinse qui nel portico un affresco rappresentante la distruzione di Ilio. Ma le sue creazioni più celebrate furono due grandi affreschi a Delfo, nel portico dei Cnidi; (verso il 450) la distruzione di Troia e il Tartaro secondo la descrizione di Omero. Anch'egli dipinse alla maniera antica, con pochi colori, senza prospettiva; ma probabilmente nelle sue opere le figure si trovavano già ordinate a gruppi. Il profondo effetto pertanto che questi dipinti produssero sugli spettatori era dovuto esclusivamente al disegno, all'etos che il pittore aveva saputo imprimere alle sue figure e che nessuno dei pittori successivi fu più capace di eguagliare, per quanto abbiano potuto essere superiori a Polignoto per la tecnica.

Con Polignoto si chiude il periodo arcaico della pittura greca; e poco dopo, l'epoca in cui fiorì Apollodoro d'Atene, fece quella scoperta che segna una nuova era per la pittura e trasformò dalle fondamenta quest'arte, valendo al suo autore il nome onorifico di «pittore delle ombre », la scoperta cioè della terza dimensione del piano della figura. Ora per la prima volta infatti divenne possibile ottenere nei dipinti l'illusione della realtà. La nuova maniera d'arte trovò immediatamente il suo primo grande maestro in Zeusi da Eraclea che lavorò in Atene a tempo della guerra del Peloponneso. Il sua quadro più famoso fu forse l'Elena; era la prima volta che un artista riusciva a riprodurre lo splendore della bellezza femminile tentando di darle l'espressione della realtà, e infatti il quadro ebbe sugli spettatori l'effetto come di una rivelazione di un nuova mondo. Ma quella donna non era greca ma una giovane della Calabria; anzi da cinque giovani.
Il quadro infatti gli era stato ordinato dagli abitanti di Crotone, e siccome l'artista si espresse che era impossibile condurla alla perfezione senza un modello, essi gli spedirono le proprie ragazze reputate le più belle di Crotone. Zeusi dopo averle esaminate nude, ne trattenne solamente cinque, e da ognuna prese qualcosa: l'eleganza, la grazia, le forme, lo sguardo, l'anima, e nella sua mente concepì la donna più perfetta del mondo, e quindi il suo abilissimo pennello, la portò in effetto.
(Cic. de Inv, 2,c.1 - Plut. in Par.ec. - Quintil.)

Si narra che l'affluenza di persone desiderose di vedere il quadro fu tale che il pittore fu costretto a mettere una tassa di ingresso, e pare abbia fatto assai buoni affari. Dato ciò, si comprende come i suoi quadri abbiano raggiunto prezzi molto elevati; così ad esempio si dice che il re Archelao di Macedonia gli diede un onorario di 50.000 lire per l'esecuzione degli affreschi del suo palazzo.
Ma vi è da dire che Zeusi era così tanto estimatore di se stesso, che spesso rifiutò di vendere le sue opere, assserendo che nessuna somma di denaro, benché grande, era sufficiente per pagarle.

Con Zeusi fiorì il suo contemporaneo Parrasio da Efeso. Anch'egli lavorò ad Atene, per la quale dipinse un famosissimo quadro dell'eroe nazionale Teseo. In generale egli attinse i suoi soggetti esclusivamente dal ciclo degli Dei e degli eroi. Contemporanei e posteri tributarono anche a lui un notevole apprezzamento; si disputò se la palma nella pittura spettasse a lui ovvero al suo ardente emulo: Zeusi. Data la completa perdita delle creazioni della pittura greca, non siamo in grado di formarci un giudizio proprio. Ma ci resta questo aneddoto: "Una volta fu convenuto che per scandagliare il loro merito si esponesse di ognuno un'opera. Seusi porto un quadro con un uomo che aveva nelle mani un cesto pieno d'uva, così realistico che gli uccelli andarono a beccarla; Parrasio invece porto un quadro coperto apparentemente da un drappo di stoffa disposta come una tendina. All'esame dei due quadri, Zeusi disse : "Ma tirate via la tendina perché si possa noi vedere la pittura". Questa tendina era la stessa pittura. Zeusi conoscendosi vinto esclamò "Zeusi ha ingannato gli uccelli, ma Parrasio ha ingannato lo stesso Zeusi".
Parrasio senza dubbio superò Zeusi, ma poi si montò la testa; iniziò a vestirsi di porpora; si metteva un diadema aureo sul capo; si nominò lui stesso il re dei pittori, anche se veniva deriso dai suoi nemici.

