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Democr. Cristiana  -- P. Comunista It.  - Socialisti  - Socialisti Dem.  --  Liberali  -  Mov. Sociale  -  Repubblicani

I PARTITI

DESTRA, SINISTRA (E CENTRO) - ZUFFA CONTINUA FIN DAL 1800
(vedi a fondo pagina)

I PARTITI POLITICI NELLA COSTITUZIONE ITALIANA


La Costituzione Italiana riconosce esplicitamente il ruolo dei Partiti Politici quando scrive, all’art. 49, che «tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale».
Da questa disposizione discendono quattro principi soprattutto:

1. La formazione dei partiti è libera: ogni partito ha diritto di cittadinanza nello Stato italiano qualunque ne sia l’ideologia. L’unico limite a tale libertà, scritto nell’art. XII delle disposizioni transitorie della Costituzione, è la riorganizzazione del partito fascista.
2. La repubblica si fonda sul pluralismo dei partiti. L’uso del plurale ("partiti") nell’art. 49 della Costituzione implica che sarebbe inammissibile un regime a partito unico.
3. Ai partiti è riconosciuta la funzione di determinare la politica nazionale, in concorrenza tra di loro.
4. I partiti devono rispettare il metodo democratico.

Laddove l'espresione «metodo democratico» definisce il principio per cui la minoranza deve rispettare le decisioni della maggioranza, ma ha la piena libertà di agire, con tutti i mezzi pacifici a sua disposizione, per diventare a sua volta maggioranza e assumere la guida del paese. È proprio del metodo democratico la possibilità dell’alternanza pacifica al potere tra maggioranza e minoranza.
Dal punto di vista giuridico i partiti politici in Italia sono organizzazioni private che si configurano come associazioni non riconosciute e godono quindi dell’ampia libertà d’azione che è prevista dal codice civile per queste associazioni. Non sono persone giuridiche e pertanto non sono sottoposti ai controlli statali che il codice civile prevede per tali enti.

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I PARTITI DAL DOPO 8 SETTEMBRE 1943 AL 2001

(CLN) COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

Il Comitato si costituì a Roma il 9 settembre 1943, all'indomani dell’armistizio e dell’occupazione tedesca del territorio italiano che seguirono alla caduta del fascismo. Era composto da sei partiti antifascisti: Partito comunista, Democrazia cristiana, Partito socialista di unità proletaria, Partito liberale, Partito d’Azione e Democrazia del lavoro. L’obiettivo era di promuovere e coordinare la lotta contro il nazifascismo.
Il Comitato si diede una struttura decentrata con la formazione di CLN regionali, provinciali e comunali. Particolare importanza ebbe il comitato sorto nell’Italia occupata dai tedeschi che si chiamò Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), al quale toccò il compito di dirigere la guerra partigiana. Il CLN fu un interlocutore politico dei governi che si formarono nell’Italia liberata dagli Alleati, collaborando in particolare ai due governi Bonomi del 1944 e al governo Parri del 1945, che furono entrambi emanazione diretta del CLN. Si sciolse al momento dell’elezione dell’Assemblea costituente (2 giugno 1946).
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L'INIZIO FU UN FIORIRE DI PARTITI
POI DAGLI ANNI '90 IL NUOVO SISTEMA


Il sistema dei partiti che ha caratterizzato, con una notevole stabilità, il primo cinquantennio di vita repubblicana, fu poi completamente travolto nei primi anni novanta sia dalle inchieste giudiziarie sia, soprattutto, dalle leggi elettorali di tipo maggioritario varate nel 1993. Attualmente non sopravvive nessuno dei partiti esistenti prima degli anni Novanta: alcuni sono completamente scomparsi dalla scena, altri hanno cambiato nome (e sostanza).
Se osserviamo i risultati delle elezioni del 1996 possiamo constatare che il numero dei partiti non era diminuito, malgrado l’adozione di un sistema elettorale maggioritario. Le ultime elezioni, quelle del 13 maggio 2001, penalizzando i partiti che si presentarono isolatamente, hanno dato una forte spinta al processo di bipolarizzazione. Oggi, i partiti rimangono sempre numerosi, tra grandi, piccoli e minuscoli, ma sono organizzati in due coalizioni o due poli:

1. una coalizione di sinistra, l’Ulivo, che comprende i Democratici di Sinistra (DS); Rinnovamento italiano, i Verdi e il Partito dei comunisti italiani (riuniti nell'aggregazione chiamata «girasole»); i democratici, il partito popolare (PPI) e l'UDEUR (aggregati nella «margherita»);

2. la Casa delle libertà, che comprende cinque partiti principali: Forza Italia, Alleanza Nazionale, il Centro Cristiano democratico e i Cristiani democratici uniti (aggregati nel «biancofiore»), la Lega Nord.

BREVE
PERCORSO STORICO DEI PARTITI

DEMOCRAZIA CRISTIANA

Si definiscono democrazia cristiana quei partiti e movimenti politici e sindacali che, in Europa e nel mondo, si richiamano alle aspirazioni ideali del cristianesimo sociale, sviluppatasi a partire dalla fine dell'Ottocento. ( vedi TONIOLO, MURRI e STURZO )
Riuniti in un'internazionale, i partiti democratici cristiani hanno i loro punti di forza nell'Europa occidentale (Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Austria) e nell'America Latina, dove spesso hanno responsabilità di governo.

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA IN ITALIA
Il partito della Democrazia cristiana (DC) ha dominato la vita politica italiana dal dopoguerra al 1992, detenendo sempre la maggioranza relativa nelle elezioni legislative. Per oltre 35 anni (dal 1946 al 1981) esso ha espresso ininterrottamente il Presidente del Consiglio, esercitando in molti periodi un’egemonia assoluta sul Governo. Espressione di forze ideali e sociali sorte dal mondo cattolico, ha nel corso della sua storia modificato continuamente il suo percorso politico.
Dopo aver ottenuto il 48% dei voti nel 1948, la DC ha mantenuto sino agli anni '80 una sicura maggioranza relativa dei consensi per poi conoscere un netto declino elettorale anche in conseguenza del suo coinvolgimento nelle inchieste sulla corruzione, tanto da doversi addirittura rifondare nel gennaio 1994 come Partito Popolare Italiano.

LA COSTITUZIONE DEL PARTITO
La DC fu fondata nel settembre del 1942 per iniziativa di un gruppo di vecchi dirigenti del Partito popolare italiano e del sindacalismo “bianco”, nonché di giovani esponenti dell'Azione cattolica, della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) e, infine, del cosiddetto «movimento neoguelfo» guidato da Pietro Malvestiti (l'unico gruppo aderente alla DC a vantare un attivo antifascismo). Ideologicamente, il nuovo partito si poneva in una situazione di centro, proponendo una fusione tra concezioni sociali cattoliche, elementi liberali e socialisti, e rifiutando decisamente il concetto marxista della lotta di classe.
Il programma politico prevedeva, tra l'altro, l'instaurazione di una democrazia parlamentare, un ordinamento amministrativo a base regionale, la progressività delle imposte, la libertà dì insegnamento, la diffusione della piccola proprietà contadina, il disarmo, l'europeismo e la difesa delle concessioni ottenute dalla Chiesa con il Concordato.

Nell'immediato, la DC optava per una decisa opposizione al fascismo e aderiva - dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 - ai nascenti Comitati di liberazione nazionale, assicurando anche un apporto militare alla lotta partigiana nell'Italia centro-settentrionale. Leader indiscusso fu, fin dall'inizio, Alcide De Gasperi, che ne assunse la segreteria nel luglio 1944.
Grazie alla composizione eterogenea - vecchi dirigenti del Partito popolare italiano (Giovanni Gronchi, Mario Scelba, Attilio Piccioni) e del sindacalismo “bianco”, giovani esponenti dell'Azione cattolica (Aldo Moro, Giulio Andreotti) e della Federazione universitaria cattolica italiana (Amintore Fanfani) - la DC fu un partito capace di rappresentare insieme le istanze del popolarismo cattolico e del moderatismo borghese. Poté così contare sin dall'inizio sull'appoggio elettorale di una forte componente popolare (operai, contadini, coltivatori diretti, piccoli proprietari e affittuari, artigiani, impiegati) e, nello stesso tempo, godere del favore dell'imprenditoria industriale e agraria.

L’ERA DE GASPERI
(vedi QUI ampia documentazione)
Nel dicembre dei 1945 la DC assunse, con De Gasperi, la Presidenza del Consiglio, che lo statista trentino avrebbe tenuto ininterrottamente fino al '53 (otto governi).
Già al primo impegno elettorale la DC si confermò partito di massa, riportando il 35,2% dei voti alle consultazioni per la costituente del 2 giugno del 1946. Durante i 19 mesi di lavoro dell'Assemblea Costituente (22 giugno '46 - 31 gennaio '48) i 207 deputati democristiani si impegnarono per affermare i principi dell'indissolubilità del matrimonio e della libertà dell'insegnamento privato, per l’accoglimento nella carta costituzionale dei Patti Lateranensi, per la conferma - sia pure con lievi correzioni - del diritto di proprietà e della libera iniziativa individuale.
L'anno delle scelte politiche decisive fu comunque il '47. Anche su sollecitazione degli Stati Uniti, in maggio De Gasperi estromise dal suo governo socialisti e comunisti, che ne facevano parte sin dal 1945, appoggiandosi alle forze dì centro-destra. Maturava in tal modo quell’esperienza centrista che sarebbe durata fino al 1958. I risultati delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 dettero ragione alla DC, la quale, impostando una campagna elettorale all'insegna dell’anticomunismo, sconfisse nettamente il fronte popolare di PCI e PSI, assicurandosi oltre il 48% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi. Grazie a questa vittoria, la DC e De Gasperi poterono rendere sempre più incisiva l'azione politica iniziata nel maggio '47.
Sul piano interno, ad una opzione economica liberista si accompagnò un più rigido controllo sociale, mentre in campo sindacale veniva favorita la scissione della componente cattolica dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). In politica estera, vennero rinsaldati i legami con i paesi del sistema occidentale, in particolare con gli USA (adesione alla NATO), e si gettarono le basi per la creazione della Comunità Europea.

