CHARLES DARWIN - ORIGINE DELL'UOMO
CAPITOLO VII.
Delle razze umane.
Natura e valore dei caratteri specifici – Applicazione alle razze umane – Argomenti in favore e contrari per considerare le così dette razze umane come specie distinte – Sottospecie – Monogenisti e poligenisti – Convergenza di carattere – Numerosi punti di rassomiglianza nel corpo e nella mente fra le razze umane più distinte – Stato dell’uomo quando cominciò ad estendersi sulla terra – Ogni razza non discende da una sola coppia – Estinzione di razze – Formazione di razze – Effetti dell’incrociamento – Scarsa influenza dell’azione diretta delle condizioni della vita – Scarsa e nessuna influenza della scelta naturale – Scelta sessuale.
Non è mia intenzione descrivere qui le varie razze umane; ma bensì ricercare quale sia il valore delle differenze che passano fra loro dal punto di vista della loro classificazione, e come abbiano avuto origine. I naturalisti, per affermare se due o molte forme affini debbano essere considerate come specie o varietà, si regolano praticamente secondo le seguenti considerazioni: cioè, la somma delle differenze fra loro, e se queste si riferiscano a pochi o molti punti di struttura; e se abbiano importanza fisiologica; ma più specialmente se siano costanti. La costanza del carattere è ciò che agli occhi del naturalista ha maggior valore e si ricerca maggiormente. Ogniqualvolta si possa dimostrare, o sia reso probabile, che le forme in questione siano rimaste per un lungo periodo distinte, questo diviene un argomento di molto peso per poterle considerare come specie. Anche un lieve grado di sterilità fra due forme quando si vennero dapprima incrociando, o nella loro prole, viene generalmente considerato come una testimonianza decisiva della loro speciale distinzione; e la loro continuata persistenza nel non mescolarsi nella stessa area viene per solito accettata come una sufficiente evidenza, sia di un certo grado di mutua sterilità, o, nel caso di animali, come una certa ripugnanza ad un mutuo accoppiamento.
Indipendentemente dal mescolarsi per via dell’incrociamento, l’assoluta mancanza, in una regione bene esplorata, di varietà che colleghino assieme due date forme molto affini, è probabilmente il più importante criterio della loro specifica distinzione; e questa è una considerazione in certo modo differente dalla semplice costanza di carattere, perchè due forme possono essere variabilissime e tuttavia non presentare varietà intermedie. Spesso la distribuzione geografica vien portata inconsapevolmente e talora consapevolmente in causa; cosicchè certe forme che vivono in due aree lontanissime fra loro, nelle quali la maggior parte degli altri abitanti sono specificamente distinti, sono esse stesse usualmente considerate come distinte; ma, invero, questo non aiuta a distinguere le razze geografiche dalle cosidette buone o vere specie.
Ora applichiamo questi principi generalmente ammessi alle razze umane, e consideriamole collo stesso spirito come un naturalista considera qualunque altro animale. Rispetto alla somma delle differenze fra le razze, dobbiamo fare qualche concessione ai nostri delicati mezzi di distinzione acquistati col lungo abito di osservar noi stessi. Nell’India, come osserva Elphinstone, sebbene un europeo giunto di fresco non possa dapprima distinguere le varie razze indigene, pure esse gli appaiono a bella prima sommamente dissimili; e l’Indù non può scorgere subito nessuna differenza fra le varie nazioni europee. Anche le razze umane più distinte, eccettuate certe tribù nere, sono molto più rassomiglianti fra loro nella forma di quello che si crederebbe a tutta prima. Ciò è bene dimostrato dalle fotografie francesi nella Collection Anthropologique du Musèum degli uomini appartenenti a varie razze, il maggior numero dei quali, come hanno osservato molte persone a cui le ho mostrate, potrebbero essere creduti europei. Nondimeno, se quegli uomini fossero veduti vivi, apparirebbero senza alcun dubbio distintissimi, cosicchè noi evidentemente ci lasciamo molto guidare nel nostro giudizio dal semplice colore della pelle e dei capelli, da piccole differenze nelle fattezze e dall’espressione.
Tuttavia non v’ha dubbio che le varie razze, quando siano accuratamente comparate e misurate, differiscono molto fra loro – nella tessitura dei loro capelli, nelle relative proporzioni di tutte le parti del corpo, nella capacità dei polmoni, nella forma e nella capacità del cranio, ed anche nelle circonvoluzioni del cervello. Ma sarebbe un còmpito sterminato quello di specificare i numerosi punti di differenza nella struttura. Le razze differiscono pure nella costituzione, nella facoltà di acclimarsi e nella facilità a contrarre certe malattie. Anche i caratteri speciali della mente sono molto distinti; principalmente, come sembrerebbe, nelle loro facoltà di emozione, ma in parte nelle loro facoltà intellettuali. Chiunque abbia avuto l’opportunità di far comparazioni, deve essere rimasto colpito, dal contrasto che passa fra l’indigeno del sud America taciturno e anche stizzoso, col negro giocondo e ciarliero. Lo stesso contrasto s’incontra fra i Malesi e i Papuani, che vivono nelle stesse condizioni fisiche, e non sono separati gli uni dagli altri se non da uno stretto tratto di mare.
Cominceremo a considerare gli argomenti che possono essere prodotti in favore della classificazione delle razze umane come specie distinte, e poi quelli opposti. Se un naturalista che non avesse mai veduto prima cosiffatte creature avesse da comparare un Nero, un Ottentoto, un Australiano o un Mongolo, vedrebbe subito che differiscono in moltissimi caratteri, alcuni di poca, altri di molta importanza. Colla investigazione troverebbe che furono adattati per vivere in climi al tutto differenti, e che essi differiscono in certo modo nella struttura corporea e nelle disposizioni mentali. Se allora gli venisse detto che centinaia di cosiffatti esemplari potrebbero essere portati dagli stessi paesi, egli certo dichiarerebbe che essi sono vere specie come qualunque altra cui è solito assegnare nomi specifici. Questa conclusione acquisterebbe una forza molto più grande quando fosse certo che quelle forme hanno tutte conservato lo stesso carattere per lo spazio di molti secoli; e che altri neri, apparentemente identici ai neri attuali, hanno vissuto almeno 4000 anni or sono. Egli sentirebbe pure da un eccellente osservatore, il dottor Lund, che i crani umani trovati nelle caverne del Brasile, sepolti con molti mammiferi estinti, appartenevano allo stesso tipo che ora prevale in tutto il Continente americano.
