CHARLES DARWIN - ORIGINE DELL'UOMO
CAPITOLO III.
Paragone fra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei sottostanti
animali.
Senso morale – Proposizione fondamentale – Qualità degli animali sociali – Origine della socievolezza – Lotta fra istinti opposti – L’uomo animale sociale – Gli istinti sociali più tenaci vincono quelli meno persistenti – Virtù sociali unicamente apprezzate dai selvaggi – Virtù particolari acquistate in un ulteriore periodo di sviluppo – Importanza del giudizio dei membri della stessa comunità sulla condotta – Trasmissione delle tendenze morali – Riassunto.
Io mi unisco pienamente al giudizio di quegli scrittori i quali asseriscono che di tutte le differenze che esistono fra l’uomo e gli animali inferiori, la più importante è il senso morale o la coscienza. Questo senso, come dice Mackintosh, “ha una giusta supremazia sopra ogni altro principio di azione umana”; e si riassume in quel breve ma imperioso vocabolo dovere, tanto pieno di alto significato. È il più nobile di tutti gli attributi dell’uomo, quello che lo spinge senza esitare un momento a porre in pericolo la sua vita per salvare quella del suo simile; oppure, dopo debita deliberazione, a sacrificarla a qualche grande causa, spinto solamente da quel profondo sentimento del giusto o del dovere. Emmanuele Kant esclama: “Dovere! Meraviglioso pensiero, che non operi nè per amorevole insinuazione, nè per lusinga, nè per minaccia, ma solo per mantenere alta nell’anima la tua legge, acquistandoti così ognora il rispetto, se non sempre l’obbedienza; innanzi a te tutti gli appetiti rimangono muti, sebbene segretamente ribelli; d’onde la tua origine?”.
Questa grande questione è stata discussa da molti scrittori di provata abilità; e la mia unica scusa nel parlarne è l’impossibilità di lasciarla in disparte, e il fatto che, per quanto mi sappia, nessuno l’ha toccata esclusivamente dal lato della storia naturale. Inoltre questa investigazione ha in sè qualche interesse indipendente; è un tentativo per vedere fin dove lo studio dei sottostanti animali possa spander luce sopra una delle più alte facoltà dell’uomo.
A me sembra un fatto probabilissimo questo asserto, che ogni animale fornito d’istinti sociali molto spiccati debba inevitabilmente acquistare un senso morale o coscienza, appena le sue facoltà intellettuali siansi sviluppate tanto o almeno approssimativamente quanto nell’uomo. Perchè in primo luogo, gli istinti sociali fanno sì che un animale prova piacere nella compagnia del suo simile, sente un certo grado di simpatia per esso, e fa per lui qualche servizio. Questi servizi possono essere di una natura definita ed evidentemente istintiva; o vi può essere solo un desiderio e una premura, come nella maggior parte degli animali superiori, ad aiutare i propri compagni in certi modi generali. Ma questi sentimenti e questi servigi non si estendono menomamente a tutti gli individui della medesima specie, ma solo a quelli della stessa associazione. In secondo luogo, appena le facoltà mentali si saranno molto sviluppate, le immagini di tutte le azioni e i movimenti passati attraverseranno incessantemente il cervello di ogni individuo: e quel sentimento di scontento che risulta invariabilmente, come vedremo in seguito, da ogni istinto insoddisfatto, verrà in campo ogniqualvolta apparirà che l’istinto sociale persistente e sempre presente abbia voluto cedere il posto a qualche altro istinto, attualmente più forte, ma non tenace nella sua natura, e non tale da lasciare dietro a sè nessuna impressione molto vivace. È bene evidente che molti desiderî istintivi, come la fame, sono per loro stessi di breve durata; e, dopo essere stati soddisfatti, non lasciano vive e pronte rimembranze. In terzo luogo, dopo che è stata acquistata la facoltà del linguaggio ed i membri di una stessa società hanno potuto comunicarsi distintamente i loro desiderî, deve essersi naturalmente estesa l’opinione che ogni membro doveva avere per scopo delle sue azioni il pubblico bene. Ma gli istinti sociali saranno ancora per dare l’impulso all’operare pel bene della comunità, quando questo impulso venga rinforzato, diretto, e talora anche deviato dalla pubblica opinione, la forza della quale riposa, come vedremo ora, sulla istintiva simpatia. Infine, l’abitudine nell’individuo avrà in ultimo luogo una parte importantissima nella condotta di ogni membro; perchè gli istinti e gli impulsi sociali, come ogni altro istinto, acquisteranno grande forza dall’abitudine, come sarebbe l’obbedienza ai desiderî ed ai giudizi della comunità. Ora dobbiamo discutere intorno a queste varie proposizioni subordinate, e intorno ad alcune anche con una certa estensione.