DAL CENTRISMO AL CENTRO–SINISTRA
La fine della prima legislatura segnò anche la conclusione dell'era degasperiana. A pochi mesi dalla morte, De Gasperi fu sostituito alla segreteria del partito da Amintore Fanfani. Iniziarono a emergere le profonde divisioni interne del partito a causa della sua natura eterogenea. La DC andava sempre più configurandosi come un insieme di correnti che spiegava il paradosso di un partito ad un tempo conservatore e progressista, popolare e interclassista.

Una Dc è sempre più fortemente frammentata e divisa in correnti con alto grado di conflittualità reciproca. Questa la breve mappa delle più importanti correnti democristiane:
* MOROTEI o AREA ZAC, BASE, FORZE NUOVE (sinistra interna): sono state le tradizionali correnti di sinistra dello scudocrociato che hanno avuto in Amintore Fanfani (almeno fino alla fine degli anni ’60), Aldo Moro e Benigno Zaccagnini i principali leader. Si fecero portavoce, prima della collaborazione con il Psi (realizzatosi con il centro-sinistra), poi della necessità di aprire al Pci (ipotesi abbandonata dopo la morte di Moro);
* DOROTEI o GRANDE CENTRO: sono stati la maggioranza del partito ed hanno mantenuto il partito su posizioni moderate, fortemente anticomuniste e di provata fedeltà atlantica. Massimi leader della corrente dorotea furono Arnaldo Forlani, Guido Gonnella, Emilio Colombo e Flaminio Piccoli;
* PRIMAVERA: è la corrente della destra democristiana ed ha avuto in Giulio Andreotti il suo unico e maggiore leader.
Poi la crisi dei primi anni ’90 ha segnato la fine dell’esperienza politica della Dc i cui militanti si sono divisi in numerosi piccoli partiti posizionati sia a sinistra, sia al centro, sia a destra (Ppi, Democratici, Ri, Udeur, Ccd, Cdu, ecc.)


Tra il 1954 e il 1958 la DC ricercò una stabilità interna attorno a Fanfani, leader della corrente “Iniziativa democratica”, ma forti contrasti la divisero in momenti importanti quale, ad esempio, l'elezione di Gronchi alla presidenza della Repubblica. Neanche il successo del 1958 servì a Fanfani (Presidente del Consiglio) per unificare dietro a sé il partito. “Iniziativa democratica” si scisse e la maggioranza della DC andò ai dorotei (cosi detti dal convento di S. Dorotea dove si riunivano) di Antonio Segni, Mariano Rumor ed Emilio Colombo, i quali affidarono la segreteria del partito ad Aldo Moro.
Con il sesto congresso si verificarono una ricomposizione interna e l'avvicinamento al partito socialista che da tempo aveva rotto l'alleanza con il PCI. L’operazione di apertura a sinistra andò in porto con la formazione di tre consecutivi gabinetti guidati dallo stesso Moro, cm cui si realizzò un centro-sinistra organico (DC-PSI-PSDI-PRI). Ma la DC, influenzata dalla paura di perdere il suo tradizionale elettorato moderato, soffocò l’impulso riformatore della sinistra. Nel 1964 Mariano Rumor assumeva la guida di un parito in cui la lotta tra le varie correnti si faceva sempre più aspra.

VERSO NUOVI EQUILIBRI
Le tensioni e i movimenti che si manifestarono, a partire dal 1968, nella società italiana accrebbero il disagio interno del partito, mentre al governo si succedevano raggruppamenti di centro-sinistra. La crisi economica e sociale non ebbe un effetto univoco sulle vicende democristiane. Nelle prime elezioni politiche anticipate del 7 maggio 1972, la DC, presentatasi come paladina dell'ordine pubblico, ottenne un elevato consenso (39,1%) che permise di varare un governo di centro guidato da Andreotti.
Nel giugno 1973 la DC tornò a raccogliersi attorno a Fanfani, che riassunse la segreteria e rilanciò l'alleanza di centro-sinistra. Ma l’anno successivo l’iniziativa di appoggiare il referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio si risolse in una netta sconfitta del partito. Di lì a poco si incrinò anche l'alleanza con il partito socialista, sicché nel ‘74 si formò un Gabinetto bipartitico (DC-PRI) guidato da Aldo Moro, che godette dell'appoggio esterno del PSI.
Contemporaneamente, l'immagine del partito veniva offuscata dall'esplodere di una serie di scandali e dalla scoperta di torbidi intrecci tra potere politico e finanziario. Le elezioni amministrative del 15 giugno 1975 misero in evidenza le difficoltà della DC e l'avanzata delle sinistre (in particolare il PCI).
La DC si affidò, allora, alla giuda di Benigno Zaccagnini (nominato segretario il 26 luglio '75), un esponente della sinistra non implicato nei giochi di potere e ritenuto in grado di avviare quell'azione di rinnovamento necessaria a riconquistare il consenso perduto. All’interno della DC si affermò la “strategia dell'attenzione” nei confronti del PCI che aveva nello stesso Zaccagnini e in Aldo Moro i suoi massimi ispiratori e che appariva a molti necessaria.
I frutti della nuova gestione del partito - sostenuto dalle correnti di sinistra - si ebbero già alle elezioni politiche anticipate del 20 giugno 1976, quando la DC risali al 38,7%. Dalle urne usciva un quadro politico completamente mutato. Con un Partito Comunista attestato al 34,4% diveniva quanto mai attuale la strategia dell'attenzione, ricambiata del resto da un PCI già orientato verso una politica di “compromesso storico” con le forze cattoliche. L'apertura della DC ad una collaborazione organica con il PCI fu comunque lenta e travagliata, osteggiata dai settori conservatori e moderati del partito.
La mattina del voto di fiducia al IV Gabinetto Andreotti (16 marzo 1978), terroristi delle brigate rosse rapirono il presidente del Consiglio nazionale democristiano Aldo Moro (poi ucciso il 9 maggio), il principale artefice della politica di avvicinamento al PCI. La scomparsa di Moro provocò un notevole disorientamento nel partito aggravato dalle dimissioni dalla presidenza della Repubblica di Giovanni Leone, coinvolto in una serie di scandali.

LA CRISI DEGLI ANNI OTTANTA
L'uscita dei comunisti dalla maggioranza e le successive elezioni anticipate del 3 giugno 1979 sancirono la fine dell'esperienza dell’unità nazionale. Mentre al governo la DC riprendeva e ampliava la collaborazione con i partiti laici e socialisti, mutavano anche i suoi già precari equilibri interni, con il progressivo rafforzamento delle correnti ostili al PCI e l'esclusione della collaborazione con esso. Si costituì nel partito una nuova maggioranza, composta dalle correnti di centro-destra, che al Consiglio nazionale di marzo elesse alla segreteria Flaminio Piccoli, a sua volta sostituito nella carica di presidente da Arnaldo Forlani. Contemporaneamente, si formava il secondo governo Cossiga (DC-PSI-PRI) che vedeva dopo 6 anni il ritorno dei socialisti a responsabilità di governo.
Tuttavia, la ripresa della formula di centro-sinistra fu per la DC più onerosa rispetto al passato: la condizione posta dai partiti laici e socialisti era di svolgere all’interno della coalizione un ruolo di “pari dignità” e non più subalterno alla forza di maggioranza relativa. Questa pressione degli alleati portò, nel giugno '79, alla rinuncia della DC alla presidenza del Consiglio, passata al segretario repubblicano Giovanni Spadolini, il quale formò un Gabinetto pentapartitico (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI).
La DC tentò il rinnovamento del partito con l’elezione a segretario di Ciriaco De Mita. Riprese anche la guida del governo, con Fanfani, nel dicembre 1982. Quando, però, nelle elezioni anticipate (26 giugno ‘83) subì una netta sconfitta, la DC fu costretta a cedere la presidenza del Consiglio al leader socialista Bettino Craxi.
Nel 1986 la riconferma alla segreteria di De Mita non riuscì tuttavia a nascondere l'esistenza di forti contrasti provocati interni. Tratto caratterizzante di questo periodo fu il difficile rapporto con il PSI che toccò il suo culmine in occasione della crisi del marzo 1987 che portò ad elezioni anticipate. I risultati delle urne segnarono una lieve crescita della DC, e portarono alla nomina di Giovanni Goria alla guida del governo, cui dopo poco successe lo stesso segretario De Mita. Tuttavia la forte conflittualità, interna e nei confronti del PSI di Craxi, indebolì ben presto la segreteria De Mita che nel 1989 fu costretto a cedere la guida sia del partito che del governo di fronte alla nuova alleanza centrista formatasi in occasione del diciottesimo congresso.
La nuova maggioranza, che portò Forlani alla segreteria e Andreotti alla guida del governo, sembrò intenzionata a stabilire relazioni meno conflittuali con il PSI. Questa politica, tuttavia, non premiò il partito sotto il profilo dei consensi elettorali: nelle elezioni politiche del 1992 la DC subì una dura sconfitta.