Il nostro naturalista allora si volgerebbe forse alla distribuzione geografica, e probabilmente dichiarerebbe che le forme le quali differiscono non solo nell’apparenza, ma che sono acconce pei paesi caldissimi ed umidissimi o asciuttissimi, come pure per le regioni artiche, debbono essere specie distinte. Egli potrebbe appoggiarsi al fatto che nessuna specie del gruppo affine all’uomo, cioè dei quadrumani, può resistere ad una bassa temperatura e a nessun notevole mutamento di clima; e che quelle specie che vengono più prossime all’uomo non sono mai state allevate fino ad essere adulte, anche nel clima temperato di Europa. Egli sarebbe profondamente colpito dal fatto, notato dapprima da Agassiz, che le differenti razze umane sono distribuite nel mondo nelle stesse provincie zoologiche, come quelle che sono abitate da specie e generi di mammiferi certamente distinti. È evidente che questo è il caso per le razze umane, Australiane, Mongole e Nere; in un modo meno evidente per gli Ottentoti, ma chiaramente pei Papuani ed i Malesi, che sono separati, come ha dimostrato il sig. Wallace, da quasi la stessa linea che divide le grandi provincie zoologiche malesi ed australiane. Gli indigeni di America si distribuiscono in tutto il Continente; e ciò a prima vista sembra contrario alla regola sopra detta, perchè la maggior parte delle produzioni della metà settentrionale differiscono grandemente; tuttavia alcune poche forme viventi, come l’Opossum, si distribuiscono dall’una all’altra, ciò che seguiva anticamente di alcuni giganteschi Sdentati. Gli Esquimali, come gli altri animali artici, si estendono intorno a tutte le regioni polari. Giova notare che le forme di mammiferi che abitano parecchie provincie zoologiche non differiscono fra loro nello stesso grado; cosicchè si può appena considerare come una anomalia il fatto che il Nero differisca più, e l’Americano molto meno, dalle altre razze umane, che non i mammiferi degli stessi Continenti da quelli delle altre provincie. Si può tuttavia soggiungere che l’uomo non sembra avere in origine abitato nessuna isola oceanica; e per questo riguardo rassomiglia agli altri membri dello sua classe.
Volendo affermare se le varietà della stessa specie di animale domestico possano essere collocate in un posto specificamente distinto, vale a dire, se ognuna di esse discenda da qualche specie selvatica distinta, ogni naturalista darà molta importanza al fatto, qualora venga riconosciuto, dell’essere i loro parassiti esterni specificamente distinti. Si dovrebbe dare a questo fatto la maggiore importanza possibile, siccome sarebbe un fatto eccezionale, perchè il signor Denny mi disse che le razze di cani, di pollame e di piccioni più differenti, sono, in Inghilterra, infestate dalla stessa specie di pediculi o pidocchi. Ora il signor A. Murray ha accuratamente esaminato i pediculi raccolti nei vari paesi da uomini di razze differenti ed egli ha trovato che differiscono non solo nel colore, ma anche nella struttura dei loro uncini e delle membra. Ogniqualvolta si ottenevano molti esemplari, le differenze erano pure costanti. Il chirurgo di un bastimento baleniero del Pacifico mi assicurò che quando i pediculi che brulicavano addosso ad alcuni indigeni delle isole Sandwich che erano a bordo andarono sul corpo dei marinai inglesi, quei parassiti in capo a tre o quattro giorni morirono tutti. Quei pediculi erano di colore più oscuro e sembravano differenti da quelli propri agli indigeni di Chiloe nel Sud America, di cui mi diede alcuni esemplari. Questi pure sembravano più grossi e più molli dei pidocchi europei. Il signor Murray si procurò quattro specie di essi dall’Africa, cioè dai neri delle coste occidentali ed orientali, dagli Ottentoti e dai Cafri; due specie dagli indigeni dell’Australia; due dall’America settentrionale, e due dalla meridionale. In questi ultimi casi è presumibile che i pediculi venissero da indigeni che abitavano distretti differenti. Negli insetti le leggere differenze di struttura, quando sono costanti, sono generalmente stimate di valore specifico; e il fatto che le razze umane sono infestate da parassiti che sembrano essere specificamente distinti, può bene essere portato come un argomento che le razze stesse debbano essere classificate come specie distinte.
Il nostro supposto naturalista essendosi così inoltrato nelle sue investigazioni, cercherà di sapere poi se le razze umane, quando s’incrociarono, furono in qualche grado sterili. Egli potrebbe consultare il libro di un accurato filosofo osservatore, il prof. Broca: ed in quello egli troverebbe buone testimonianze che alcune razze erano fra loro al tutto feconde; ma troverebbe pure altre testimonianze di natura opposta riguardo ad altre razze. Così è stato asserito che le donne indigene dell’Australia e della Tasmania di rado producono figli agli uomini europei; tuttavia l’esempio di questo fatto è stato ora dimostrato non aver quasi alcun valore. I meticci sono uccisi dai neri puri; ed è stata ultimamente pubblicata una relazione di undici giovani meticci uccisi e bruciati nello stesso tempo, gli avanzi dei quali furono trovati dalla polizia. Parimente è stato detto sovente che quando i mulatti si sposano fra loro, producono pochi figli; d’altra parte il dott. Buchman di Charlestown asserisce positamente che egli ha conosciuto famiglie di mulatti che per parecchie generazioni si sono coniugati fra loro, ed hanno continuato ad essere tanto fecondi quanto gli schietti bianchi e gli schietti neri. Le ricerche che furono fatte antecedentemente da sir C. Lyell intorno a questo oggetto lo hanno condotto, mi disse, alla stessa conclusione. Negli Stati Uniti il censimento dell’anno 1854 comprendeva, secondo il dott. Buchman, 405.571 mulatti, e questo numero, considerando tutte le circostanze del fatto, sembra piccolo, ma può essere in parte attribuito alla condizione degradata ed anomala della classe, ed alla dissolutezza delle donne. Un certo grado di assorbimento dei mulatti per parte dei neri deve essere in via; e questo produce una apparente diminuzione nel numero di essi. In un libro degno di fede si parla della minore vitalità dei mulatti come di un fenomeno conosciutissimo; ma questa considerazione è molto diversa da quella della loro minore fecondità; e non può quasi essere addotta come una prova della specifica distinzione delle razze dei genitori. Senza dubbio gli ibridi, tanto animali che vegetali, quando sono prodotti da specie sommamente distinte, van soggette ad una morte prematura; ma i genitori dei mulatti non possono essere considerati come specie sommamente distinte. Il mulo comune, tanto noto per la sua lunga vita e pel suo vigore, e tuttavia sterile, dimostra quanta poca relazione siavi negli ibridi fra la minore fecondità e la vitalità: si potrebbero aggiungere altri casi analoghi.
Anche se fosse in seguito provato che tutte le razze umane sono fra loro perfettamente feconde, quello che fosse propenso per altre ragioni a considerarle come specie distinte potrebbe giustamente asserire che la fecondità e la sterilità non sono sani criteri di specifica distinzione. Sappiamo che queste facoltà possono venire alterate facilmente dalle mutate condizioni della vita o da una stretta parentela, e che sono rette da leggi grandemente complesse, per esempio quella della disuguale fecondità dei reciprochi incrociamenti fra le due specie medesime. Nelle forme che si debbono collocare fra le specie non dubbie esiste una serie perfetta da quelle che sono assolutamente sterili quando sono incrociate, a quelle che sono quasi o al tutto feconde. Il grado di sterilità non coincide strettamente col grado di differenza nella struttura esterna o nel modo di vivere. Per molti riguardi l’uomo può essere comparato con quegli animali che sono da lunga pezza addomesticati, e si può produrre un gran numero di prove in favore della dottrina di Pallas, che l’addomesticamento tende ad eliminare la sterilità, che è un effetto tanto generale dell’incrociamento delle specie allo stato di natura. Da queste varie considerazioni si può giustamente dedurre che la perfetta fecondità delle razze umane incrociate, qualora sia ben riconosciuta, non ci deve assolutamente impedire di collocarle come specie distinte.