Come le arti figurative, così anche la musica e la poesia in quest'epoca rimasero tuttora sostanzialmente al servizio del culto; esse trovarono un ricco campo per esplicare la loro attività nelle feste che si celebravano con sempre crescente splendore in onore degli Dei. In questa materia erano naturalmente avanti a tutte le grandi città Siracusa e Atene, giacché nessun'altra città possedeva mezzi altrettanto ricchi da destinare a simili scopi. A Siracusa la tirannide dopo la vittoria di Imera dedicò cure assidue a promuovere l'incremento della vita intellettuale; Gerone chiamò alla sua corte i più grandi poeti dell'epoca, Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo, che misero in scena le loro opere sul teatro della città.
Accanto ad essi fiorì un poeta indigeno di pari valore, Epicarmo, il quale, nato a Megara di Sicilia, dopo la distruzione di questa città ad opera di Gelone, giunse ancor giovane a Siracusa e qui trovò nel movimento della grande città la spinta e l'incitamento alla produzione drammatica. Egli attinse i suoi soggetti dalla vita che lo circondava; talora li presentò sotto la forma esteriore di una parodia del mito degli Dei. E in tal modo egli divenne il fondatore della commedia. Egli prese pure vivo interesse al movimento intellettuale dell'epoca e spesso, così nel dramma come nella commedia, trattò problemi filosofici sul teatro. La grandissima considerazione ch'egli godette presso i contemporanei ed i posteri - Platone lo colloca addirittura immediatamente dopo Omero - pone fuori di dubbio ch'egli fu tra le più eminenti personalità della letteratura greca; a noi peraltro non son pervenuti di lui che pochi frammenti, i quali, se ci danno una idea della ricchezza di pensiero delle sue produzioni teatrali, non ci consentono una visione complessiva della struttura delle sue opere e del modo come eran composte.

Ma il fiorente sviluppo dell'arte poetica non sopravvisse a lungo in Siracusa alla caduta della tirannide ed al tramonto della posizione dominante della città che la accompagnò. La tragedia attica non giunse a metter qui salde radici e lo stesso Epicarmo, se vi lasciò una scuola, non ebbe un successore che potesse stargli alla pari. La commedia decadde cedendo il posto al mimo, scene della vita popolare presentate sotto forma di dialogo, in prosa; un genere questo nel quale Sofrone, verso l'epoca della guerra del Peloponneso, arrecò notevoli contributi. Altrettanto maggiore fu lo splendore cui giunse la poesia ad Atene. Qui sin verso la metà del secolo Eschilo regnò assoluto padrone della scena ; ma poi si vide sempre più sottratto il favore del pubblico dalla concorrenza di giovani ingegni sorgenti. Nelle grandi dionisie della primavera del 468 egli perse la gara contro Sofocle (496-406) che rese più intensa e varia l'azione scenica, in Eschilo ancora assai povera, e fece minor posto alle parti liriche, per quanto grande fosse la bellezza di cui egli seppe rivestire i suoi cori. Nessuno lo ha mai superato nell'arte di preparare, annodare l'intreccio del dramma e scioglierlo senza ricorrere a mezzi violenti.
Certo in lui invano cerchiamo l'elevatezza di pensiero che si riscontra in Eschilo; quelli che egli porta sulla scena sono uomini, non più eroi; ma sono figure di uomini stilizzate ed artificiali, tipi senza vera e propria individualità, simili a quelli che modellava la plastica del suo tempo. È perciò che i contrasti che si agitano in questi drammi, malgrado tutta la perfezione artistica del complesso delle opere, non hanno la forza di commuoverci veramente. Ma Sofocle diede ciò che ì suoi contemporanei desideravano ; le sue tragedie sono l'apoteosi poetica dell'Atene dei tempi di Pericle, come le opere di Ictino, Polignoto e Fidia ne sono l'apoteosi artistica. Finché egli visse nessuno poté rivaleggiare con lui sul teatro attico.