L’EPILOGO DELLA DC
Dopo le elezioni del 1992 la vita politica italiana mutò a causa del progressivo allargarsi delle inchieste sui finanziamenti illeciti ai partiti e del rigetto, da parte dell'opinione pubblica, della classe politica. In questa situazione la DC fu tra le formazioni più colpite e gran parte della sua classe dirigente uscì screditata dalle numerose inchieste in cui fu coinvolta.
Nel 1992 divenne segretario Mino Martinazzoli, il quale fu di fatto costretto ad avviare una sostanziale rifondazione del partito, di fronte al rischio concreto di perdere il contatto con lo stesso mondo cattolico. Per segnare in modo più netto la rottura con il passato, la nuova leadership decise, nel 1993, di ritornare alla vecchia denominazione di Partito Popolare Italiano, mentre una minoranza dava vita al Centro Cristiano Democratico (CCD) su posizioni più conservatrici. Nessuna delle due opzioni, la progressista di Martinazzoli e dei popolari e la moderata centrista di Casini, si rivelò capace di riportare il partito della democrazia cristiana ai vertici della vicenda politica italiana. Alle elezioni anticipate del marzo 1994 il PPI fu schiacciato dalla bipolarizzazione del voto tra destra e sinistra, risultando penalizzato soprattutto dall'attrazione suscitata da Forza Italia di Silvio Berlusconi sull'elettorato in precedenza democristiano.
La sconfitta elettorale provocò le immediate dimissioni di Martinazzoli, al cui posto il Congresso nazionale del partito elesse, tra forti contrasti, Rocco Buttiglione, espressione delle componenti moderate favorevoli a trovare un accordo con Berlusconi. Quando il partito decise a maggioranza di schierarsi a fianco del Partito Democratico della Sinistra nella lista L'Ulivo, guidata alle elezioni del '96 da Romano Prodi, Buttiglione promosse una nuova scissione, fondando il raggruppamento dei Cristiani democratici uniti (CDU), che si schierò nel Polo delle Libertà (assieme al CCD).
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CENTRO CRISTIANO DEMOCRATICO (CCD)

Fu fondato nel 1994 da un gruppo di esponenti della destra democristiana, guidati da Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, che non approvava la decisione del Consiglio nazionale della DC di trasformare il partito in Partito popolare italiano e di allearsi al PDS. Il CCD si è schierato, fin dal principio, con il Polo delle libertà, partecipando ad entrambi i governi presieduti da Silvio Berlusconi.

CRISTIANO DEMOCRATICI UNITI (CDU)

Il partito fu fondato nel 1995 da Rocco Buttiglione. Formazione cattolica di centrodestra, che conserva il simbolo dello scudo crociato ereditato dalla Democrazia cristiana, il CDU nacque da una scissione del Partito popolare italiano guidata da Buttiglione quando questi ne era segretario. Alle elezioni del 1994 il CDU si schierò con il Polo delle libertà, partecipando al governo presieduto da Silvio Berlusconi. Dopo le elezioni del 1996 appoggiò i governi di centro–sinistra; infine, ha partecipato alle elezioni DEL 2001 schierato nella Casa delle Libertà.

PARTITO POPOLARE ITALIANO (PPI)
Partito politico italiano costituito nel 1994 dalla componente maggioritaria della Democrazia cristiana guidata da Mino Martinazzoli. L'esigenza di dar vita a una nuova forza politica cattolica nasceva dalla grave crisi in cui versava la Democrazia cristiana dopo che diversi suoi esponenti di primo piano erano stati coinvolti in inchieste giudiziarie e dopo gli insuccessi elettorali registrati nel 1992 e nel 1993. Il nome richiama la tradizione democratica e antifascista del Partito popolare di Don Luigi Sturzo. Dal canto suo, l'ala destra democristiana, che aveva deciso di non confluire nel PPI, dava vita al Centro cristiano democratico.
Nelle elezioni del 1994 ottenne l’11% dei voti, cedendo per la prima volta la posizione di primo partito italiano. Nel 1995 la decisione del nuovo segretario Rocco Buttiglione di allearsi con il Polo delle libertà guidato da Silvio Berlusconi non fu seguita dalla maggioranza del partito e Buttiglione costituì una nuova formazione, i Cristiani democratici uniti. Il PPI è stato tra i «fondatori» della coalizione di centro-sinistra, L'Ulivo, di cui è ancora parte importante, e tra i promotori della coalizione detta «Margherita», che raccoglie i partiti e i gruppi moderati dell'Ulivo (ne fanno parte anche i Democratici dell'UDEUR)

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PARTITO NAZIONALE MONARCHICO (PNM)

Partito politico italiano fondato nel 1947 da Alfredo Covelli allo scopo di riunire i monarchici sconfitti all'indomani della vittoria repubblicana del 2 giugno 1946. Dopo alcune esperienze nelle maggioranze governative, nel 1954 il PNM subì una scissione guidata dall'armatore Achille Lauro che diede vita al Partito monarchico popolare (PMP). Presentatisi autonomamente alle elezioni del 1958, sia il PNM sia il PMP ottennero risultati deludenti decidendo nel 1959 di riunirsi nuovamente in un unico partito, il Partito democratico italiano (PDI), dal 1961 Partito democratico italiano di unità monarchica (PDIUM) guidato da Covelli. Dopo ulteriori deludenti risultati elettorali, nel 1971 confluì nel Movimento sociale italiano, ribattezzato per l'occasione MSI–Destra nazionale.
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PARTITO LIBERALE ITALIANO

Nasce ufficialmente nel 1921, ma è l�erede delle classe dirigente liberale che ha guidato l�Italia fino all�avvento del fascismo. Collabora con la Dc e gli atri partiti laici (Psdi, Pri) negli anni del centrismo degasperiano. Sotto la guida di Malagodi (fortemente influenzato da ambienti confindustriali) esce dal governo all�avvento del centro-sinistra. All�opposizione, salvo una parentesi all�inizio degli anni �70 (governo Andreotti- Malagodi, 1972), fino all�avvento del pentapartito (governo Spadolini, 1981), ha rappresentato un partito posto su posizioni più conservatrici rispetto ai partiti liberali tedesco, britannico e scandinavi.
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PARTIRO REPUBBLICANO ITALIANO