Indipendentemente dalla fecondità, il carattere del prodotto di un incrociamento è stato talora creduto somministrare la prova se i genitori debbono essere considerati come specie o varietà; ma dopo avere studiato accuratamente questa prova, sono venuto a conchiudere che non si può prestar fede a nessuna regola generale di questa sorta. Così nel genere umano la figliuolanza di razze distinte rassomiglia per tutti i riguardi alla prole delle vere specie e delle varietà. Questo è dimostrato, per esempio, dal modo in cui i caratteri dei due genitori sono mescolati, e da ciò che una forma assorbe un’altra mercè ripetuti incrociamenti. In quest’ultimo caso la progenie delle due specie e varietà incrociate conserva per lungo tempo una tendenza a retrocedere verso i suoi antenati, specialmente verso quello che è più potente nella trasmissione. Quando qualche carattere è comparso ad un tratto in una razza o specie come effetto di un semplice atto di variazione, come si vede generalmente nelle mostruosità, e questa razza viene incrociata con un’altra non cosiffattamente caratterizzata, i caratteri in questione non appaiono comunemente in una condizione mista nei giovani, ma vengono loro trasmessi sia al tutto o per nulla sviluppati. Siccome raramente, o quasi mai, s’incontrano casi di questa sorta nelle razze umane incrociate, ciò potrebbe essere portato come un argomento contro le idee suggerite da alcuni etnologi, cioè che certi caratteri, per esempio, il colore del nero, sia comparso dapprima come una varietà subitanea o gioco. Se questo fosse stato il caso, è probabile che i mulatti sarebbero nati o al tutto neri o al tutto bianchi.
Abbiamo ora veduto che un naturalista può sentirsi pienamente giustificato nel considerare le razze umane come specie distinte; perchè egli ha trovato che si distinguono per molte differenze di struttura e di costituzione, alcune delle quali di una certa importanza. Queste differenze sono rimaste del pari quasi costanti per lunghissimi periodi di tempo. Egli sarà stato in un certo modo indotto a ciò fare per l’enorme cerchia abbracciata dall’uomo, che è una grande anomalia nella classe dei mammiferi, qualora l’uomo fosse per essere considerato come una specie sola. Sarà stato colpito dal modo in cui si distribuiscono le varie così dette razze, in rapporto con altre specie di mammiferi che sono indubbiamente distinte. Finalmente potrà dedurre che la mutua fecondità di tutte le razze non è stata ancora pienamente dimostrata, ed anche dimostrata non sarebbe una prova assoluta della loro specifica identità.
Guardando la questione dall’altro lato, se il nostro supposto naturalista volesse vedere se le forme dell’uomo siansi mantenute distinte come specie ordinarie, quando si sono mescolate in gran numero in uno stesso paese, egli scorgerebbe immediatamente che questo non è stato per nulla il caso. Vedrebbe nel Brasile una immensa popolazione incrociata di Neri e di Portoghesi; al Chilì ed in altre parti dell’America meridionale troverebbe che tutta la popolazione è composta di Indiani e Spagnuoli incrociati in vari gradi. In molte parti dello stesso Continente incontrerebbe gl’incrociamenti più complessi fra Neri Indiani, ed Europei; e questi triplici incrociamenti somministrano le prove più convincenti, se vogliamo giudicare dal regno vegetale, della mutua fecondità dei progenitori. In un’isola del Pacifico troverebbe una piccola popolazione di sangue inglese misto con quello della Polinesia; e nell’Arcipelago Viti una popolazione di Polinesi e di Neri incrociati in tutti i gradi. Si potrebbero aggiungere a questi molti altri casi, per esempio, nell’America meridionale. Quindi le razze umane non sono sufficientemente distinte per coesistere senza fusione; e questo è ciò che in tutti i casi ordinari somministra la prova consueta alla distintività specifica.
Il nostro naturalista sarebbe pure molto contrariato scorgendo che i caratteri distintivi di ogni razza umana sono grandemente variabili. Questo colpisce ognuno che osservi per la prima volta gli schiavi neri del Brasile, i quali sono stati colà portati da tutte le parti dell’Africa. La stessa osservazione serve pei Polinesi e per molte altre razze. Si può dubitare se un qualsiasi carattere possa essere menzionato, il quale sia distintivo di una razza e ad essa costante. I selvaggi, anche nei limiti della stessa tribù, non sono tanto uniformi nei caratteri quanto si è sovente asserito. Le donne ottentote presentano alcune particolarità molto più fortemente spiccate che non quelle che presenta qualunque altra razza, ma si sa che queste particolarità non sono costanti. In varie tribù americane il colore e la capigliatura differiscono notevolmente; ciò si osserva pure sino a un certo punto nel colore, e molto spiccatamente nella forma delle fattezze dei Neri dell’Africa. La forma del cranio varia molto in alcune razze; e ciò segue pure di ogni altro carattere. Ora tutti i naturalisti hanno imparato, mercè una esperienza caramente acquistata, quanto sia cosa temeraria definire la specie appoggiandosi a caratteri incostanti.
Ma l’argomento che ha maggior peso contro l’idea di considerare le razze umane come specie distinte è questo, che si graduano l’una sull’altra, indipendentemente in molti casi, almeno da quanto possiamo giudicare, dall’essersi incrociate. L’uomo è stato studiato con maggior cura che non qualunque altro essere organico, e tuttavia v’ha la più grande diversità possibile fra i vari giudici competenti nell’opinione se egli debba essere considerato come una specie o razza unica, o come due (Virey), come tre (Jacquinot), come quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory St-Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawfurd), o sessantatre secondo Burke. Questa diversità di giudizio non prova che le razze non debbano essere classificate come specie, ma dimostra che si graduano l’una nell’altra, e che non è quasi possibile discernere i caratteri chiaramente distinti che le separano.
Qualunque naturalista che abbia avuto la disgrazia di imprendere la descrizione dì un gruppo di organismi grandemente mutevoli, ha incontrato certi casi (parlo per esperienza) precisamente simili a quelli dell’uomo, e se egli è inclinato ad andar con cautela, finirà per riunire tutte le forme che si graduano l’una nell’altra in una sola specie; perchè egli dirà a se stesso che non ha il diritto di dare nomi ad oggetti che non può definire. Questa sorta di casi si presentano nell’ordine che comprende l’uomo, cioè in certi generi di scimmie; mentre in altri generi, come nel Cercopiteco, la maggior parte delle specie possono essere determinate con certezza. Nel genere americano Cebus le varie forme sono considerate da alcuni naturalisti come specie, e da altri come razze puramente geografiche. Ora se si raccogliessero i numerosi esemplari di Cebi da ogni parte dell’America meridionale, e si trovasse che quelle forme che ora sembrano essere specificamente distinte vanno gradatamente fondendosi le une nelle altre con passi vicini, verrebbero classificate dalla maggior parte dei naturalisti come semplici varietà o razze; e ciò hanno fatto la maggior parte dei naturalisti rispetto alle razze umane. Nondimeno bisogna confessare che vi sono forme, almeno nel regno vegetale, che non possiamo a meno di chiamare specie, ma che sono collegate assieme, indipendentemente dall’incrociamento, per via di innumerevoli gradazioni.
Alcuni naturalisti hanno recentemente adoperato il nome di sotto-specie per indicare forme che posseggono molti dei caratteri delle vere specie, ma che non meritano un posto così elevato. Ora, se consideriamo i gravi argomenti addotti per elevare le razze umane alla dignità di specie, e le difficoltà insuperabili dall’altro lato per definirle, il vocabolo sotto-specie può qui essere adoperato molto propriamente. Ma per la lunga abitudine il vocabolo razza sarà forse sempre adoperato. La scelta dei vocaboli è importante per ciò solo che sarebbe grandemente da desiderare che si facesse uso, per quanto fosse possibile, degli stessi termini per ogni grado di differenza. Per disgrazia ciò è raramente possibile; perchè dentro la stessa famiglia i generi più grandi comprendono consuetamente forme intimamente affini, che non si possono distinguere se non con grande difficoltà, mentre i generi più piccoli comprendono forme che sono perfettamente distinte; ciononostante debbono essere tutte classificate come specie. Parimente le specie di un solo grande genere non si rassomigliano fra loro per nulla nello stesso grado; al contrario, in molti casi alcune di esse possono essere disposte in piccoli scompartimenti intorno ad altra specie, come i satelliti intorno ai pianeti.