Prima di tutto sarà bene premettere che non voglio asserire che qualunque animale puramente sociale, qualora le sue facoltà morali fossero per divenire attive ed elevate quanto quelle dell’uomo, potrebbe acquistare esattamente lo stesso senso morale che possediamo noi. Nello stesso modo che vari animali hanno un certo sentimento della bellezza, sebbene ammirino in complesso oggetti differenti, così possono avere un sentimento del bene e del male, sebbene li conduca poi a seguire una linea di condotta grandemente diversa. Se, per esempio, per prendere un caso estremo, gli uomini fossero allevati precisamente nelle stesse condizioni di un alveare di api, non c’è guari dubbio che le nostre femmine nubili crederebbero essere loro sacro dovere, come le api operaie, quello di uccidere i loro fratelli, e le madri tenterebbero di trucidare le loro figliuole feconde; e nessuno penserebbe ad opporvisi. Nondimeno l’ape, o qualunque altro animale sociale acquisterebbe, a me pare, nel nostro supposto caso, un certo senso del bene e del male, ossia una coscienza. Perchè ogni individuo avrebbe un senso intimo di possedere certi istinti più forti o più tenaci, ed altri meno forti o meno tenaci; cosicchè vi sarebbe sempre una lotta cui terrebbe dietro l’impulso; e si proverebbe soddisfazione o scontento, quando le impressioni del passato fossero messe in confronto durante il loro continuo passaggio attraverso la mente. In questo caso un interno ammonimento direbbe all’animale che sarebbe stato meglio seguire quell’impulso invece di quell’altro. Una linea di condotta doveva venire seguita; l’una sarebbe stata la buona, l’altra la cattiva: ma avrò da tornare su questo.
Socievolezza. – Molte sorta di animali sono sociali; troviamo anzi specie diverse che vivono insieme, come per esempio alcune scimmie americane con branchi di cornacchie, di gracchi, di storni. Anche l’uomo mostra lo stesso sentimento nel forte amore che nutre pel cane, amore che il cane gli rende con usura. Ognuno può aver notato quanto sono dolenti i cavalli, i cani, le pecore, ecc., allorchè vengono separati dai loro compagni; e quanto affetto, almeno i due primi generi, dimostrino quando sono nuovamente insieme. È curioso meditare intorno ai sentimenti di un cane, il quale per lunghe ore rimane tranquillo in una stanza col suo padrone o con qualcuno della famiglia, senza che nessuno ci badi; ma che quando vien poi lasciato solo per breve tempo si mette ad abbaiare od urlare desolatamente. Ci limiteremo ad osservare gli animali sociali più elevati, lasciando in disparte gli insetti, sebbene questi si aiutino scambievolmente in molti e importanti modi. Il servizio più comune che gli animali superiori si rendono fra loro è quello di avvertirsi scambievolmente del pericolo mercè i sensi riuniti di tutti. Tutti i cacciatori sanno, come osserva il dott. Jaeger, quanto sia difficile l’accostarsi agli animali che stanno in branchi o in strupi. Non credo che i cavalli o il bestiame selvatico faccian segnali di pericoli, ma l’atteggiamento di un individuo qualunque del branco che scopre pel primo un nemico, avverte gli altri. I conigli battono fortemente colle zampe posteriori la terra, a mo’ di segnale: le pecore ed i camosci fanno lo stesso, ma coi piedi anteriori, e mandano contemporaneamente un fischio. Molti uccelli e parecchi mammiferi postano sentinelle, le quali nelle foche si dice siano femmine. Il duce di un branco di scimmie fa ufficio di sentinella e manda gridi che esprimono il pericolo o la sicurezza. Gli animali sociali si rendono fra loro scambievoli servigi: i cavalli si morsecchiano, e le vacche si leccano le une le altre in ogni punto ove sentono prurito o pizzicore: le scimmie si liberano scambievolmente dagli esterni parassiti; e Brehm asserisce che dopo che uno strupo di Cercopithecus griseoviridis era sbucato fuori da una macchia piena di spine, ogni scimmia si stendeva sopra un ramo, mentre un’altra scimmia sedutaglisi accanto le esaminava coscienziosamente il pelo e le toglieva via ogni spina ed ogni stecco.