È uno dei più antichi partiti italiani (nacque a Bologna nel 1895) ed è l’erede della tradizione risorgimentale della sinistra mazziniana non marxista a cui si aggiungono molti illustri intellettuali provenienti dal Partito d’Azione (La Malfa, Valiani, Visentini) approdati al partito dell’edera dopo il repentino scioglimento del Pd’A. il Pri, piccolo, ma influente, sarà, sotto la guida di Ugo La Malfa, uno degli artefice dell’apertura a sinistra ai tempi del primo centro-sinistra e sostenitore dell’ipotesi di allargamento della maggioranza di governo ai comunisti dopo il 1976.
Dopo la morte di La Malfa (1979) leader del Pri diventerà il senatore Giovani Spadolini, uomo illustre, storico di chiara fama ed intellettuale di vaglia, che, nel 1981, sarà il primo Presidente del Consiglio dei Ministri non democristiano della storia repubblicana.
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PARTITO COMUNISTA ITALIANO
Fu fondato nel 1921, con il nome di Partito comunista d'Italia, in seguito alla scissione di alcune correnti della sinistra del Partito socialista italiano (PSI) durante il Congresso di Livorno; tra i suoi fondatori furono Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga, l'uno legato all'esperienza torinese dei consigli di fabbrica (1919), l'altro fondatore della rivista "Il Soviet". Il nuovo partito, ispirandosi alla rivoluzione sovietica, si proponeva di realizzare anche in Italia un sistema socialista.
Amedeo Bordiga fu segretario del partito fino al 1926 quando, al Terzo congresso del PCI tenuto a Lione, venne accusato di settarismo e messo in minoranza. La nuova linea del Partito comunista venne fissata da Gramsci e Palmiro Togliatti nelle Tesi di Lione, in cui ponevano le premesse per la costruzione di un partito di massa e facevano un'analisi del fascismo che ne coglieva le tendenze all'imperialismo e alla guerra.
Decapitato dei suoi dirigenti dal regime fascista (Gramsci, arrestato nel 1926, morì in carcere nel 1937) e dichiarato illegale, il Partito comunista si organizzò nella clandestinità e, nonostante la repressione fascista e le epurazioni interne di matrice staliniana, riuscì a sopravvivere, mantenendo viva l’opposizione al fascismo. Con altri gruppi politici (Partito Popolare, Partito Socialista, Partito d’Azione, Partito liberale) operò poi tra il 1943 e il 1945 nella guerra partigiana, alla quale i suoi militanti diedero un preponderante contributo.
Il rientro in Italia (1944) di Palmiro Togliatti da Mosca segnò un mutamento di indirizzo: il PCI abbandonava la prospettiva di realizzare il socialismo in Italia per via rivoluzionaria. Passando a svolgere una funzione primaria nel processo politico italiano, Togliatti annunciò la disponibilità del Partito comunista italiano (fu adottato un nuovo nome) a far parte del governo guidato da Pietro Badoglio, accantonando la "pregiudiziale repubblicana" (svolta di Salerno).
Tra gli obbiettivi da raggiungere il congresso del dicembre 1945 poneva la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, delle grandi banche e l'esproprio dei latifondi a favore della piccola e media proprietà. Dopo la guerra di Liberazione, sotto la guida di Palmiro Togliatti, il Partito Comunista elaborò i principi della sua politica economica:
a. risolvere il problema della disoccupazione con l’aumento della produzione e non con i sussidi ai disoccupati,
b. sviluppare la produzione industriale ed agricola,
c. realizzare una maggiore giustizia sociale anche grazie alla lotta all’evasione,
d. creare "consigli di gestione" che esercitassero il controllo popolare sulle grandi aziende.
La storia del PCI nel dopoguerra si è identificata con l'evoluzione attraversata dall'URSS, col ruolo carismatico attribuito ai suoi leaders e infine con le lotte sociali sviluppatesi nel paese di cui la base di questo partito è stata la componente più numerosa e attiva. Il partito comunista si affidava ad alcune idee-forza, come il mito della rivoluzione d'ottobre, l'esaltazione di Stalin vincitore delle armate naziste e l'apologia dell'URSS, paese modello del socialismo, mentre ogni aspetto del marxismo che non fosse di matrice sovietica era condannato.
Al governo con tre ministri dal 1944 al 1947, il PCI pur mantenendo il suo allineamento filo-sovietico tenne a rassicurare i moderati, frenando gli atteggiamenti intransigenti della base, concedendo l'amnistia ai fascisti in nome della pacificazione nazionale e votando a favore dell'articolo 7 della Costituzione proposto dalla DC. Ciononostante, nel 1947 il PCI fu estromesso dal governo e, nel clima della Guerra Fredda, venne confinato in un'opposizione sterile e senza sbocchi.
Costretto all'opposizione, il partito assunse posizioni molto critiche verso il "governo nero", il "governo della discordia e della fame", come venne definito il centrismo di De Gasperi. Intanto, superata la battuta d'arresto nelle elezioni del 1948, il PCI si avviava a diventare il principale partito della sinistra in Italia e il più grande partito comunista dell'occidente. Escluso dal governo centrale, il PCI ebbe modo di affinare e di dimostrare le sue capacità di governo amministrando numerose città delle regioni dell'Italia centrale.
La morte di Stalin e la denuncia dei suoi crimini dalla tribuna del XX congresso del PCUS (febbraio 1956), incrinò la compattezza ideologica del partito. Nonostante i tentativi di Togliatti e degli altri dirigenti di minimizzarne l'importanza, il rapporto Kruscev provocò un profondo sbandamento nel partito. Così, quando nel novembre 1956 Polonia e Ungheria insorsero contro i regimi stalinisti dei loro paesi, numerosi esponenti, anche di primo piano, lasciarono il partito. : Nell'VIII congresso (1956), Togliatti, leader capace, avviò un proceso di modificazione graduale della linea del partito, fondata su tre capisaldi:
a. non vi era più "né stato guida, né partito guida" (riferendosi all'URSS),
b. la via italiana al socialismo prevede la trasformazione dello Stato borghese in Stato socialista attraverso il metodo democratico,
c. piena adesione alla democrazia parlamentare, alla difesa della pace e all'indipendenza nazionale.
La morte di Togliatti (1964) scosse profondamente il partito, la cui direzione passò a Longo. Durante la segreteria Longo si esasperò il contrasto dell'URSS con la Cina e declinò ulteriormente la credibilità del socialismo reale dell'Est europeo, mentre all'interno del partito si delineava una fronda che andava da Ingrao alla sinistra giovanile di Achille Occhetto. Nei confronti delle iniziative del movimento studentesco il PCI tenne un atteggiamento molto critico, giudicandole spesso provocazioni anticomuniste e facendo proprie le tesi della questura circa le responsabilità dell'anarchico Valpreda nell'attentato di Piazza Fontana a Milano (dicembre 1969).
Nel timore di una involuzione autoritaria del paese, di cui la strategia della tensione era un chiaro segnale, il PCI avvertì la necessità di alleanze politiche più ampie, cercando il dialogo diretto con la DC. Di questa tesi, definita compromesso storico, fu sostenitore Enrico Berlinguer, eletto segretario nel 1972. Gli scarsi risultati ottenuti nella collaborazione con la DC determinarono l’insuccesso e quindi l’abbandono di questa politica (1979).
Berlinguer, segretario fino al 1984, aumentò le distanze tra il PCI e Mosca facendosi portavoce e sostenitore dell’eurocomunismo, che:
1. proclamava l’autonomia dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale dall’Unione Sovietica (di cui si condannava la politica di potenza),
2. proponeva un modello di Stato socialista che faceva proprie le acquisizioni delle democrazie occidentali (metodo democratico e libertà personali),
3. criticava le violazioni dei diritti umani nell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS).
Fortemente impegnato nella campagna in difesa del divorzio, il PCI fu premiato alle amministrative del 1975, che rivoluzionarono la geografia politica dell'Italia con l'espandersi delle giunte rosse, e nelle politiche del 1976, alle quali ottenne il miglior risultato della sua storia con il 34,4%. Nonostante questo successo elettorale, la pregiudiziale anticomunista degli altri partiti e i vincoli internazionali dell'Italia all'interno dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) impedirono che quei voti fossero utilizzati. Invece dell'alternanza governo-opposizione si sviluppò allora la pratica del consociativismo, ossia del tentativo di corresponsabilizzazione, su decisioni importanti per gli interessi della nazione, anche delle forze dell'opposizione; tale pratica, degenerata talvolta in accordi d'interesse puramente partitico, è all'origine dell'uso con valore negativo del termine "consociativismo" che viene fatto oggi in politica.
Le azioni terroristiche e il rapimento di Moro, da parte delle Brigate Rosse (1978), portarono i comunisti ad accettare la cosiddetta emergenza, puntando sulla solidarietà nazionale tra i partiti dell'arco costituzionale e sull'appoggio esterno al governo Andreotti (1978-79). Il successivo calo elettorale, preludio di un declino sempre più preoccupante, convinse tuttavia il PCI a tornare all'opposizione con una strategia politica di alternativa democratica al sistema di potere democristiano.
Alla morte di Berlinguer (1984), il nuovo segretario, Alessandro Natta, ereditò una situazione di profonda crisi di identità del partito investito in rapida successione da una serie di mutamenti politici e ideologici, tra i quali la fine del mito di Togliatti, accusato di corresponsabilità con lo stalinismo, l'ondata di neoliberismo economico che attraversava tutto il mondo, il rapido declino dei paesi dell'est europeo e della stessa Unione Sovietica.
Un'ulteriore svolta al PCIfu impressa, fra il 1990 e il 1991, da Achille Ochetto (eletto segretario nel 1988), il quale decise, prendendo atto del crollo dei sistemi socialisti in URSS e nell'Europa dell'Est, di accelerare la trasformazione del PCI. Durante il XX congresso di Rimini del 1991, il Partito comunista italiano si sciolse per confluire in una nuova formazione, il Partito democratico della sinistra, mentre l'ala sinistra creava un nuovo partito, che si considerava l'erede della tradizione rivoluzionaria del PCI, il Partito della rifondazione comunista.
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PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA (PRC)

Nel febbraio 1991 la minoranza dissidente del vecchio Pci (circa 1/3), guidata da Cossutta, Garavini e Libertini, abbandonò il neonato Partito democratico della sinistra e fondò un Movimento per la rifondazione comunista, ufficializzato, nel dicembre dello stesso anno, in Partito della rifondazione comunista (Rc), al quale aderirono anche Democrazia proletaria e altri gruppi minori di orientamento maoista, proponendosi come autentico erede della tradizione comunista.
Rifondazione comunista si presentò nello schieramento dei Progressisti alle elezioni del 1994 e nella coalizione dell'Ulivo che vinse le elezioni del 1996 (fu usata la tecnica della «desistenza»: Rifondazione comunistra non presentò suoi candidati in tutti i collegi uninominali, la coalizione dell'Ulivo riversò i suoi voti sul candidato di Rifondazione nei collegi concordati), ma non partecipò con suoi ministri al governo presieduto da Romano Prodi, limitandosi a un ruolo dialettico di appoggio, e di condizionamento, dall'esterno. Ne era presidente Armando Cossutta, segretario Fausto Bertinotti.
Nell'ottobre 1998 il partito, in disaccordo sulle linee essenziali di politica economica e sociale, si ritirò dalla maggioranza che appoggiava il governo Prodi. Questo sarebbe caduto, se non avesse ricevuto la fiducia almeno di una parte dei parlamentari di Rifondazione comunista. Sulla questione dell'appoggio al governo dell'ULivo il partito si spezzò in due; da una parte l’ala di Bertinotti che non intendeva più sostenere la maggioranza, dall’altra i "Cossuttiani", decisi a sostenere un nuovo governo (presieduto da d’Alema), i quali uscirono da Rifondazione comunista e formando un nuovo schieramento: il Partito dei comunisti italiani (PDCI).
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PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA (PDS)
DEMOCRATICI DI SINISTRA (DS)

Nacque nel 1991 dalla trasformazione del Partito comunista italiano (PCI), al termine di un lungo processo di revisione ideologica, maturato anche per effetto di eventi internazionali quali il fallimento delle esperienze di socialismo reale nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e nell’Europa orientale e la dissoluzione dell’URSS. In seguito alla crisi dei paesi comunisti dell'est europeo, il segretario del Pci, Achille Occhetto, fin dal 1989 aveva iniziato a proporre radicali cambiamenti nel partito, a partire dal nome e dal simbolo.
Nel marzo 1990, al congresso straordinario di Bologna, fu anticipata la nuova organizzazione politica che successivamente, a larga maggioranza, prese il nome di Partito democratico della sinistra (Pds) nel definitivo congresso di Rimini (gennaio 1991), decretando la fine del Pci, il più forte partito comunista occidentale. Il Pds si presentava con un indirizzo politico e culturale non più marxista ma laico e riformista, non più comunista ma sempre legato al mondo del lavoro, impegnandosi sui terreni dell’occupazione, del risanamento delle finanze pubbliche e delle riforme istituzionali.
Il nuovo partito era costituito dalla maggioranza del Pci (che si riconosceva nelle posizioni di Occhetto), dai "miglioristi" (cioè l'area vicina al Psi fautrice del miglioramento del sistema capitalistico) di Napolitano e di Lama, dalla sinistra di Ingrao (comunisti democratici). Nuovo era anche il simbolo rappresentato da una quercia con alla base la vecchia bandiera del Pci disegnata nel 1946 dal pittore Renato Guttuso.
Superata nel mondo politico italiano la pregiudiziale anticomunista, il «fattore k» che per decenni aveva sbarrato al PCI l’accesso al governo, nel 1994 la segretaria del Pds passava a Massimo D'alema, il quale orientava il partito verso una coalizione di centro-sinistra (l'Ulivo) assieme al Ppi, ai Verdi, e ad altre forze moderatamente riformiste sotto la guida di Romano Prodi. Nelle elezioni politiche anticipate del 21 aprile 1996 la coalizione di centro-sinistra ottenne la maggioranza dei seggi in Parlamento e il 21 ottobre del 1998 lo stesso D'Alema succedeva a Prodi alla guida del governo. Era la prima volta che un «comunista» presiedeva un governo.