E pure questa l'epoca ricca di una folta schiera di talenti drammatici. Inoltre non furono più i soli Ateniesi a produrre per la scena della loro città; il teatro di Atene assurse ad importanza nazionale e cominciarono ad entrarvi in gara poeti d'altre città, come Jone da Chio, Acheo da Eretria, Neofrone da Sicione, i quali fecero scoprire altri numerosi poeti portati all'arte drammatica, per quanto rimanessero di gran lunga al di sotto di Sofocle. Ma il maggiore fra i successori di Sofocle, l'unico che, ancor vivo Sofocle, sia stato accostato a lui come un maestro di uguale valore, fu tuttavia un Ateniese, Euripide (480-406).


ARISTOFANE ---------- TUCIDIDE -------- ESCHILO -------- SOFOCLE -------- EURIPIDE

Con Euripide, fece il suo ingresso sulla scena attica il realismo. I suoi personaggi portano bensì ancora la maschera eroica, ma soltanto in omaggio all'uso tradizionale che la prescriveva; essi sono uomini del tempo del poeta, non più tipi ma individui, con tutte le loro debolezze e le loro passioni. E le lotte ch'essi attraversano e nelle quali a seconda che vuole la sorte, vincono o soccombono, sono i contrasti della vita reale.
Inoltre il dramma di Euripide fa la dovuta parte anche alla donna; egli ha scoperto la donna come elemento di poesia o se si vuole è stato il primo a scoprirla nuovamente dopo Omero; e perciò fra i suoi motivi drammatici l'amore occupa un posto preminente. A tal proposito egli non scansò neppure di mettere sulla scena situazioni ardite, suscitando per questo grave scandalo fra i suoi contemporanei.
Né minore scandalo provocò col diffondere nelle masse dalla scena le idee sulla nuova filosofia che allora appunto cominciavano a farsi strada. Così avvenne ch'egli non giunse mai ad acquistare una vera e propria popolarità; non riuscì a riportare che poche vittorie ed ebbe per tutta la vita a lottare con le più acerbe ostilità.

Ma fra i migliori della sua epoca egli incontrò favore; le sue creazioni divennero ben presto familiari a tutte le persone dotate di una certa cultura, e se la commedia non si stancò di coprirlo di beffe mordaci, ciò non é che una miglior testimonianza del valore assolutamente preminente di quest'uomo; la commedia medesima dell'epoca infatti subisce completamente l'influenza di Euripide. L'avvenire spettava a lui; la tragedia durante tutto il secolo successivo segue la via che egli aveva additata e le sue produzioni teatrali si affermarono sulla scena sinché durò l'esistenza di un teatro antico. Salvo Omero, nessun altro poeta greco ha esercitato una influenza così profonda.