Gli animali si rendono anche fra loro servigi più importanti: così i lupi ed altre fiere fanno la caccia riuniti in branchi, e si aiutano a vicenda nell’aggredire le loro vittime. I pellicani pescano d’accordo, i babbuini rovesciano i sassi per cercare insetti, ecc.; e quando trovano un sasso molto grosso, per cui ci si possano mettere molti intorno, lo rovesciano insieme e si spartono la preda. Gli animali sociali si difendono l’un l’altro. I maschi di alcuni ruminanti vanno ad allogarsi in fronte della mandra quando vi è pericolo e la difendono colle loro corna. In un altro capitolo narrerò pure i casi di due giovani buoi selvatici che ne aggredivano di concerto uno vecchio, e di due stalloni che insieme cercavano di cacciar via da una mandra di cavalle un terzo stallone. Brehm incontrò in Abissinia un grande strupo di babbuini che stavano attraversando una valle: alcuni erano già saliti sul monte opposto, ed alcuni erano ancora nella valle: questi ultimi furono aggrediti dai cani, ma i vecchi maschi scesero immediatamente in tutta furia dalle rocce, e colla bocca spalancata mandavano urli così spaventosi, che i cani fecero una precipitosa ritirata. Questi furono nuovamente incoraggiati a ripetere l’attacco; ma in quel frattempo tutti i babbuini erano risaliti sulle alture, tranne un piccino di circa sei mesi, il quale, chiamando aiuto ad alta voce, era salito sopra una prominenza rocciosa, ove venne in breve circondato. Allora uno dei maschi più robusti, un vero eroe, discese di nuovo dal monte, andò lentamente verso il giovine, lo accarezzò, e lo portò via seco in trionfo, essendo i cani rimasti tanto meravigliati che non pensarono di rinnovare l’aggressione. Non posso resistere al desiderio di riferire un’altra scena di cui fu testimonio lo stesso naturalista; un’aquila aveva abbrancato un giovane cercopiteco, il quale tenendosi stretto ad un ramo non potè esser portato via subito; intanto egli colle grida pareva chiamasse aiuto, ed infatti altri membri del branco corsero con gran rumore alla riscossa, circondarono l’aquila e le strapparono tante penne che non pensò più alla preda, ma solo a mettersi in salvo. Quell’aquila, dice Brehm, non avrà certo mai più aggredito una scimmia in un branco.