Tuttavia non resse a lungo e la coalizione dell'Ulivo: fu sconfitta nelle elezioni del 2001. I DS, in particolare, eredi del più grande partito comunista dell'occidente, che era arrivato fino al 35% dei voti, subivano una cocente sconfitta, passando dal 21% del 1996 al 16%.
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PARTITO SOCIALISTA ITALIANO (PSI)

Fondato a Genova nel 1892 con il nome di Partito dei lavoratori italiani, mutato nel 1893 in Partito socialista, il primo partito operaio italiano raccolse componenti eterogenee sia dal punto di vista ideologico (marxismo, anarchismo, mazzinianesimo) sia organizzativo (leghe, circoli operai, società di mutuo soccorso).
Sotto la guida del riformista Filippo Turati, il partito, benché sciolto nel 1894 dal governo presieduto da Francesco Crispi e poi di nuovo colpito dalla repressione antisocialista nel 1898-99, ebbe una rapida espansione, grazie anche allo sviluppo di una fitta rete di Camere del lavoro e di cooperative. Nelo stesso tempo non mancarono conflitti interni che si trasformarono in continue lacerazioni, concretizzate in espulsioni o in fuoruscite. Così, nel 1912 furono espulsi alcuni esponenti della corrente riformista che si erano schierati a favore della guerra di Libia, e alla vigilia della prima guerra mondiale fu espulso Benito Mussolini, già segretario del partito, perché favorevole alla guerra mentre il partito, a differenza di altri partiti socialisti europei, aveva scelto la linea: "Né aderire né sabotare".
La prima scisssione di rilievo si verificò al Congresso di Livorno nel 1921, quando il gruppo napoletano che faceva capo ad Amedeo Bordiga e il gruppo torinese raccolto attorno ad «Ordine nuovo» fondava il Partito comunista d'Italia (in seguito Partito comunista italiano, PCI). Nel 1922, a causa della vittoria della corrente massimalista, anche Turati e i riformisti abbandonarono il partito per fondare il Partito socialista unitario (PSU).
Messo fuori legge dal fascismo, il partito si ricostituì nella clandestinità e nel 1934 strinse un patto di unità d'azione con il Partito comunista. Nel 1943, in seguito alla confluenza del Movimento di unità proletaria di Lelio Basso, modificò il proprio nome in Partito socialista di unità proletaria (PSIUP). Già nel primo congresso del dopoguerra, nel 1946, si verificò una netta divergenza tra le due principali correnti: quella di Giuseppe Saragat e Ignazio Silone, critici del comunismo russo, e l'altra maggioritaria di Pietro Nenni, su posizioni di unità d'azione col PCI (frontismo).
In prima fila nella battaglia referendaria per la repubblica, il PSIUP, guidato da Pietri Nenni, fu premiato dagli elettori (20,7% contro il 19% del PCI) come primo partito della sinistra alle elezioni del 1946. Ma nel gennaio 1947 l'area saragattiana, allineata alla socialdemocrazia nordeuropea e contraria all'unità d'azione con i comunisti, abbandonò il partito e costituì il Partito Socialista del Lavoratori Italiani (PSLI, poi confluito nel PSDI nel 1952). Iniziava così la parabola discendente dei socialisti, che nel frattempo avevano ripreso il nome di PSI sotto la segreteria di Basso.
Esclusi dal governo De Gasperi, i socialisti si unirono ai comunisti per le elezioni del 1948 in una lista detta Fronte Popolare con il simbolo di Garibaldi. I deludenti risultati dettero origine ad una corrente capeggiata da Riccardo Lombardi e orientata alla ricerca di una maggiore autonomia dal PCI, mentre la maggioranza, guidata da Nenni, rieletto alla segreteria nel congresso del 1949, ribadiva il valore dell'esperienza sovietica, accentuando sul piano nazionale lo scontro con la DC.
Nel 1952, in un rapido susseguirsi di eventi, Nenni pose fine all'alleanza con i comunisti prendendo le distanze dall'URSS e orientandosi su posizioni di neutralità tra i due blocchi mondiali. Sanzionato il superamento del frontismo (1957), che secondo i socialisti aveva paralizzato fino ad allora il partito, Nenni accelerò i tentativi di ricucire i rapporti col PSDI. Poi, nel momento in cui Fanfani iniziava l'apertura a sinistra, offrì la disponibilità a sostenere il governo "per fare dell'Italia un paese moderno, civile, libero e democratico", purché la DC avesse accettato la programmazione economica, alcune riforme come quella urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, l'unificazione della scuola media, l'ordinamento regionale. Per Nenni si trattava dello storico incontro tra socialisti e cattolici, per la minoranza di sinistra del partito tutto ciò costituiva invece un grave cedimento alle forze conservatrici e capitaliste.
Dal 1963 il PSI prese parte con la Democrazia cristiana (DC), il Partito repubblicano italiano, il Partito socialista democratico italiano e il Partito liberale italiano ai governi di centro-sinistra, senza tuttavia rinunciare all'unità sindacale con il PCI nella Confederazione generale dei lavoratori (CGIL). Nel 1964 la corrente di sinistra contraria alla scelta di centro–sinistra si costituì nel Partito socialista di unità proletaria (PSIUP). Nell’ottobre 1966 si ebbe la riunificazione socialista tra PSI e PSDI nel Partito socialista unificato (PSU), che però ottenne risultati elettorali deludenti nelle politiche del 1968, tanto che ben presto si ritornò alla divisione in due partiti.
Sotto il ricatto di involuzioni autoritarie organizzate dalla destra economica, Nenni accettò il graduale svilimento del progetto riformistico per assicurare il quadro democratico e la governabilità. Di fronte all'incalzare delle rivendicazioni studentesche ed operaie che sfociarono nell'autunno caldo (1969), il PSI non accettò di essere coinvolto ulteriormente nel disegno moderato della DC. I socialisti tornarono al governo nel 1970-72 contribuendo all'attuazione dell'ordinamento regionale, alla legge sul divorzio, alla realizzazione dello statuto dei lavoratori (fortemente voluto dal ministro socialista Giacomo Brodolini).
A seguito dell'avvento di Bettino Craxi alla segreteria, nel 1976, il PSI rafforzò la propria autonomia nei confronti del PCI e sfruttò spregiudicatamente il suo ruolo di arbitro del sistema politico. Pur non ottenendo mai grandi successi elettorali, la presenza della sua quota percentuale divenne infatti decisiva per formare sia maggioranze di pentapartito (DC,PSI,PSDI,PRI,PLI) a livello di governo centrale sia coalizioni di maggioranza di varia composizione nelle amministrazioni degli enti locali e acquisendo così incarichi in misura superiore al suo reale peso elettorale.
Prospettando la possibilità di un'alternativa di sinistra ai governi DC, Craxi sembrò ridare fiducia ed entusiasmo alla base del partito. Con il tempo, Craxi andò imponendo una linea politica più moderata, oltre che verticistica e decisionista, considerando superato ogni riferimento al marxismo e abbracciando le teorie liberaldemocratiche. Sempre più integrato nella politica neoliberista dei governi pentapartito, Craxi ottenne dal 1983 al 1987 la presidenza del consiglio.
Con Craxi presidente del Consiglio dei ministri, il partito pose l'accento sulla governabilità e manifestò aspirazioni a una repubblica presidenziale. Ma quando nel 1992 Giuliano Amato (un altro socialista) tornava nuovamente alla guida del governo, esplodevano inchieste giudiziarie legate allo scandalo di "Tangentopoli", che cominciarono a fare luce sulla diffusione della corruzione politica e amministrativa a partire da Milano, roccaforte craxiana. Il PSI e il suo segretario finirono per diventare i principali bersagli della rivolta morale del paese; Craxi, costretto a dimettersi da segretario, riparò così all'estero mentre il PSI ne uscì pressoché distrutto. Il coinvolgimento di numerosi dirigenti del partito determinò lo scioglimento del PSI (1994) da cui hanno avuto origine piccole organizzazioni socialiste.
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PARTITO SOCIALDEMOCRATICO ITALIANO

Nacque da una scissione a destra del Psi nel 1947 da parte di quei socialisti che, guidati dal Presidente dell’assemblea Costituente in carica Giuseppe Saragat, non accettavano la linea frontista coi comunisti voluta da Nenni nell’immediato dopoguerra, preferendo la collaborazione con la Dc e gli atri partiti laici (Pli, Pri).
La nuova via socialista autonoma dal Pci ed il ritiro di Saragat dopo il suo settennato quirinalizio e il coinvolgimento di due segretari del Psdi in scandali giudiziari, hanno segnato il declino irreversibile e definitivo del partito nato a Palazzo Barberini.
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MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO (MSI)