La questione se il genere umano si componga di una o di parecchie specie è stata in questi ultimi anni molto discussa dagli antropologi, i quali si dividono in due scuole, monogenisti e poligenisti. Coloro i quali non ammettono il principio della evoluzione, debbono considerare le specie o come creazioni separate, o in certo modo come entità distinte; e debbono decidere quali forme abbiano da classificare come specie per la loro analogia con altri esseri organici, che vengono comunemente così ricevuti. Ma non c’è speranza di decidere questo argomento con buone ragioni finchè una qualche definizione del vocabolo specie non sia generalmente accettata; e la definizione non deve inchiudere un elemento che non possa essere possibilmente bene accertato, come, per esempio, un atto di creazione. Sarebbe del pari difficile volere decidere senza una qualche definizione se un certo numero di case possa essere chiamato villaggio, paese o città. Abbiamo un esempio pratico di questa difficoltà negli eterni dubbi per sapere se molti mammiferi, uccelli, insetti e piante, tutti strettamente affini, che si rappresentano fra loro nell’America settentrionale ed in Europa, possano essere classificati come specie o come razze geografiche; e ciò segue pure per le produzioni di molte isole collocate a qualche piccola distanza dal Continente più vicino.
D’altra parte quei naturalisti che ammettono il principio della evoluzione, e questo è ora ammesso dal maggior numero dei nuovi naturalisti, non avranno alcun dubbio a credere che tutte le razze umane derivino da uno stipite primitivo unico; siano o no inclinati a considerarle come specie distinte, onde poter così esprimere le loro varie differenze. Nel caso dei nostri animali domestici in questione è differente se le varie razze provengano da una o più specie. Quantunque tutte queste razze, come pure tutte le specie naturali di uno stesso genere, abbiano avuto senza dubbio origine da uno stesso stipite primiero, tuttavia è da discutere se, per esempio, tutte le razze domestiche del cane abbiano acquistato le loro attuali differenze dacchè una qualche specie venne primamente addomesticata ed allevata dall’uomo; o se vadan debitori dei loro caratteri all’eredità da qualche specie distinta, stata già modificata nello stato di natura. Una così fatta questione non può venire pel genere umano, perchè non si può dire che esso sia stato addomesticato in nessun periodo particolare.
Quando le razze umane ebbero, in un’epoca sommamente remota, deviato dal loro comune progenitore, non saravvi stata fra loro grande differenza, e saranno state poco numerose; in conseguenza allora non avranno avuto, almeno per ciò che riguarda i caratteri distintivi, maggiore diritto ad essere classificate come specie distinte, che non le esistenti sottorazze. Nondimeno quelle razze primitive sarebbero forse state classificate da alcuni naturalisti come specie distinte, per quanto arbitrario sia il nome, se le loro differenze, quantunque lievissime, fossero state più costanti che non ora e non si fossero andate confondendo gradatamente le une nelle altre.
È nondimeno possibile, sebbene sia tutt’altro che probabile, che i primi progenitori dell’uomo abbiano potuto dapprima deviare molto nel carattere, fino a divenire più differenti gli uni dagli altri che non lo siano nessuna delle razze esistenti; ma in seguito, come osserva Vogt, si siano riavvicinati nel carattere. Quando l’uomo sceglie per lo stesso scopo la prole di due specie distinte, egli talvolta ne deduce, per quello che riguarda l’apparenza generale, un notevole complesso di convergenze. Questo avviene nel caso, come dimostra Von Nathusius, delle razze migliorate di maiali che sono derivate da due specie distinte, ed in un modo non tanto evidente per le razze migliorate del bestiame. Un grande anatomico, Gratiolet, afferma che le scimmie antropomorfe non formano un sotto-gruppo naturale; ma che l’urango è un ilobate od un semnopiteco molto sviluppato; lo scimpanzè un macaco grandemente sviluppato; ed il gorilla un mandrillo pure grandemente sviluppato. Se questa conclusione, che si appoggia quasi esclusivamente sui caratteri del cervello, fosse ammessa, avremmo un caso di convergenza almeno nei caratteri esterni, perchè le scimmie antropomorfe si rassomigliano certamente in molti punti fra loro più di quello che rassomiglino alle altre scimmie. Tutte le rassomiglianze analogiche, come quella di una balena con un pesce, possono invero venir dette casi di convergenza; ma questo vocabolo non è mai stato applicato a rassomiglianze superficiali e di adattamento. Sarebbe in moltissimi casi sommamente temerario attribuire alla convergenza la stretta similarità in molti punti di struttura in esseri che un tempo sono stati grandemente diversi. La forma di un cristallo è determinata puramente dalle forze molecolari, e non v’ha da far le meraviglie che certe sostanze dissimili assumano talora la stessa forma; ma per ciò che riguarda gli esseri organici dovremmo tenere a mente che la forma di ognuno dipende da una infinità di relazioni complesse, cioè dalle variazioni che sono dovute a cause troppo intricate per potersi indagare – dalla natura delle variazioni che si sono conservate, e queste dipendono dalle condizioni fisiche circostanti, ed in un grado ancor più elevato dagli organismi circostanti coi quali ognuno è venuto in lotta, – ed infine dall’eredità (la quale è in se stessa un elemento mobile) di innumerevoli progenitori, i quali tutti hanno avuto le loro forme determinate per via di relazioni parimente complesse. Sembra al tutto incredibile che due organismi, qualora siano fra loro molto differenti, possano poi convergere tanto intimamente da accostarsi quasi all’identità in tutta la loro organizzazione. Nel caso delle razze convergenti di maiali, di cui ho parlato sopra, rimane ancora evidentemente conservata, secondo Von Nathusius, la prova della loro origine da due stipiti primitivi, in certe ossa del loro cranio. Se le razze umane fossero derivate, secondo che credono alcuni naturalisti, da due o più specie distinte, che si sarebbero tanto discostate fra loro, o quasi altrettanto, quanto l’urango differisce dal gorilla, non si può quasi porre indubbio che si sarebbero osservate spiccate differenze nella struttura di certe ossa anche nell’uomo attuale.
Quantunque le razze umane attuali differiscano fra loro per molti rispetti, come nel colorito, nei capelli, nella forma del cranio, nelle proporzioni del corpo, ecc., tuttavia se tutta la loro organizzazione fosse presa in considerazione, si troverebbe che si rassomigliano fra loro strettamente in moltissimi punti. Molti di questi punti hanno così poca importanza, o sono di una natura tanto singolare, che è sommamente improbabile che essi siano stati acquistati indipendentemente da specie o razze in origine ben distinte. La stessa osservazione può essere mantenuta con pari o maggiore ragione riguardo ai numerosi punti dì rassomiglianze mentali fra le razze umane più distinte. Gli aborigeni Americani, i Neri e gli Europei differiscono fra loro nelle facoltà mentali come qualunque delle altre tre razze che possano venire citate; tuttavia io ero continuamente colpito, mentre vivevo cogli indigeni della Terra del Fuoco a bordo della Beagle, da molti piccoli tratti di carattere, che dimostravano quanto le loro menti siano simili alle nostre; e ciò seguivo pure con un nero puro sangue, col quale ebbi l’occasione di essere in intimità.