Nella composizione delle parti liriche Euripide seguì il nuovo indirizzo che a suo tempo provocò una trasformazione dell'arte musicale. Già i grandi classici dell'epoca che segna il passaggio dal VI al V secolo avevano cominciato a dare alla musica un'importanza maggiore che al testo per essa composto; in Bacchilide, il nipote di Simonide, questo testo ha appena un valore poetico superiore a quello di un buon libretto. Tutto ciò segnava la sentenza di morte per la lirica corale.
La posteriore evoluzione procedette oltre su questa stessa via. Verso la metà del V secolo spuntò, in contrasto col classicismo, un nuovo indirizzo che mirava ad ottenere nella musica effetti sonori più complessi e a dare alla musica stessa movimento drammatico ; questa maniera ebbe i suoi primi grandi rappresentanti nel ditirambico Melanippida di Melo e nel citaredo Frinide da Mitilene e venne poi a datare dal tempo della guerra del Peloponneso perfezionata ulteriormente da Timoteo di Mileto, Filosseno da Citera, Teleste da Selinunte. I fautori dell'antico levarono naturalmente alti lamenti per questa « decadenza » della musica, ma la nuova corrente progredì vittoriosa e ben presto arrivò il tempo in cui i grandi maestri di questa « musica dell'avvenire » ellenica furono considerati essi medesimi come classici ; le loro composizioni dominarono il teatro e i loro canti vennero imparati nelle scuole. È assai significante a tal riguardo che non si seppe mai abbastanza celebrare il valore morale di questa musica che a molti contemporanei era apparsa addirittura immorale.

Mentre la poesia lirica decadeva in tal modo per andare da ultimo a finire nel libretto, il nuovo genere di dramma che Epicarmo aveva fondato a Siracusa, si era sviluppato anche ad Atene, in via peraltro di svolgimento affatto spontaneo e al di fuori di qualsiasi influenza dovuta al grande poeta siciliano. La commedia ad Atene ebbe, al pari della tragedia, le sue origini nelle feste in onore di Dionisio, il carnevale ateniese, nel quale la gioventù andava in giro mascherata di un costume fantastico, di cui costituiva la parte più essenziale un gigantesco fallo; inoltre si cantavano in onore del dio ed a sollazzo del pubblico canzoni e si eseguivano danze che erano in armonia col detto costume, e finalmente con una lunga invettiva si rinfacciava al popolo la lista dei suoi peccati. A quest'ultimo riguardo l'improvvisazione fu col tempo sostituita dal discorso preparato d'avanzo, il tutto acquistò una figura artistica e da ultimo lo Stato avocò a sé la cura di provvedere alla rappresentazione di commedie, come provvedeva alla rappresentazione di tragedie. Ciò avvenne poco dopo le guerre persiane ; i primi autori che ci vengono segnalati sono Chionide e Magnete, poi nell'età di Pericle si distingue Cratino, sinché nell'epoca della guerra del Peloponneso la commedia trova i suoi poeti classici in Eupolide ed Aristofane, attorno ai quali si raggruppa un gran numero di poeti di grado inferiore.
Peraltro la commedia non rinnegò neppure ora le sue origini dai canti del fallo: costumi grotteschi per gli attori, azione fantastica, assenza di qualsiasi riguardo per la morale e le convenienze; anche l'invettiva piena di rimproveri (« parabasi ») restò in uso e con essa il tono politico del discorso. Dati gli ordinamenti liberi di Atene, ciò porse campo ai più aspri attacchi contro lo stato di cose esistente e contro gli uomini dirigenti ed in generale contro chiunque emergesse in un modo qualsiasi nella vita pubblica. Ma sul tutto aleggia diffuso l'alito di quella incomparabile grazia che circonda di un'aureola luminosa tutte le creazioni dell'arte attica di quest'epoca.
Fuori che ad Atene, se prescindiamo da Siracusa, l'uso delle rappresentazioni drammatiche non fu allora probabilmente praticato altrove; si restò paghi ai tradizionali spettacoli musicali. Ma principalmente l'interesse del popolo continuò tuttora ad essere rivolto alle gare ginnastiche; i grandi giochi che si tenevano ogni quattro anni ad Olimpia seguitarono ora come prima a goder l'importanza di festa nazionale per eccellenza, cui affluivano spettatori da ogni parte del mondo greco, mentre gli agoni musicali di Delfo non riuscirono a raggiungere una uguale popolarità, malgrado fossero anch'essi accompagnati da grandi gare ginnastiche e malgrado la potente attrattiva che doveva già di per sé esercitare il luogo delle gare, il precipuo santuario dell'Ellade.
Le gare peraltro si trasformarono sempre più in esposizioni di un atletismo professionale. Favore particolarissimo godettero le corse di cavalli ; ricche famiglie riposero il loro orgoglio nell'avere una scuderia da corsa, a Sparta più che in qualsiasi altro luogo, e l'opinione pubblica celebrò una vittoria riportata nelle corse dei carri ad Olimpia ed a Delfo con non minor calore che una vittoria nelle corse a piedi o nella lotta, ottenuta nello stadio.