Il Movimento sociale italiano venne fondato nel 1946 dai superstiti dei gruppi fascisti tra cui Giorgio Almirante (che ne fu segretario dal 1947 al 1950 e dal 1969 al 1987) e Pino Romualdi. Il movimento si richiamava apertamente a Mussolini e al programma della Repubblica sociale (1943-1945). A partire dal 1947 il partito offrì ai nostalgici del fascismo l’occasione per rompere l’isolamento e per conseguire di fatto una legittimazione almeno parziale. Quantunque infatti la costituzione italiana vietasse la costituzione del partito fascista, il MSI poté prendere parte alla vita politica: nelle elezioni del 1948 ottenne 6 deputati, nel 1953 ne conquistò 29.
Il relativo successo di questo partito, collocato all’estrema destra dello schieramento politico italiano, è dovuto in gran parte all’appoggio delle classi che hanno visto in questa forza un mezzo per impedire il rinnovamento democratico del paese voluto dalla Costituzione. Isolati gli elementi più intransigenti, propensi all’uso dei metodi violenti tipici del fascismo, la maggioranza del partito, più moderata, ha accettato tuttavia le regole del sistema democratico. Il programma del partito era centrato in particolare sull’esaltazione dei valori nazionalistici, sulla dura opposizione alle forze di sinistra. Pur criticando il sistema economico liberale, il Movimento sociale sostenne l’Alleanza atlantica e l’allineamento dell’Italia al blocco occidentale .
Schierato all'opposizione, il MSI contribuì con la propria crescita elettorale all'erosione della base elettorale democristiana, spingendo la Democrazia cristiana a tentare la riforma della legge elettorale in senso maggioritario (la cosiddetta Legge truffa del 1953) e poi a cercare nuove alleanze; nel 1960, l'appoggio missino al governo monocolore democristiano presieduto da Franceso Tambroni determinò una vasta protesta antifascista repressa brutalmente.
Fu formazione costantemente all'opposizione eppure, dal 1953 al 1960, a più riprese i deputati missini fecero confluire i propri voti nelle maggioranze parlamentari al fine di consentire la formazione dei governi centristi. Nel 1972 il MSI assorbì il Partito di unità monarchica mutando il nome in MSI-Destra nazionale. Fautore di uno stato forte, il Movimento sociale ha promosso campagne per il ripristino della pena di morte, contro la legge sul divorzio, contro la depenalizzazione dell’aborto. La sua proposta più significativa è la trasformazione del sistema politico italiano da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.
I principali leaders del Msi furono Arturo Michelini (morto nel 1969), favorevole all’alleanza con i monarchici e con i settori più conservatori del mondo cattolico, e Giorgio Almirante (morto nel 1988), che rappresentò i gruppi più intransigenti e nostalgici, spesso coinvolti in azioni di squadrismo.
La crisi del sistema politico italiano nei primi anni ’90 e la guida di Fini (divenuto segretario nel 1987 e interprete di un indirizzo più moderato) ha fatto sì che il Msi, seguendo le teorie del politologo Domenico Fisichella e l’evoluzione della destra spagnola (da Alleanza Popular a Partido Popular), nel 1994 diede vita, insieme ad altre forze di destra, ad Alleanza Nazionale, sciogliendo il MSI nel 1995.

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ALLEANZA NAZIONALE (AN)

Come Forza Italia, anche Alleanza Nazionale nasceva nel 1994 in vista delle elezioni politiche anticipate di primavera. Il segretario del Movimento Sociale italiano–Destra Nazionale, Gianfranco Fini, puntava su di essa soprattutto per sottrarre il partito all’isolamento in cui lo confinava l’accusa di raccogliere l’eredità del fascismo. Prospettando una formazione politica di destra moderata, sull’esempio del gollismo francese o dei conservatori inglesi, l'MSI si avvantaggiò dello sfaldamento della Democrazia cristiana (una parte della quale confluì in Alleanza Nazionale) e si aggiudicò, specialmente nel Centro-Sud, una parte consistente dei voti moderati tradizionalmente riservati alla DC.
Alle elezioni politiche del 1994 divenne il terzo partito italiano con il 13% dei voti ed entrò per la prima volta, dalla nascita della repubblica, a far parte di un governo (Berlusconi). Nel 1995 il primo congresso di Alleanza nazionale sancì formalmente la nascita del nuovo partito, i cui capisaldi ideologici furono una drastica separazione dalla componente missina che si richiamava all'esperienza politico-sociale della repubblica di Salò (1943-1945), l'adesione ai principi costituzionali usciti dalla resistenza, pur rivendicando la tradizione nazionalistica, una revisione in senso presidenzialista delle istituzioni. Nelle tesi di Alleanza nazionale, elaborate in occasione del primo congresso nazionale del partito, si fa esplicito riferimento alla scelta antitotalitaria del partito ed è formulata una chiara ripulsa del razzismo.
Alleanza nazionale ha partecipato ai governi presieduti da Silvio Berlusconi in quanto forza costitutiva, insieme a Forza Italia, del Polo delle libertà, vincitore delle elezioni politiche del 1994 e (dopo un governo di centro-sinistra) quelle del 2001.
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MOVIMENTO SOCIALE - FIAMMA TRICOLORE

Nel 1995 la minoranza del MSI, che non seguì il segretario Gianfranco Fini nella transizione in Alleanza Nazionale, diede vita ad un nuovo raggruppamento attorno a Pino Rauti, il Movimento sociale-Fiamma Tricolore, che ha conservato come proprio emblema la fiamma tricolore del vecchio MSI.
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LEGA NORD

La Lega Lombarda è sorta a Milano agli inizi degli anni ’80 per iniziativa di Umberto Bossi e rappresenta la punta di lancia del vasto movimento politico a carattere regionalistico sviluppatosi nell'Italia settentrionale a partire dal 1979 e successivamente riunitosi nella Lega Nord, nel 1989, assieme ad altre leghe come quella veneta o quella toscana. Il suo nome richiama alla mente le lotte vittoriose dei comuni lombardi nei secoli XII e XIII contro gli imperatori germanici e particolarmente il giuramento di Pontida (1167) che pose fine alle pretese del Barbarossa. Identificati i moderni invasori nei "partiti romani", ossia le forze politiche del dopoguerra accusate di essersi spartite il potere (consociativismo) per gestirlo in maniera clientelare a danno della parte produttiva del paese, la Lega lombarda ha costruito le sue rapide fortune elettorali sulla denuncia di uno stato definito "ladro e fascista". "Ladro" in quanto sottrae la ricchezza ai ceti economicamente attivi e dunque al nord per sostenere le clientele elettorali dei partiti del meridione; "fascista" poiché prosegue un centralismo autoritaristico al quale la Lega contrappone il federalismo, richiamandosi alla tradizione della corrente autonomistica risorgimentale che ebbe tra i suoi massimi esponenti il milanese Carlo Cattaneo.
Dopo l'esordio alle elezioni amministrative del 1985 a Varese, i successi del movimento si sono ripetuti ad ogni nuova tornata elettorale fino al 1992, quando la Lega divenne il quarto partito nazionale, ma il primo in molte grandi città del settentrione. Movimento e non partito, il leghismo prescinde da determinati riferimenti ideologici, rifiuta ogni riferimento di destra o di sinistra, respinge ogni criterio professionalistico nello svolgimento di incarichi politici, concentra la sua attenzione sulla gestione trasparente dell'amministrazione pubblica.
Il suo programma, che ha sollevato la "questione settentrionale", dapprima si è imperniato sulla modificazione della Costituzione in senso federalista sull’esempio svizzero, tedesco o americano e sull'individuazione di tre macroregioni, all'incirca corrispondenti alla consueta suddivisione geografica della penisola in Nord, Centro e Sud (1989-1992). A livello economico il modello è il capitalismo "puro" del libero mercato, non assistito dallo stato e affidato all’iniziativa privata.
In seguito, mentre si acuiva la crisi della Democrazia cristiana e del Partito socialista italiano, la Lega nord cercò di raccogliere l'eredità dei partiti di governo della Prima repubblica sia nelle amministrazioni cittadine sia alleandosi con il Polo delle libertà, guidato da Silvio Berlusconi, nelle elezioni politiche del 1994, dalle quali uscì come la quinta forza politica italiana, con l’8% dei voti, e come la seconda nel nord (con il 19%). Il timore di non poter preservare la genuinità del movimento spinse il suo leader, Umberto Bossi, a rompere l’alleanza con il Polo togliendo il sostegno al governo presieduto da Berlusconi e a riproporre l'immagine originaria, popolana, della Lega, facendo leva sull'ostilità nei confronti dei meridionali e degli immigrati, visti come portatori di disoccupazione e insicurezza, e sulle minacce di rivolta fiscale.
A partire dal 1995, il federalismo è stato abbandonato a favore della rivendicazione del diritto di secessione della Padania, regione ideale del Nord Italia. Nello stesso tempo Bossi promosse grandi rituali di massa, come le tre giornate di mobilitazione lungo il Po del settembre 1996, allo scopo di rafforzare l'identità del movimento. Il movimento leghista ottenne forti affermazioni elettorali (primo partito del Nord Italia nel 1996) facendo leva sul malcontento dei ceti medi produttivi dell'Italia del Nord-Est, che dopo anni di intensa crescita economica si sentivano poco rappresentati a livello politico e insufficientemente tutelati dal governo centrale. Tuttavia, nelle elezioni amministrative del 1997 la Lega Nord perse la maggior parte dei sindaci e dei presidenti delle province, ponendo i vertici del partito di fronte a scelte impegnative per il futuro. Da quel momento, il partito di Bossi ha avviato un riavvicinamento a Berlusconi culminato in una nuova alleanza, centrata sull'impegno federalista di tutta la Casa delle Libertà e sulla presenza di esponenti leghisti in ministeri di primo piano. L'alleanza risultò vincente alle elezioni politiche del 2001, sebbene la Lega nord abbia mancato per un niente il superamento dello sbarramento del 4%.
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FORZA ITALIA (FI)