È certo che gli animali che vivono in società hanno un sentimento di scambievole amore che non provano gli animali non socievoli. È molto dubbio il grado fino al quale possa in molti casi spingersi la simpatia degli animali pei dolori l’uno dell’altro, e pei piaceri; segnatamente ciò riguardo a questi ultimi. Il signor Buxton, tuttavia, il quale aveva eccellenti mezzi per osservare, asserisce che certi suoi grossi pappagalli del genere Ara, i quali vivevano liberi in Norfolk, s’erano presi d’uno “strano interessamento” per una coppia di essi col nido, ed ogni volta che la femmina lasciava questo era circondata da un branco che “mandava strillanti acclamazioni in suo onore”. È spesso difficile giudicare se gli animali sentono dolore per le sofferenze dei loro compagni. Chi può dire che cosa pensano le vacche quando stanno intorno guardando fissamente una morta o morente compagna? È certo che talora gli animali son ben lontani dal provare simpatia di sorta; perchè mandan via dal loro branco un animale ferito, o lo tormentano tanto che finiscono per farlo morire. Questo fatto è quasi il più brutto che esista nella storia naturale, a meno che sia vera la spiegazione che ne fu data, cioè, che il loro istinto o la loro ragione non li induca ad espellere un compagno ferito onde gli animali rapaci, compreso l’uomo, non siano tentati a seguire il branco. In tal caso il loro modo di agire non è peggiore di quello degli Indiani del nord d’America, che lasciano morire i loro compagni deboli nelle pianure; o degli indigeni della Terra del Fuoco, i quali, quando i loro genitori divengono vecchi o si ammalano, li seppelliscono vivi.
Tuttavia è cosa certa che molti animali sentono simpatia pel pericolo o pel male del loro simile. Questo fatto si osserva anche negli uccelli; il capitano Stansbury trovò in un lago salato dell’Utah un pellicano vecchio e al tutto cieco, il quale era grassissimo, per cui doveva essere stato lungamente e abbondantemente nutrito dai suoi compagni. Il signor Blyth mi disse di aver veduto corvi indiani dar da mangiare a due o tre dei loro compagni ciechi; ed io ho udito parlare di un caso analogo in un gallo domestico. Possiamo, se così ci piace, dire che queste azioni sono istintive; ma fatti di questa sorta sono troppo rari per aver sviluppato un istinto speciale qualunque. Io stesso ho veduto un cane, il quale non passava mai innanzi a un gatto suo intimo amico che giaceva ammalato in un cestino senza lambirlo colla lingua, segno certissimo della benevolenza di un cane.
Deve chiamarsi simpatia quella che spinge un cane coraggioso ad avventarsi contro chi colpisce il suo padrone, perchè è certo un atto della sua volontà. Io vidi una persona che faceva le viste di percuotere una signora che aveva in grembo un cagnolino timidissimo, e quella prova non era mai stata tentata. Il piccolo animale balzò sul momento in piedi, e quando le finte percosse furono terminate, era commovente vedere con quanta perseveranza egli leccava il volto della sua padrona come se volesse confortarla. Brehm asserisce che quando un babbuino in schiavitù veniva inseguito per essere punito, gli altri cercavano di proteggerlo. Nei casi narrati più sopra, doveva essere la simpatia quella che spingeva i babbuini ed i cercopiteci a difendere i loro giovani compagni dai cani e dall’aquila. Riferirò solo un altro esempio della condotta eroica e piena di simpatia di una piccola scimmia americana. Parecchi anni or sono uno dei custodi del Giardino zoologico di Londra mi mostrò alcune ferite profonde e appena cicatrizzate che aveva sul collo, fattegli da un terribile babbuino mentre stava inginocchiato sul pavimento. La piccola scimmia americana, che amava molto il suo custode, viveva nello stesso vasto scompartimento, ed aveva un grande terrore di quel grosso babbuino. Nondimeno, appena vide in pericolo il custode suo amico, si slanciò alla riscossa, e a furia di urli e di morsicature distolse per un momento il babbuino, per cui l’uomo potè sfuggire, dopo aver corso grave pericolo della vita, come gli disse il chirurgo che lo ha curato.