Chi voglia leggere attentamente le opere interessanti dei signori Tylor e J. Lubbock, non potrà a meno di essere colpito profondamente dalla stretta rassomiglianza che esiste fra gli uomini di tutte le razze, nei gusti, nelle disposizioni e nelle abitudini. Ciò dimostra il piacere che tutti provano nel ballo, nella rozza musica, nel recitare, nel dipingersi, nell’imprimersi segni sul volto, e in altri modi per abbellirsi – nel comprendersi a vicenda col linguaggio dei gesti – e, come potrò dimostrare in un successivo lavoro, per la stessa espressione delle fattezze del volto, e per certi gridi inarticolati, quando sono eccitati da varie emozioni. Questa somiglianza, o meglio identità, colpisce quando si confronta colle diverse espressioni che si possono osservare nelle scimmie di specie distinte. Vi sono prove evidenti che l’arte di scoccare l’arco e le frecce non è stata trasmessa da nessun progenitore comune del genere umano, tuttavia le punte di frecce di selce raccolte in tutte le parti più lontane del mondo e fatte nei periodi più remoti, sono, siccome ha dimostrato Nilsson, quasi identiche; e questo fatto non può essere attribuito se non che all’essere le varie razze dotate delle stesse forze inventive o mentali. La stessa osservazione è stata fatta dagli archeologi riguardo a certi ornamenti molto prevalenti, come i ghirigori, ecc., e riguardo a varie semplici credenze e vari costumi, come bruciare i morti sotto costruzioni megalitiche. Mi ricordo di aver osservato nell’America meridionale che colà, come in molte altre parti del mondo, l’uomo ha generalmente scelto le cime di alte colline onde ammucchiarvi sopra cumuli di sassi, sia per ricordare qualche evento notevole, sia per seppellirvi i suoi morti.
Ora quando certi naturalisti osservano un’intima concordanza in un gran numero di piccoli particolari di abitudini, gusti e disposizioni fra due o più razze domestiche, o fra forme naturali intimamente affini, sogliono considerare questo fatto come un argomento che tutti discendono da un comune progenitore che era cosiffattamente dotato; e in conseguenza che tutti debbano essere classificati nelle medesime specie. Lo stesso argomento può essere applicato con maggior forza alle razze umane.
Siccome è improbabile che i numerosi e poco importanti punti di rassomiglianza che esistono fra le varie razze umane nella struttura corporea e nelle facoltà mentali (non parlo qui di costumi somiglianti) possano essere stati acquistati indipendentemente, essi debbono essere stati ereditati da progenitori i quali erano cosiffattamente caratterizzati. Noi otteniamo così una certa luce intorno allo stato primiero dell’uomo, prima che sia andato man mano spargendosi sulla faccia della terra. Lo estendersi dell’uomo in regioni grandemente separate dal mare ha preceduto senza dubbio ogni notevole somma di divergenze di carattere nelle varie razze, perchè altrimenti noi incontreremmo alle volte la stessa razza in continenti distinti; e questo non è mai il caso. Sir J. Lubbock, dopo aver comparato le arti che si praticano ora dai selvaggi in tutte le parti del mondo, specifica quelle che l’uomo non può avere conosciuto quando dapprima si allontanò dal luogo della sua nascita; perchè una volta che fossero state imparate non le avrebbero più dimenticate. Egli dimostra così che “la lancia, che non è altro che lo sviluppo di una punta di coltello, e la clava, che è solo un lungo martello, sono le uniche cose che rimangono”. Egli tuttavia ammette che l’arte di far fuoco è stata probabilmente già scoperta, perchè è comune a tutte le razze che esistono oggi, ed era nota agli antichi abitanti delle caverne di Europa. Forse l’arte di costruire rozze barche o zattere era nota del pari; ma siccome l’uomo ha esistito in un’epoca remota, quando la terra in molti punti era di un livello molto differente, egli può essere riuscito ad espandersi grandemente senza l’aiuto di barche. Sir J. Lubbock osserva inoltre quanto sia improbabile che i nostri primieri antenati abbiano potuto “contare fino a dieci, mentre tante razze che esistono ora non possono andare più in là di quattro”. Nondimeno, in quell’antichissimo periodo le facoltà intellettuali e sociali dell’uomo non possono essere state di molto inferiori a quelle che posseggono oggi i selvaggi più degradati; altrimenti l’uomo primitivo non avrebbe potuto rimanere cosiffattamente vincitore nella lotta per l’esistenza come lo dimostra la sua antica e grande diffusione.
Dalle differenze fondamentali che esistono fra certi linguaggi alcuni filologi hanno tratto la conseguenza che quando l’uomo andò per la prima volta diffondendosi largamente, egli non aveva la facoltà di parlare; ma si può supporre che qualche lingua, molto più imperfetta di qualunque che si parli ora, aiutata dai gesti, potesse venire adoperata, e che non abbia poi lasciato alcuna traccia di sè nelle lingue susseguenti e meglio sviluppate. Senza l’uso di qualche linguaggio, per quanto imperfetto fosse, sembra difficile che l’intelletto umano avrebbe potuto elevarsi fino al livello voluto dalla sua posizione dominatrice in un periodo primitivo.
Se l’uomo primitivo, quando non possedeva che poche e rozze arti, e la sua facoltà di parlare era sommamente imperfetta, meritasse l’appellativo uomo, ciò deve dipendere dalla definizione che noi adoperiamo. In una serie di forme che si graduano insensibilmente da qualche creatura simile alle scimmie fino all’uomo come ora esiste, sarebbe impossibile fermare un qualche punto definitivo in cui si dovrebbe adoperare il vocabolo uomo. Ma questo non ha grande importanza. Così pure non merita gran peso se le così dette razze umane siano indicate così, o siano classificate come specie o sottospecie; ma l’ultimo nome sembra dover essere il meglio appropriato. Finalmente possiamo conchiudere che quando i principii di evoluzione siano generalmente accettati, come certamente saranno fra non molto tempo, la discussione fra i monogenisti ed i poligenisti morirà di una morte tacita ed inosservata.
V’ha un’altra questione che non si deve lasciar senza menzione, ed è quella, se, come venne asserito talvolta, ogni sottospecie o razza umana sia derivata da un unico paio di progenitori. Nei nostri animali domestici una nuova razza può venire prontamente formata da una coppia unica munita di qualche nuovo carattere, o quando anche un solo individuo è così caratterizzato, accoppiando con gran cura i figli che variano; ma la maggior parte delle nostre razze sono state formate non a bella posta da una coppia scelta, ma inconsciamente conservando alcuni individui che hanno ottenuto qualche lieve, utile e desiderata variazione. Se in un paese si preferiscono meglio abitualmente cavalli forti e pesanti, ed in un altro cavalli leggeri e di rapido corso, possiamo essere certi che in un dato tempo si produrranno due distinte sottorazze, senza che nessuna particolare coppia e nessun individuo siano stati separati e allevati in uno dei due paesi. Molte razze sono state in tal modo formate, ed il loro modo di formazione è intimamente analogo con quello delle specie naturali. Sappiamo pure che i cavalli, i quali sono stati portati alle isole Falkland, sono divenuti durante le successive generazioni più piccoli e più deboli, mentre quelli che si sono rinselvatichiti nelle Pampas hanno acquistato una testa più grossa e tozza; e questi mutamenti sono derivati evidentemente non già da una coppia unica qualunque, ma da ciò che tutti gli individui sono stati soggetti alle stesse condizioni, aiutati forse dal principio di regresso. In nessuno di questi casi le nuove sottorazze sono venute da una coppia unica, bensì da molti individui che hanno variato in gradi differenti, ma nello stesso modo generale; e possiamo concludere che le razze umane si sono prodotte similarmente, e che le loro modificazioni sono o l’effetto diretto dell’azione di condizioni differenti, o l’effetto indiretto di una qualche sorta di scelta. Ma su questo ultimo particolare ritorneremo fra breve.