Malgrado quanto si é detto, non bisogna farsi idee esagerate circa l'influenza esercitata sulla massa del popolo dallo stato di così splendido fiore raggiunto dall'arte in quest'epoca. La grandissima maggioranza del popolo, tutti coloro che non vivevano nelle città principali o non avevano mezzi per recarvisi, non ne vedeva né ne sentiva nulla; il massimo godimento artistico, la tragedia, non lo offriva che la sola Atene. Qui certamente può darsi che anche l'uomo del popolo abbia acquistato una certa vernice di educazione estetica, ma quanto ad effetti di educazione morale é difficile che abbia potuto averne dagli spettacoli che non si tenevano se non una o due volte all'anno e la cui impressione veniva neutralizzata dalle nudità dello scherzo satirico e dalle trivialità della commedia. A tal riguardopiù d'ogni altro parla chiaro il contegno brutale che il pubblico teneva a teatro; esso vi imperversava con rumori e schiamazzi ed in segno di malcontento lanciava ogni sorta di cose sulla scena. Il popolaccio rimaneva tale, malgrado tutti i bei versi che gli si elargivano.

Coerentemente a ciò il livello morale di quest'epoca era ancora molto basso. Per Tucidide è un'idea affatto inconcepibile che un uomo di Stato potesse farsi guidare da motivi d'ordine diverso da quello personale. Nessuno si faceva scrupolo di arricchirsi a spese della cosa pubblica; era già molto se un funzionario non si faceva addirittura corrompere. In fatto di umanità poi le cose andavano anche peggio. Che nell'eccitamento delle passioni inerente alle lotte partigiane siano state commesse le più acerbe crudeltà si può comprendere; ma é atroce vedere come gli stessi Ateniesi abbiano fatto massacrare intere popolazioni che s'erano ribellate alla loro dominazione.

Più crudeli ancora si mostrarono gli Spartani; essi nei primi anni della guerra del Peloponneso fecero passare a fil di spada tutti gli equipaggi delle navi mercantili ateniesi che caddero loro in mano. I Siracusani arrivarono persino al punto di mandare al supplizio i capi dell'esercito ateniese assediante che si erano loro arresi. È proprio così: l'educazione estetica e l'educazione morale, come possiamo constatare giornalmente anche adesso, hanno ben poco da vedere fra loro. Soltanto infatti il progresso intellettuale che in quest'epoca cominciò a farsi strada poté indurre un progresso anche nei riguardi morali.
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Ma, e qui ripetiamo le poche parole con le quali abbiamo iniziato questa pagina....

...parallelamente alla meravigliosa "Età di Pericle" il tipo morale scompare: ciascuno mira soltanto ai propri interessi individuali. L'energia e l'attività eccitate dalle vittorie nelle guerre persiane, la flotta creata e mantenuta unicamente per queste guerre e la lega creata pure a questo scopo, erano altrettanti impulsi per il commercio, e fonti di ricchezza; ma nello stesso tempo vi erano fomiti di cupidigia e di ambizioni favorite dalla forza di cui molti si trovavano a disporre.