Oltre l’amore e la simpatia, gli animali danno prova di altre qualità che in noi si chiamerebbero morali; ed io sono d’accordo con Agassiz che i cani posseggono qualche cosa che rassomiglia molto alla coscienza. Certamente son forniti di una certa padronanza di se stessi che non può essere tutta attribuita al timore. Come osserva Braubach, un cane si asterrà dal rubare il cibo mentre il padrone è assente. In ogni tempo i cani sono stati considerati come il tipo della fedeltà e dell’obbedienza. Tutti gli animali che vivono in comune, che si difendono scambievolmente ed aggrediscono insieme il loro nemico, debbono essere, fino ad un certo punto, fedeli l’uno all’altro; e quelli che seguono un capo debbono avere un certo grado di obbedienza. Quando in Abissinia i babbuini vanno a saccheggiare un giardino, essi tengon dietro in silenzio al loro duce, e se un imprudente giovane fa un po’ di rumore, gli altri gli danno uno scappellotto per insegnargli il silenzio e l’obbedienza; ma appena hanno certezza che non v’ha pericolo di sorta, tutti mostrano clamorosamente la loro gioia.
Riguardo poi all’impulso che conduce certi animali ad associarsi insieme, e prestarsi in vario modo vicendevole aiuto, possiamo supporre che in moltissimi casi sono a ciò spinti dallo stesso senso di soddisfazione o di piacere che provano quando compiono altre azioni istintive; oppure dallo stesso senso di scontentezza che provano in altri casi di atti istintivi impediti. Noi vediamo questo in un numero sterminato di esempi, ed è dimostrato in modo evidentissimo dagli istinti acquistati dai nostri animali domestici; così un giovane cane da pastore si compiace nel correre intorno ad una greggia di pecore per tenerla raccolta, ma senza tormentarla; un cane da volpe ama dar la caccia alla volpe, mentre ho veduto alcune altre specie di cani non badare affatto alle volpi. Deve essere un sentimento ben forte di intima soddisfazione quello che induce un uccello, per solito tanto attivo, a rimanere immobile per tanti giorni sulle sue uova. Gli uccelli migratori sono dolentissimi quando s’impedisce loro di migrare, e forse godono il piacere di viaggiare nel lungo loro volo. Sono pochi gli istinti determinati solamente da sentimenti penosi, come dal timore, il quale conduce alla propria conservazione, od è specialmente diretto contro certi nemici. Non credo che nessuno possa analizzare le sensazioni del piacere o del dolore. Tuttavia in molti casi è probabile che gli istinti provengano persistentemente dal semplice potere della eredità, senza lo stimolo del piacere o del dolore. Un pointer giovane, quando fiuta per la prima volta la selvaggina, pare che non possa trattenersi dal puntare. Non si può dire che uno scoiattolo chiuso in una gabbia, quando rompe le noci che non può mangiare come se volesse nasconderle sotterra, faccia così per piacere o per timore. Quindi l’asserzione comune che l’uomo in ogni sua azione sia spinto dal piacere o dal dolore, potrebbe essere erronea. Sebbene si possa seguire un’abitudine ciecamente ed implicitamente, senza che in quel momento si provi un senso di piacere o di dolore, tuttavia quando venga interrotta per forza e repentinamente, si prova in generale un senso indefinito di scontento; e ciò è particolarmente vero nel caso di persone dotate di debole intelletto.