Della estinzione delle razze umane. – La estinzione parziale e totale di molte razze e sottorazze umane sono avvenimenti storicamente conosciuti. Humboldt vide nell’America meridionale un pappagallo che era l’unico superstite che parlasse ancora la lingua di una tribù estinta. Monumenti antichi ed utensili di pietra trovati in tutte le parti del mondo, intorno ai quali non si è conservata alcuna tradizione degli abitanti attuali, indicano molte estinzioni. Alcune piccole e spezzate tribù, avanzi di razze primiere, sopravvivono ancora in regioni isolate e per lo più montuose. In Europa, secondo Schauffausen, le antiche razze erano tutte “più basse nella scala che non i più rozzi selvaggi dei nostri giorni”; quindi debbono aver differito, fino a un certo punto, da ogni razza esistente. Gli avanzi descritti dal prof. Brown, presi da Les Eyzics, sebbene non sembrino sfortunatamente avere appartenuto ad una famiglia, indicano una sola razza fornita di una singolarissima combinazione di caratteri bassi o scimmieschi, ed altri elevati, ed “al tutto differente da qualunque altra razza, antica o moderna, di cui abbiamo inteso parlare”. Perciò essa differiva dalla razza quadernaria delle caverne del Belgio.
Le condizioni fisiche sfavorevoli non sembrano avere avuto un grande effetto sulla estinzione delle razze. L’uomo è vissuto lungamente nelle regioni estreme del Nord, senza legno con cui fare le sue barche od altri ordigni, e col solo grasso per bruciare e per scaldarsi, ma più specialmente per far sciogliere la neve. Nella punta meridionale dell’America gli abitanti della Terra del Fuoco vivono senza vestimenti, e senza essere protetti da un qualche abituro degno di tal nome. Nell’Africa meridionale gl’indigeni vanno erranti per le più aride pianure, dove abbondano gli animali più pericolosi. L’uomo può sopportare la mortifera azione del Terai ai piedi dell’Imalaya e le spiagge pestilenziali dell’Africa dei tropici.
Lo estinguersi di una razza viene principalmente dalla lotta di una tribù coll’altra, e di una razza con un’altra. Sonovi sempre in azione vari ostacoli, come abbiamo spiegato in un precedente capitolo, che concorrono a tenere limitato il numero degli individui di ogni tribù selvaggia – come le carestie periodiche, il girovagare dei genitori e quindi la mortalità dei bimbi, l’allattamento prolungato, il rapimento delle donne, le guerre, gli accidenti, le malattie, il libertinaggio, specialmente l’infanticidio, e forse la fecondità scemata per via del cibo meno nutriente, e per le molte fatiche. Se per una ragione qualunque uno di questi ostacoli viene diminuito, anche lievemente, la tribù in tal modo favorita tenderà a crescere; e quando una delle due tribù accresciute diviene più numerosa e più forte dell’altra, la contesa è subito terminata colla guerra, l’eccidio, il cannibalismo, la schiavitù e l’assorbimento. Anche quando una tribù più debole non viene distrutta così repentinamente, tuttavia una volta che incomincia a scemare va in generale diminuendo man mano finchè si estingue al tutto.
Quando le nazioni civili vengono in contatto coi barbari la lotta è breve, tranne ove un clima mortale venga in aiuto della razza indigena. Fra le cause che fanno vittoriose le nazioni civili alcune sono evidenti, altre oscurissime. Possiamo vedere che il coltivare la terra diviene fatale in vario modo ai selvaggi perchè non possono o non vogliono mutare le loro abitudini. Nuove malattie e i vizi nuovi sono causa di grande distruzione; e sembra che in ogni nazione una nuova malattia produce molta mortalità, finchè quelli che sono più suscettivi alla sua mortale azione non siano stati gradatamente portati via; e questo può anche seguire pei cattivi effetti dei liquori spiritosi, come pure per l’invincibile gusto per essi che dimostrano tanti selvaggi. Sembra inoltre per quanto questo fatto sia misterioso, che il primo incontro di popoli distinti e separati genera malattie. Il sig. Sproat, che nell’isola Vancouver si è occupato con molta cura dell’estinzione delle razze, crede che il mutamento nelle abitudini della vita, che segue sempre la venuta degli europei, produca molte malattie. Egli dà anche importanza ad una causa piuttosto frivola, quella cioè che i nativi rimangono “sbalorditi e stupidi per la nuova vita che li circonda; perdono il movente per operare, e non producono altri al loro posto”.
Il grado di incivilimento sembra essere un importantissimo elemento di riuscita delle nazioni che vengono in contesa. Pochi secoli fa l’Europa temeva le incursioni dei barbari orientali; ora questo timore sarebbe ridicolo. È un fatto ben curioso quello che i selvaggi non furono anticamente tanto rovinati, come fa osservare il sig. Bagehot, dalle nazioni classiche, quanto lo sono ora dalle nazioni civili moderne; se ciò avesse avuto luogo, gli antichi scrittori avrebbero meditato sopra un tale avvenimento; ma in nessun scrittore di quel periodo s’incontra un lamento sulla distruzione dei barbari.
Quantunque la graduata diminuzione e la finale distruzione delle razze umane sia un problema oscuro, possiamo tuttavia vedere che dipende da molte cause, che differiscono nei vari luoghi e nei vari tempi. È lo stesso difficilissimo problema della estinzione di uno degli animali più elevati – del cavallo fossile, per esempio, che scomparve dall’America meridionale subito dopo che fu sostituito nelle stesse regioni dagli innumerevoli branchi di cavalli spagnuoli. Il Nuovo Zelandese sembra essere conscio di questo parallelismo, perchè compara la sua sorte futura con quella del topo indigeno, che è quasi distrutto dal topo europeo. La difficoltà, per quanto paia grande alla nostra immaginazione, ed è realmente grande se vogliamo riconoscere le cause precise, non deve essere tale per la nostra ragione, finchè terremo fisso nella mente il fatto che l’aumento di ogni specie e di ogni razza è sempre frenato da vari ostacoli; per cui se qualche nuova causa di arresto, o di distruzione, sia pure essa lievissima, viene ad aggiungersi agli altri, la razza scemerà certamente in numero; e siccome è stato osservato ovunque che i selvaggi sono molto restii ad ogni mutamento di abitudine, mercè i quali si potrebbero controbilanciare gli ostacoli dannosi, il diminuire del numero condurrà presto o tardi alla estinzione; in molti casi questa fine viene prontamente determinata dalle incursioni delle tribù in aumento e conquistatrici.