Non a caso - dopo il primo periodo della filosofia che studiava il mondo e perciò la cosmologia e la fisica - nel secondo periodo le varie opinioni filosofiche del periodo precedente s'incontrano tutte nel centro della cultura greca, cioè in Atene. Dal confronto di tante dottrine disparate e contraddittorie sorse lo scetticismo, di cui i sofisti furono i portabandiera. Essi trasportarono poi tale scetticismo dal campo cosmologico all'umano, cioè al campo psicologico e morale. Erano valentissimi retori ed oratori che s'impegnavano a sostenere il pro e il contro in qualunque questione, anche morale. Così oggi difendevano la vitù, domani il vizio. Cosicchè erano deleteri nella sostanza, sebbene utili nella forma, perchè fondarono e usarono il linguaggio filosofico, e diedero impulso al ragionare dialettico.
Socrate, che nasce proprio in questo periodo (469-399) sorse fortunatamente ad opporsi alle loro dottrine deleterie. Egli disse che era cosa pazzesca l'occuprasi di filosofia cosmologica, come si era fatto fino allora.senza esser giunti a capo di nulla: molto meglio era occuparsi anzichè del mondo, dell'uomo.
Ecco perchè il carattere della filosofia socratica psicologica o morale è nelle sue generalità
abbastanza noto. Socrate fu il creatore della psicologia e della morale. Fu l'uomo che riunì insieme un corpo di massime meravigliosamente morali. Ciononostante, ma proprio per questo, in una Atene accartocciata nella cupidigia, nelle ambizioni, nel denaro, nell'arroganza con la forza, non deve meravigliare se poi (erano passati 28 anni dalla morte di Pericle - 495-429) fu condannato a bere la cicuta perchè accusato di "corrompere" la gioventù.

Di argomenti etici e di morale molti ateniesi non ne volevano sentir parlare, queste dottrine negli uomini che avevano una posizione sociale di grado elevata erano in tali materie della più crassa ignoranza; i padri erano impegnati a far denari con i commerci, e i figli prima di diventare come loro, avevano avuto presente come unico ideale quello di conquistarsi delle vittorie nei giochi nazionali, passavano intere giornate nelle palestre, e la loro educazione intellettuale si limitava al saper leggere e scrivere.

Sparta nello stesso periodo stava anche peggio. Quel tempo, quando si trovava in testa alla vita intellettuale era tramontato da un pezzo. Dall'epoca della guerra Persiana (quando in questa si rivelò la potenza di Atene) Sparta non ebbe più che un pensiero, di impedire che Atene diventasse egemone di tutta la Grecia.
Con questo pensiero, non vollero sapere nulla della nuova cultura ateniese, né musica, nè arte, né poesia, né architettura, nè filosofia; nulla del nuovo sapere. Perfino negli scambi commerciali nel loro paese non tollerarono la circolazione delle monete d'oro e d'argento ateniesi, Rimasero fermi alla loro antica moneta di ferro.
Tutto questo, e con la maggior parte degli spartani che non sapeva nè leggere e scrivere, crearono in due tre decenni un profondo abisso tra Sparta ed il resto della Grecia. In tutto il secolo V e IV a Sparta non un solo uomo si segnaleraà nel campo intellettuale.


Come abbiamo detto più sopra, in entrambi i due paesi, dimorando nell'animo le gelosie, le invidie, i fomiti di cupidigia, le ambizioni favorite dalla forza (ognuna credeva di essere la più forte), ed infine l'ignoranza, furono poi proprio queste le cause principali della nuova sanguinosa guerra . . .

LA GUERRA DEL PELOPONNESO > > >

Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania. Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco.
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECA - 1822
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1 - Sei 1916
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO, 1927
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI - 1968
JOHN D. GRAINGER Seleukos Nikator ECIG
FRANCA LANDUCCI GATTINONI -Lisimaco di Tracia - Jaca book 1992
RICHARD A. BILLOWS Antigonos the One-Eyed (University of California Press 1997)

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