Si è sovente asserito che gli animali furono in principio fatti per vivere in società e che in conseguenza di ciò si sentono scontenti quando vengon separati, e contenti se sono insieme; ma è molto più probabile che queste sensazioni siansi primieramente sviluppate acciocchè quegli animali cui sarebbe stato vantaggioso vivere in società, s’inducessero a vivere insieme: nel modo stesso in cui il senso della fame ed il piacere di mangiare vennero, certamente, acquistati per i primi onde indurre gli animali a mangiare. Il sentimento del piacere derivante dalla società è probabilmente una estensione dell’affetto paterno e filiale; e questa estensione può venire attribuita in gran parte alla scelta naturale, ma forse in parte alla semplice abitudine. Perchè in quegli animali che godevano del benefizio nella vita sociale, gli individui che in società provavano maggior piacere potevano sfuggire meglio ai vari pericoli; mentre quelli che non si curavano gran fatto dei loro compagni e vivevano solitari doveano perire in numero maggiore. Riguardo poi all’origine dell’affetto paterno e filiale, che per quanto pare sta alla base degli affetti sociali, non vi è speranza di rintracciarla; ma possiamo dedurre che provennero in gran parte dalla scelta naturale. Siccome quasi fuori d’ogni dubbio è avvenuto per ciò che riguarda il sentimento insolito ed opposto di odio fra i più prossimi parenti, come nel caso delle api operaie che uccidono i maschi loro fratelli, e delle regine delle api che uccidono le loro figlie regine, qui il desiderio di distruggere invece di amare i loro più stretti parenti è stato pel bene della comunità.
L’importantissima emozione della simpatia è distinta da quella dell’amore. Una madre ama con passione il suo passivo ed inerte bambino, ma allora non si può dire che senta simpatia per esso. L’amore dell’uomo pel suo cane è distinto dalla simpatia, e tale pure è quello del cane pel suo padrone. Adamo Smith asseriva anticamente, ed oggi ciò conferma il sig. Bain, che la base della simpatia sta nella nostra forte rimembranza di precedenti stati di dolore o di piacere. Quindi “la vista di un’altra persona che soffre la fame, il freddo, la stanchezza, risveglia in noi qualche ricordo di quei momenti, che sono dolorosi anche in idea”. In tal modo noi siamo indotti ad alleviare le pene altrui onde mitigare contemporaneamente anche i nostri dolorosi sentimenti. Nello stesso modo noi partecipiamo ai piaceri degli altri. Ma non mi riesce di comprendere come questo modo di vedere possa spiegare il fatto, che la simpatia è in grado immensamente più forte eccitata da una persona amata che non da una indifferente. La sola vista del soffrire, indipendentemente dall’amore, basterebbe a svegliare in noi vivaci rimembranze e associazioni. È possibile che la simpatia sia stata primamente originata nel modo sopra esposto; ma sembra essere ora divenuta un istinto, che si svolge in modo speciale verso gli oggetti amati, come il timore si dirige particolarmente contro certi nemici. Siccome la simpatia riceve così una direzione, l’amore scambievole dei membri della stessa comunità estenderà i suoi confini. Senza dubbio una tigre o un leone avranno simpatia per le sofferenze dei loro piccoli, ma questo sentimento non si estenderà agli altri animali. Come tutti sappiamo, questo sentimento negli animali strettamente sociali si deve estendere più o meno a tutti i membri della società. Nel genere umano è probabile che l’egoismo, l’esperienza e l’imitazione accrescano forza, come ha dimostrato il sig. Bain, alla simpatia; perchè la speranza di ricevere un ricambio di buoni uffici ci induce a compiere verso gli altri atti di simpatia e di benevolenza; e non v’ha ombra di dubbio che questo sentimento di simpatia acquista molta forza dall’abitudine. Ma qualunque sia stata l’origine complessa di questo sentimento, siccome esso è della più alta importanza per tutti quegli animali che si prestano vicendevole aiuto e difesa, deve essere stato accresciuto mercè la scelta naturale; perchè quelle società ove il numero dei membri stretti da scambievole simpatia sarà stato maggiore avranno meglio prosperato, ed avranno allevato un numero più grande di prole.
È cosa impossibile, in alcuni casi, decidere se certi istinti sociali siano stati acquistati per via della scelta naturale, oppure siano l’indiretto risultamento di altri istinti e di altre facoltà, come la simpatia, la ragione, l’esperienza e la tendenza all’imitazione, o anche, se non sono altro che il frutto di una lunga e continua abitudine. Non si può quasi credere che un istinto tanto notevole quanto quello di porre sentinelle onde avvertire la comunità di un pericolo sia il risultamento indiretto di qualunque altra facoltà; quindi deve essere stato acquistato direttamente. Inoltre, l’uso che hanno molti maschi di certi animali sociali di difendere la comunità e di aggredire il nemico o la preda tutti insieme, può essere stato, forse, originato da reciproca simpatia; ma il coraggio, e in molti casi la forza, debbono essere venuti precedentemente, forse mercè la scelta naturale.