Della formazione delle razze umane. – Si può premettere che quando troviamo la stessa razza, sebbene divisa in tribù lontane, disposte sopra una grande area, come l’America, possiamo attribuire la loro generale rassomiglianza all’esser derivate tutte da uno stipite comune. In certi casi l’incrociamento delle razze già distinte ha prodotto la formazione di razze nuove. Il fatto singolare che gli Europei e gli Indiani i quali appartengono al medesimo stipite Ariano e parlano una lingua fondamentalmente uguale siano d’aspetto tanto diverso mentre gli Europei differiscono tanto poco dagli Ebrei che appartengono allo stipite Semitico e parlano un linguaggio al tutto differente, è stato attribuito dal Broca a ciò che i rami della razza Ariana si sono grandemente incrociati durante la loro immensa diffusione con varie tribù indigene. Quando due razze che vivono al contatto s’incrociano, il loro primo risultato è un miscuglio eterogeneo; così il sig. Hunter descrivendo i Santali o tribù montanine dell’India, dice che si potrebbero tracciare centinaia di impercettibili gradazioni “dalle tribù nere e basse dei monti agli alti e olivastri Bramini, colla loro fronte intelligente, cogli occhi sereni e l’alta ma stretta testa”; cosicchè nei tribunali è necessario chiedere ai testimoni se sono Santali o Indù. Non si conosce per nessuna prova evidente se un popolo eterogeneo, come quello degli abitanti di qualche isola della Polinesia, formato dall’incrociamento di due razze distinte, con pochi o nessuni individui puri, sarebbe per divenire mai omogeneo. Ma siccome nei nostri animali domestici una razza incrociata può sicuramente, nel corso di poche generazioni, farsi colla debita scelta stabile ed uniforme possiamo dedurre che il libero incrociamento durante molte generazioni di un miscuglio eterogeneo terrà luogo nella scelta, e vincerà qualunque tendenza ad un regresso, cosicchè una razza incrociata finirà per divenire omogenea, sebbene possa non partecipare in uno stesso grado dei caratteri dei due primi progenitori di razze diverse.
Fra tutte le differenze che esistono fra le razze umane, il colore della pelle è la più cospicua ed una delle meglio spiccate. Si è dapprima creduto che questa sorta di differenza potesse venire attribuita alla lunga esposizione dei vari climi; ma Pallas dimostrò pel primo che questa opinione non ha alcun fondamento, ed egli è stato seguìto da quasi tutti gli antropologi. Quella opinione fu respinta principalmente perchè la distribuzione delle razze variamente colorate, molte delle quali debbono avere da un pezzo abitato i paesi ove stanno attualmente, non coincide colle corrispondenti differenze di clima. Si deve anche dare molto peso a certi casi come quello delle famiglie olandesi, che, secondo ciò che abbiamo sentito da un testimonio autorevolissimo, non hanno mutato per nulla colore, dopo di aver dimorato per tre secoli nell’Africa meridionale. L’aspetto uniforme nelle varie parti del mondo degli zingari e degli Ebrei, sebbene l’uniformità di questi ultimi sia stata molto esagerata, è pure un argomento in appoggio. Si è creduto che un’atmosfera umidissima o asciuttissima possa avere maggiore azione per modificare il colore della pelle che non il semplice caldo; ma siccome D’Orbigny nell’America meridionale e Livingstone in Africa hanno dedotto conclusioni diametralmente opposte riguardo all’umidità o all’asciutto, si deve considerare come dubbia qualunque conclusione intorno a questo argomento.
Vari fatti, che ho già citato altrove, dimostrano che il colore della pelle e dei capelli ha talvolta una sorprendente correlazione colla compiuta immunità dalla azione di certi veleni vegetali e dalle aggressioni di certi parassiti. Quindi mi sembra possibile che i neri e altre razze brune possano avere acquistato il loro bruno colorito pel fatto che certi individui più scuri hanno, nel corso di una lunga serie di generazioni, potuto resistere alla azione mortale dei miasmi del loro paese nativo.
Ho veduto in seguito che la stessa mia idea si era presentata molto tempo prima al dottor Wells, che i neri, ed anche i mulatti, vadano quasi al tutto esenti dalla febbre gialla, che fa tante stragi nell’America tropicale, è cosa nota da lungo tempo. La maggior parte di essi non soffrono neppure quelle fatali febbri intermittenti che dominano in una estensione di almeno 2600 miglia sulle coste dell’Africa, e che ogni anno sono causa che un quinto dei residenti bianchi muoiono, e un altro quinto tornano in patria ammalati. Questa immunità dei neri sembra essere in parte inerente, e dovuta a qualche ignota particolarità di costituzione, ed in parte effetto dell’acclimamento. Pouchet asserisce che i reggimenti di neri, dati dal vicerè d’Egitto per la guerra del Messico, che erano stati reclutati vicino al Sudan, andarono immuni dalla febbre gialla quasi al paro dei neri portati in origine dalle varie parti dell’Africa, e avvezzi già al clima delle Indie occidentali. Che l’acclimamento abbia una certa parte in ciò è dimostrato dai molti casi in cui i neri, dopo aver dimorato per un certo tempo in un clima più freddo, vanno soggetti fino a un certo punto alle febbri tropicali. Anche la natura del clima nel quale le razze bianche hanno dimorato lungamente ha qualche azione sopra dì esse; perchè durante la terribile epidemia di febbre gialla in Demerara nell’anno 1837, il dottor Blair trovò che la media delle morti negli emigranti era in proporzione colla latitudine del paese d’onde erano venuti. Riguardo ai neri l’immunità, per quanto possa essere l’effetto dell’acclimamento, implica l’esposizione per un tempo prodigiosamente lungo; perchè gl’indigeni dell’America tropicale, che hanno dimorato colà da tempo immemorabile, non sono esenti dalla febbre gialla; ed il rev. B. Tristram afferma che vi sono certe regioni nell’Africa settentrionale cui ogni anno gli abitanti indigeni sono obbligati a lasciare, mentre i neri possono rimanervi senza danno.
Che l’immunità del nero abbia in un grado qualunque relazione col colore della pelle, è soltanto una supposizione: può aver relazione con qualche differenza nel sangue, nel sistema nervoso od altri tessuti. Nondimeno dai fatti sopramenzionati, e da qualche connessione che sembra esistere fra il colorito e una tendenza alla consunzione non mi è sembrata improbabile questa congettura. Perciò ho cercato, ma con poca buona riuscita, di accertarmi fin dove poteva essere giusta. Il defunto dottor Danniell, che aveva dimorato lungo tempo sulla costa occidentale dell’Africa, mi disse che egli non credeva ad una cosiffatta relazione. Egli era straordinariamente biondo e bianco, ed aveva sopportato in modo meraviglioso quel clima. Quando da bambino era giunto colà, un vecchio capo nero pieno di esperienza gli aveva predetto, vedendolo, che non avrebbe sofferto nulla. Il dottor Nicholson, di Antigua, dopo di essersi occupato di questo argomento, mi scrisse che egli non credeva che gli Europei dalla pelle bruna sfuggissero meglio alla febbre gialla di quelli che erano di carnagione chiara. Anche il sig. J. M. Harris nega che gli Europei dai capelli neri sopportino un clima caldo meglio degli altri uomini; al contrario, l’esperienza gli ha insegnato che dovendo fare una scelta di uomini pel servizio delle coste d’Africa, convien scegliere quelli dai capelli rossi. Tuttavia, per quanto questi lievi indizi possano servire, non sembra esservi nessun fondamento per la ipotesi, che è stata accettata da parecchi scrittori, che il colore delle razze nere possa essere venuto da ciò che gli individui sempre più oscuri siano sopravvissuti in maggior numero durante il tempo in cui erano esposti alle febbri miasmatiche della loro patria.
Quantunque colle nostre attuali cognizioni non possiamo tener conto delle differenze di colore molto spiccate fra le razze umane, sia per ciò che riguarda la loro relazione colle particolarità costituzionali, o per l’azione diretta del clima; pure non dobbiamo al tutto ignorare quest’ultimo agente, perchè vi sono buone ragioni per credere che venga in tal modo prodotto qualche effetto ereditato.