Con un messaggio registrato, trasmesso il 26.01.1994 dalla sua catena televisiva (Italia 1, Rete 4, Canale 5), l’imprenditore dell’editoria e titolare di un grande impero finanziario, Silvio Berlusconi, annunciò il suo ingresso in politica e presentò Forza Italia, un movimento composto da 4.000 club e 200.000 iscritti che si riproponeva di contrastare l’avvento al governo delle sinistre (unite nel polo progressista) a tutela delle libertà e nella prospettiva di una Seconda repubblica.
Il movimento politico fondato da Silvio Berlusconi si proponeva come nuovo riferimento dell'elettorato moderato nelle elezioni politiche che si sarebbero tenute il 27 marzo 1994, in un contesto caratterizzato dal venir meno della tradizionale forza di centro, la Democrazia cristiana. Dichiarandosi formazione di centro, moderata, avversaria della vecchia partitocrazia accusata di consociativismo, il nuovo movimento prometteva agli elettori la ripetizione del "miracolo" economico degli anni '50 e '60 attraverso il rilancio dell'iniziativa privata, la riduzione dei gravami fiscali, il contenimento della disoccupazione, grazie all'eliminazione dell'assistenzialismo clientelare e dell'enorme debito provocato dalla precedente classe politica.
Su tali basi Forza Italia (FI) strinse un accordo con la Lega nord al settentrione, con Alleanza Nazionale al centro-sud, aggregando attorno a quest'asse (Polo delle libertà) frange democristiane (Centro Cristiano Democratico), ex liberali (Unione di centro), il gruppo radicale facente capo a Pannella. Lo schieramento conquistò la maggioranza relativa dei consensi alle elezioni politiche del 1994. Il grande successo elettorale ottenuto nel 1994, da Forza Italia in particolare e nel suo complesso dal Polo delle libertà, confermò l'esattezza dell'intuizione di Berlusconi e il tempismo della scelta del momento in cui agire.
Forza Italia fu determinante nel governo presieduto nel 1994 da Berlusconi, cui partecipò, anche la Lega Nord, la stessa che poi ritirandosi dal governo, ne causò la caduta dopo pochi mesi. Allontanatasi la Lega nord e avvicinatisi i Cattolici democratici (Cdu) che avevano lasciato il partito popolare, il Polo delle libertà uscì battuto, seppure di stretta misura, nelle elezioni politiche del 1996 ma si è rifatto vincendo e conquistando una larghissima maggioranza in Parlamento nelle successive elezioni del 2001, in cui la Lega nord è rientrata nella coalizione berlusconiana .

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Democr. Cristiana  -- P. Comunista It.  - Socialisti  - Socialisti Dem.  --  Liberali  -  Mov. Sociale  -  Repubblicani

DESTRA, SINISTRA (E CENTRO) - ZUFFA CONTINUA FIN DAL 1800

Un’analisi della storia del sistema politico in Italia deve necessariamente prendere le mosse dall’assetto degli apporti fra le forze risorgimentali. E’ in quel periodo che cominciano a delinearsi alcune linee guida che caratterizzeranno per molti decenni la sua storia nel corso dei successivi decenni. Attorno alla metà del secolo scorso il quadro era caratterizzato dal contrasto tra il moderatismo liberale piemontese, che egemonizzava lo Stato Sabaudo (soprattutto dopo la concessione dello Statuto Albertino), che riconosceva come proprio leader un giovane ma brillante e già molto potente Camillo Benso conte di CAVOUR, ad il repubblicanesimo del partito d’Azione di Giuseppe MAZZINI. Le contrapposizioni tra i due schieramenti risorgimentali vertevano certamente su ragioni di contenuto: Monarchia-Repubblica, alleanze internazionali, partecipazione popolare al processo di unificazione dell’Italia, etc.; ma tra i due movimenti, e forse ancor più tra i due personaggi, vi erano soprattutto degli insanabili contrasti metodologici e caratteriali.

Tanto erano gradualisti e moderati i liberali, quanto erano rivoluzionari ed estremisti i repubblicani. Tanto era incline al compromesso ed al sottile lavorio diplomatico CAVOUR, quanto era incendiario l’impeto Mazziniano. Utilizzando le categorie cui siamo abituati ai giorni nostri, si potrebbe forse azzardare una descrizione di questo tipo: un "centro" cavouriano tutto proteso a battere la via dell’Unità sotto la bandiera Sabauda attraverso un complesso intreccio di alleanze esplicite od implicite (quindi un risorgimento che muovesse dall’alto verso il basso); una "sinistra" democratica ed utopista che credeva nella possibilità di una grande sollevazione popolare che abbattesse ogni potere monarchico costituito (cioè un risorgimento dal basso verso l’alto).

IL LIBERALCONSERVATORISMO - Non è in questa sede il caso di soffermarsi sulle vicende che portarono all’Unità d’Italia, sta di fatto che a questo risultato si arrivò attraverso l’unificazione dei vari staterelli al Piemonte e fu quindi una logica conseguenza che la prima classe dirigente del nuovo Stato fosse quella raccoltasi attorno a CAVOUR, che peraltro morì subito dopo l’acquisizione del risultato cui aveva dedicato una vita. Quel gruppo di statisti era costituito da uomini di grande competenza e prestigio personale come Quintino SELLA, Giovanni LANZA, Marco MINGHETTI, Silvio SPAVENTA, Stefano JACINI e altri che in seguito furono chiamati la "Destra Storica", per distinguerli, come vedremo poi, dalla "Sinistra Storica".

Le linee guida della loro azione politica erano quelle di un liberalconservatorismo molto attento all’equilibrio della finanza pubblica, contrario ad ogni protezionismo doganale ma favorevole a qualche intervento dello Stato a sostegno delle grandi imprese e per la costruzione delle infrastrutture strategiche (le ferrovie, ad esempio).

E’ necessario però ricordare come il sistema politico dell’Italia liberale, soprattutto nella prima fase della sua vita, si reggesse su un suffragio elettorale estremamente ristretto (il 2% della popolazione ne aveva diritto, lo 0,9% era poi quello che votava ).

Ciò comportava la realizzazione di un sistema politico estremamente omogeneo agli interessi delle classi più benestanti del Paese, soprattutto di quell’alta borghesia di cui gli uomini della Destra erano probabilmente la migliore espressione. A merito di quel ceto politico va comunque riconosciuto, oltre ad una specchiata onestà personale degli uomini (e si sa quanto questo elemento conterà poi nel giudizio sulle successive classi dirigenti), il fatto che si seppe sempre sottrarre alla tentazione di utilizzare quel forte consenso che il sistema elettorale gli garantiva per una involuzione illiberale, ma anzi spingendo sempre più la forma di governo da monarchia costituzionale, caratterizzata cioè dalla presenza di un rapporto fiduciario tra monarca e governo, ad evolversi in monarchia parlamentare dove il rapporto fiduciario intercorre solo fra Esecutivo e Parlamento.

LA SINISTRA STORICA - Questo quadro politico ebbe vita fino al 1876, quando, a seguito della crisi di un governo Minghetti, fu nominato Presidente del Consiglio Agostino DEPRETIS, leader del raggruppamento che in Parlamento si contrapponeva agli uomini della Destra, cioè la Sinistra Storica. Quest’ultima era una forza politica molto composita, nella quale confluivano liberali moderatamente progressisti (Depretis), gli eredi di talune componenti risorgimentali di ispirazione mazziniana ma disponibili ad un compromesso con la monarchia (ZANARDELLI, CAIROLI), e la cosiddetta sinistra meridionale, espressione dei proprietari terrieri del sud. Il programma con il quale la Sinistra andò al potere, così come venne illustrato in un celebre discorso tenuto da DEPRETIS a STRADELLA nel 1875, era caratterizzato da contenuti fortemente democratici e riformatori in diversi campi, come quello fiscale, scolastico e amministrativa (fin da allora si cominciò a parlare in Italia di riforma della Pubblica Amministrazione). Ma soprattutto essa si proponeva un ampliamento del suffragio, cosa che avvenne nel 1882, portando gli aventi diritto al voto al 6,9% della popolazione. La novità ebbe delle conseguenze molto importanti sugli equilibri politici, perché l’estensione del suffragio finì per minare alla radice la sostanziale omogeneità del blocco sociale che, premiando la Destra o la Sinistra, aveva comunque governato il Paese dall’Unità, e contribuì non poco a far crescere il peso politico di quei partiti detti dell’Estrema Sinistra, cioè Repubblicani, Radicali e Socialisti. Questa evoluzione favorì il verificarsi di un fenomeno che in seguito sarebbe diventato abbastanza tipico nella vita politica italiana: il cosiddetto "trasformismo", cioè il passaggio, fortemente caldeggiato da DEPRETIS, di esponenti della Destra nelle file della maggioranza, per compattare e rilanciare il vecchio ceto politico liberale contro l’avanzata, per ora più temuta che concreta, delle Estreme. In questo modo l’antitesi Destra-Sinistra Storica che aveva caratterizzato i primi decenni del nuovo Stato veniva a perdere gran parte della sua importanza per lasciare il passo all’ascesa di certi notabili attorno ai quali, negli anni successivi, si sarebbero fatti e disfatti i nuovi equilibri.

GIOLITTI IL RIFORMATORE - La dimostrazione di ciò è costituita dalla storia politica di un personaggio che alla fine degli anni novanta si affacciò alla ribalta della scena pubblica e che sarebbe stato destinato a dominarla per circa tre decenni: Giovanni GIOLITTI. Dopo la laurea in legge intraprese la carriera burocratica. Lavorò in diversi ministeri a contatto con alcuni dei più bei nomi della Destra come SELLA e MINGHETTI, potendone apprezzare l’avversione contro la cosiddetta "finanza allegra". Ma il tratto fondamentale del giolittismo, che maggiormente interessa un’analisi del sistema politico, è sicuramente lo spirito riformatore e modernizzatore di cui lo statista piemontese permeò sempre la propria azione politica.