Fra i vari istinti e le varie abitudini, alcuni sono molto più forti degli altri, cioè, alcuni procurano maggior piacere nel loro compimento o maggior dolore per la loro privazione che non altri; oppure, ciò che probabilmente è in pari modo importante, essi sono, per via dell’eredità, seguiti con maggiore persistenza senza che sveglino un sentimento particolare di piacere o di dolore. Noi stessi sappiamo che vi sono alcune abitudini più difficili da correggere o da mutare che non altre. Quindi spesso si può osservare in un animale la lotta che segue fra i differenti istinti, o fra un istinto ed una abitudine; come per esempio quando un cane si slancia dietro una lepre, viene sgridato, si ferma, esita, poi ricomincia ad inseguire l’animale o torna tutto vergognoso al suo padrone; ovvero fra l’amore di una cagna pei suoi piccoli e pel suo padrone, perchè si vede spesso che se la svigna per andare a trovare i primi, come se provasse vergogna di non accompagnare il padrone. Ma il fatto più curioso che io mi conosca di un istinto che la vince sull’altro, è l’istinto migratore che supera l’istinto materno. Il primo è prodigiosamente potente; un uccello chiuso in gabbia nella stagione opportuna al migrare batte col petto nei ferri della sua gabbia, finchè divien spelato e sanguinolento. Questo istinto fa che i giovani salmoni saltano fuori dell’acqua dolce, ove potrebbero continuare a vivere, suicidandosi così senza volerlo. Tutti sanno quanto forte sia l’istinto materno che induce timidi uccelli ad affrontare un gran pericolo, sebbene con esitazione e contro l’istinto della propria conservazione. Nondimeno l’istinto migratore è così potente che nel tardo autunno le rondini e i balestrucci abbandonano spesso i loro piccoli, lasciandoli perire miseramente nei loro nidi.
Possiamo bene scorgere che un impulso istintivo, qualora sia più benefico ad una specie che non qualche altro od opposto istinto, diverrà più potente mercè la scelta naturale; perchè quegl’individui in cui esso sarà più ampiamente sviluppato sopravviveranno in maggior numero. Si può mettere in dubbio se questo sia il caso per ciò che riguarda l’istinto migratore in confronto di quello materno. La grande persistenza o l’azione piena di fermezza del primo in certe date stagioni dell’anno durante tutto il giorno, può dargli temporaneamente una forza insuperabile.