Nel nostro terzo capitolo abbiamo veduto che le condizioni della vita, come il cibo abbondante e le comodità generali hanno un’azione diretta sullo sviluppo della forma del corpo, e che ne vengono trasmessi gli effetti. In conseguenza dell’azione combinata del clima e del mutamento nelle abitudini della vita, i residenti Europei negli Stati Uniti hanno sopportato, come si ammette generalmente, un lieve ma straordinariamente rapido mutamento di aspetto. Vi sono pure moltissime prove che dimostrano che negli Stati meridionali gli schiavi casalinghi della terza generazione presentano un aspetto molto diverso dagli schiavi dei campi.
Se tuttavia noi osserviamo le razze umane come sono distribuite sulla terra, dobbiamo dedurre che le loro differenze caratteristiche non possono essere attribuite all’azione diretta delle differenti condizioni di vita, anche dopo averle sopportate per un tratto di tempo enormemente lungo. Gli esquimali vivono esclusivamente di cibo animale, si vestono d’una pelliccia fitta, e sono soggetti ad un freddo intenso e ad una lunga oscurità; tuttavia non differiscono grandemente dagli abitanti della Cina meridionale, che vivono al tutto di cibo vegetale, e sono esposti quasi nudi ad un clima caldo ed aridissimo. Gli indigeni della Terra del Fuoco non si nutrono che dei prodotti marini che somministrano le loro inospite spiagge; i Botocudi del Brasile vanno girovagando per le calde foreste dell’interno, e vivono principalmente di prodotti vegetali; tuttavia queste tribù si rassomigliano tanto fra loro che gli indigeni della Terra del Fuoco a bordo del BEAGLE erano scambiati da qualche Brasiliano per Botocudi. Parimente i Botocudi, come gli altri abitanti dell’America tropicale, sono al tutto differenti dai Neri che abitano le sponde opposte dell’Atlantico, che sono esposti ad un clima a un dipresso simile al loro, e conducono quasi lo stesso genere di vita.
E neppure si possono attribuire le differenze che esistono fra le razze umane, tranne in un grado insignificantissimo, agli effetti ereditati del maggior esercizio delle parti o al difetto di esercizio di esse. Gli uomini che sogliono vivere nelle barche possono avere le gambe un po’ più corte; quelli che abitano regioni elevate hanno il petto più ampio, e quelli che adoperano costantemente certi organi dei sensi hanno la cavità in cui questi stanno di volume più grande, e quindi ne deriva una modificazione nelle loro fattezze. Nelle nazioni civili, lo scemare della mole delle mascelle pel minore esercizio, il movimento consueto di differenti muscoli che servono ad esprimere le varie emozioni, e l’aumento nel volume del cervello per la maggiore attività della mente, hanno tutti insieme prodotto un notevole effetto sull’aspetto generale di esse in confronto dei selvaggi. È anche possibile che la statura corporea più grande, senza l’aumento corrispondente nel volume del cervello, possa aver dato ad alcune razze (giudicando dei casi menzionati precedentemente nei conigli) un cranio allungato del tipo dolicocefalo.
Infine, il principio di correlazione poco compreso sarà certamente venuto in giuoco, come nel caso del grande sviluppo muscolare e della forte sporgenza delle prominenze sopraorbitali. Non è improbabile che la tessitura dei capelli, che differisce molto nelle varie razze, possa avere una qualche relazione colla struttura della pelle; perchè il colore dei capelli e della pelle hanno certamente una relazione fra loro, come è nel colore e nella tessitura dei Mandani. Il colore della pelle e l’odore che manda sono pure in relazione l’un coll’altro. Nel caso delle razze di pecore, il numero dei peli dentro un dato spazio e il numero dei pori escretori hanno fra loro una certa relazione. Se possiamo giudicare dall’analogia dei nostri animali domestici, molte modificazioni della struttura dell’uomo sono probabilmente sottoposte a questo principio di accrescimento correlativo.
Abbiamo veduto ora che le differenze caratteristiche fra le razze umane non possono essere attribuite in un grado soddisfacente all’azione diretta delle condizioni della vita, nè agli effetti dell’esercizio continuato delle parti, nè al principio di correlazione. Siamo quindi indotti a cercare se qualche lieve differenza individuale, a cui l’uomo è sommamente soggetto, non possa essere stata conservata ed aumentata durante una lunga serie di generazioni per via della scelta naturale. Ma qui diamo contro all’obiezione che in questo caso non si possono conservare se non che le variazioni benefiche; e per quello che ci è dato giudicare (quantunque sempre soggetti ad errare su questo argomento), nessuna delle differenze esterne fra le razze umane è di qualche diretto o speciale servigio per l’uomo. Le facoltà intellettuali e morali, o sociali, debbono naturalmente essere in questa osservazione lasciate in disparte; ma le differenze in queste facoltà non possono aver avuta azione, o almeno piccolissima, sui caratteri esterni. La variabilità di tutte le differenze caratteristiche fra le razze, cui abbiamo citato sopra, dimostra del pari che queste differenze non possono essere di molta importanza; perchè qualora fossero state importanti, sarebbero da un pezzo conservate e divenute stabili o sarebbero state eliminate. Per questo riguardo l’uomo rassomiglia a quelle forme che i naturalisti chiamano proteiche o polimorfe, che sono rimaste variabilissime, dovendo, per quanto pare, alle loro variazioni l’essere di una natura indifferente, e in conseguenza aver potuto sottrarsi all’azione della scelta naturale.
Siamo in tal modo stati delusi in tutti i nostri tentativi per quello che riguarda le differenze fra le razze umane; ma rimane ancora un potente agente, cioè la scelta in rapporto col sesso, che sembra aver operato tanto poderosamente sull’uomo, come sopra molti altri animali. Non intendo asserire che la scelta sessuale sia per dare ragione delle differenze che esistono fra le razze. Rimarrà ancora un residuo che non si spiega, intorno al quale, nella nostra ignoranza, possiamo solo dire che siccome certi individui nascono continuamente, per esempio, con il capo un po’ più rotondo o più stretto, e col naso un po’ più lungo o più corto, queste lievi differenze possono divenire stabili ed uniformi, se gli agenti ignoti che le inducono dovessero operare in un modo più costante, aiutato da un lungo e continuo incrociamento. Cosiffatte modificazioni si collocano in quello scompartimento provvisorio di cui abbiamo parlato nel nostro quarto capitolo, che per mancanza di una frase più esatta sono state dette variazioni spontanee. Nè voglio io pretendere che gli effetti della scelta sessuale possano essere indicati con precisione scientifica; ma può essere dimostrato che sarebbe un fatto inesplicabile qualora l’uomo non fosse stato modificato da questo agente, che ha operato tanto potentemente su innumerevoli animali, tanto alti che bassi nella scala. Si può inoltre dimostrare che le differenze che passano fra le razze umane, come nel colore, nella capigliatura, nelle fattezze, ecc., sono della natura che si doveva aspettare quando ci avesse operato sopra la scelta sessuale. Ma onde trattare questo argomento in un modo acconcio ho creduto necessario passare in rassegna tutto il regno animale, quindi ho dedicato a questo scopo la seconda parte del mio libro. Nella chiusa tornerò all’uomo, e dopo aver tentato di dimostrare fin dove egli possa essere stato modificato della scelta sessuale, darò un breve sunto dei capitoli di questa prima parte.