A riprova di questo nuovo corso è interessante riportare un brano tratto da un articolo che GIOLITTI scrisse nel ‘900 sulla Stampa di Torino da cui emerge la propensione a considerare le ragioni delle masse popolari e di conseguenza la condanna per il metodo dell’indiscriminato "pugno di ferro" proprio del suo predecessore (alla guida del governo e nella leadership della Sinistra) Francesco CRISPI:
"Quando confronto il nostro sistema tributario con quello di tutti i Paesi civili, quando osservo le condizioni delle masse rurali in gran parte d’Italia e le paragono con quelle dei Paesi vicini, resto compreso d’ammirazione per la longanimità e la tolleranza delle nostre plebi, e penso con terrore alle conseguenze di un possibile loro risveglio. Io deploro quanti altri mai la lotta di classe. Ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata? "

E’ bene insistere su questo punto per almeno due ragioni. Intanto perché questo tipo di apertura costituì il vero dato politico nuovo espresso da quella classe dirigente che all’infuori di GIOLITTI e pochi altri (Zanardelli) soffriva da tempo di grave miopia. Questa politica che potremmo definire di ricerca di un nuovo "patto sociale", mantiene tuttora una certa validità in quanto ancora oggi, seppure in tempi, condizioni e modalità diverse, è uno degli oggetti del dibattito politico. In secondo luogo perché tutto ciò ebbe delle conseguenze molto importanti anche per la storia del partito che esprimeva gli interessi ed i bisogni delle classi subalterne, cioè il Partito Socialista.

LE DUE ANlME DEI SOCIALISTI - Fondato nei primi anni dell’Ottocento, il P.S.I., a cavallo tra i due secoli, aveva già al suo interno due anime: quella riformista, favorevole ad una collaborazione con il governo, capeggiata da Filippo TURATI, e quella massimalista, favorevole alla rivoluzione sociale, anche violenta, capitanata da uomini come FERRI o LABRIOLA.
Giolitti considerava ovviamente quale suo interlocutore naturale il Turati, nel quale vedeva l’uomo "ad hoc" con cui sarebbe stato possibile instaurare un rapporto di collaborazione. Ma questo rapporto tra i due non sarebbe mai potuto sfociare in qualcosa di veramente concreto a causa della chiusura in cui si vennero a trovare fra le loro ali estreme.

Tutta la cosiddetta "età giolittiana" fu caratterizzata da questa continua dialettica tra lo Statista di Mondovì ed il Partito Socialista. Basti pensare alla vicenda relativa alla formazione del governo GIOLITTI del 1903.
Nella sorpresa generale, il Re conferì il mandato di formare il nuovo governo a GIOLITTI, non perchè nutrisse per lui una particolare predilezione, anzi i loro rapporti si limitarono sempre all’espletamento dei rispettivi compiti istituzionali senza mai cedere spazio alcuno alla cordialità (soprattutto da parte del Re), ma perchè Vittorio Emanuele III era conscio del fatto che lo Statista piemontese fosse l’unico uomo politico in grado di guidare l’Italia in quel momento.

Durante le trattative per la formazione dell’Esecutivo, GIOLITTI sollecitò la partecipazione nella compagine governativa di ministri socialisti oltre che radicali e repubblicani. TURATI, se fosse stato l’assoluto padrone del partito, avrebbe sicuramente accettato ma ancora una volta le sue mosse furono totalmente condizionate dalle pressioni dell’ala massimalista che lo costrinse a declinare l’invito. GIOLITTI quindi, a causa di queste defezioni, si vide costretto a distribuire i posti ministeriali tra uomini del centro-destra e del centro -sinistra, tornando così alla vecchia logica trasformista inaugurata da DEPRETIS. Come si vede, l’intera responsabilità del mancato accordo politico-sociale tra dirigenza Liberale e rappresentanti della classe operaia ricadde in primo luogo sulla corrente più estremista del P.S.I., la quale è quindi da ritenere, assieme alle opposte correnti ultra-conservatrici, gravemente colpevole della fine dello Stato Liberale ed in qualche misura dell’avvento del Fascismo.

CATTOLICI ALLO SBANDO - Un altro tema interessante da analizzare per avere un quadro complessivo del panorama politico di inizio secolo, è quello del rapporto tra i cattolici e la politica. Fin dai tempi della presa di Roma l’impegno politico dei cattolici era stato reso impraticabile dal " non expedit", cioè dal divieto papale all’impegno politico. Questo divieto sarebbe rimasto ufficialmente in vigore fino al 1929, anno in cui venne soppresso con la firma dei Patti Lateranensi, ma già Papa LEONE XIII si era reso conto di come l’intransigenza non pagasse ed avrebbe continuato a non pagare.

Il sogno clericale di restaurare il potere temporale sullo Stato era definitivamente svanito e quindi il Papa invitò i fedeli a riconoscere lo Stato italiano, cioè uno stato laico e liberale, e al tempo stesso a curarsi dei problemi politici senza tenere conto delle direttive che la gerarchia ancora manteneva ma che ormai erano da considerarsi solo di facciata. A dare il primo esempio di ciò era stato addirittura il Papa stesso con la promulgazione della famosa enciclica "Rerum Novarum" (1891) in cui, tra l’altro, si rivendicavano migliori condizioni di lavoro. Certamente il Papa era pervaso da nobili principi, ma vi è da dire che un’enciclica così "rivoluzionaria" fu anche dettata dalla consapevolezza che se la Chiesa avesse fino allora continuato a tenere un atteggiamento distaccato verso i problemi sociali, le masse popolari sarebbero state totalmente in balia del Partito Socialista, con grave nocumento per la Chiesa stessa. Negli anni successivi i nuovi fermenti cattolici crebbero sempre più con la formazione di movimenti e associazioni (una delle quali si chiamava Democrazia Cristiana). Alla morte di LEONE XIII avvenuta nel 1903, il conclave elesse il Patriarca di Venezia Giuseppe Sarto che prese il nome di PIO X.

COMPROMESSO STORICO PAPALE - Egli era considerato, a ragione, un conservatore ed infatti considerava i Modernisti, cioè quella corrente cattolica che credeva nella revisione dei dogmi adattandoli alle nuove scoperte scientifiche, come i suoi peggiori nemici, a tal punto che non esitò ad allestire una "caccia alle streghe" di stampo medievale ed a rompere le relazioni diplomatiche con la Francia, rea a suo parere, di avere alimentato le spinte moderniste. Anche la sua posizione verso i movimenti cattolici fu di totale chiusura, prova ne sia lo scioglimento della Democrazia Cristiana. Gli atteggiamenti del nuovo Papa sembrarono un passo indietro per l’integrazione dei cattolici nella vita politica e invece non fu così.

Egli era infastidito dagli intendimenti programmatici della Democrazia Cristiana per il fatto che contenevano idee socialisteggianti e soprattutto filomoderniste ma ben presto capì che per combattere questa corrente, che egli considerava un’eresia, era necessario l’appoggio dello Stato, il quale glielo avrebbe concesso solo se le gerarchie ecclesiastiche avessero compiuto atti concreti di condanna verso gli atteggiamenti filosocialisti o sovversivi. Pio X quindi caldeggiò esplicitamente intese dei clerico-moderati con i liberal-conservatori. Dal canto suo GIOLITTI, sui rapporti fra Stato e Chiesa, si manteneva sulle classiche posizioni cavouriane che prevedevano la non interferenza reciproca, me era anche ben conscio dell’influenza che le gerarchie cattoliche esercitavano su ampi strati delle masse popolari o piccolo-borghesi. Un’intesa con loro avrebbe consentito a Giolitti di usufruire di un appoggio parlamentare decisivo. egli in pratica ritentò ciò che non gli era pienamente riuscito con i socialisti. Nei suoi piani i cattolici dovevano diventare un’altra componente di quell’ampio mosaico di forze di cui lui era, e doveva essere per molti anni ancora, la figura centrale. E così avvenne, sia pure a fasi alterne, per tutta l’ "eta giolittiana", cioè più o meno fino alla vigilia della prima guerra mondiale.

STATO LIBERALE AL CRAK - Ma fu solo dopo le riforme del sistema elettorale, dapprima con l’estensione del suffragio universale maschile e poi con l’istituzione del sistema proporzionale, che le masse cattoliche poterono trovare un’autonoma rappresentanza politica, espressa dal Partito popolare di DON STURZO. Alla soglia degli anni ‘20 le fondamenta dello stato Liberale erano quindi ormai irrimediabilmente minate. Omogeneità sociale, suffragio ristretto, sistema maggioritario, prevalenza del sistema dei notabili su quello dei partiti, erano diventati solo il ricordo di un’epoca che stava imboccando il viale del tramonto. Il cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), cioè quel periodo caratterizzato da scioperi e disordini, diede un’ulteriore e robusta spallata, ma fu presto chiaro a tutti che a dare il colpo definitivo alla forma di Stato che aveva accompagnato l’Italia dalla sua Unità, ci avrebbe pensato un neonato movimento di recente costituzione e dagli incerti tratti ideologici: il Fascismo di BENITO MUSSOLINI.

Claudio Martinelli

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alle soglie del 2000

Dopo l�introduzione di un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario (1993) il sistema politico sta cercando di ritrovare un suo equilibrio sulla formula delle coalizioni le cui più importanti sono l�Ulivo (centrosinistra) ed il Polo delle Libertà (centrodestra): questi eventi non appartengono alla storia, ma alla cronaca ed è appunto all�ambito della cronaca che, per onestà intellettuale, sembra opportuno lasciarli.

TABELLONE ANALISI GENERALE - comprese le nuove riforme elettorali

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