L’uomo animale sociale. – La maggior parte delle persone ammettono che l’uomo è un essere sociale. Noi vediamo ciò nella sua ripugnanza per la solitudine e nel desiderio che ha della società al di fuori della sua stessa famiglia. La carcere solitaria è una delle più terribili punizioni che si possano applicare. Suppongono alcuni autori che l’uomo in principio abbia vissuto in famiglie isolate; ma oggi, sebbene famiglie isolate, o riunione di due o tre insieme, scorrano le solitudini di certe contrade selvagge, esse sono sempre, per quanto mi sappia, in relazione amichevole con altre famiglie che vivono nello stesso distretto. Quelle famiglie si raccolgono occasionalmente in consiglio, e si uniscono per la difesa comune. Non è ragionevole dire che l’uomo selvaggio non è un animale sociale, perchè le tribù che abitano località adiacenti son quasi sempre in guerra fra loro; perchè gl’istinti sociali non si estendono mai a tutti gl’individui di una medesima specie. Giudicando dall’analogia che ci presentano il maggior numero dei quadrumani, è molto probabile che gli antichissimi antenati dell’uomo somiglianti alle scimmie fossero pur essi sociali; ma ciò non ha per noi grande importanza. Quantunque l’uomo come è al presente, abbia pochi istinti speciali, avendo perduto quelli che potevano avere i suoi primi progenitori, non è una ragione perchè non abbia potuto conservare da un periodo sommamente remoto un certo grado di amore istintivo e di simpatia pel suo simile. Invero siamo tutti ben consci di possedere cosiffatti sensi di simpatia; ma non siamo consapevoli se siano istintivi, ed abbiano avuto origine molto tempo addietro nel modo stesso in cui si sono originati negli animali a noi inferiori, o se ognuno di noi li ha acquistati durante i nostri primi anni. Siccome l’uomo è un animale sociale è anche probabile che egli abbia ereditato la tendenza ad essere fedele a’ suoi compagni, perchè questa qualità è comune alla maggior parte degli animali sociali. In tal modo egli potrebbe avere una qualche facoltà di padroneggiarsi, e forse di obbedienza al capo della comunità. Mercè una tendenza ereditaria, egli sarebbe sempre volonteroso a difendere, unitamente agli altri, i suoi confratelli, e li aiuterebbe in ogni modo che non compromettesse troppo il proprio buon essere o i suoi più forti desiderii.
Istinti speciali guidano quasi esclusivamente gli animali sociali, che stanno in fondo alla scala, ad aiutare i membri della stessa comunità, mentre gli animali collocati più in alto sono ancora da quegli istinti largamente guidati; ma essi sono pure in parte spinti a ciò fare dall’amore reciproco e dalla simpatia, aiutati apparentemente da una certa dose di ragione. Sebbene l’uomo, come abbiamo testè notato, non abbia istinti speciali che gli indichino il modo di aiutare il suo simile, egli ha tuttavia l’impulso, e colle sue qualità intellettuali più perfette sarà naturalmente guidato, per questo riguardo, dalla ragione e dall’esperienza. Parimente la simpatia istintiva gli farà tenere in gran pregio l’approvazione de’ suoi confratelli; perchè, come spiega chiaramente il signor Bain, “l’amore della lode, e il forte sentimento della gloria, e l’orrore ancor più forte del disprezzo e dell’infamia, sono opera della simpatia”. Quindi nell’uomo i desiderii, l’approvazione, il biasimo de’ suoi confratelli, dimostrati coi gesti o colle parole, avranno sopra di esso una potente azione. Così gl’istinti sociali, che debbono essere stati acquistati dall’uomo quando era in uno stato molto rozzo, o forse anche da’ suoi primi progenitori simili alle scimmie, lo spingono a compiere le sue migliori azioni; ma le sue azioni sono grandemente determinate dai desideri e dai giudizi espressi da’ suoi simili, e disgraziatamente anche più spesso dai suoi forti ed egoistici desiderî. Ma siccome l’abitudine rinvigorisce i sensi d’amore e di simpatia e il potere di padroneggiarsi, e siccome la forza della ragione diviene più chiara per modo che l’uomo può apprezzare quanto giusti siano i giudizi de’ suoi confratelli, egli sarà indotto a seguire una data linea di condotta indipendentemente da ogni piacere o dolore che potrebbe provare in quel momento. Egli allora può dire: sono il giudice supremo della mia condotta, e colle parole di Kant: io non voglio violare nella mia persona la dignità del genere umano.
Gl’istinti sociali più durevoli vincono i meno persistenti. – Abbiamo tuttavia da considerare ancora il punto principale che è il pernio sul quale riposa tutta la questione del senso morale. Perchè un uomo si sente spinto ad obbedire ad un desiderio istintivo piuttosto che ad un altro? Perchè sente egli un amaro rincrescimento per aver ceduto al forte senso della propria conservazione, invece di arrischiare la vita per salvare quella di un suo simile, o perchè gli rincresce di aver rubato qualche alimento spinto da una fame crudele?
In primo luogo è evidente che gl’impulsi istintivi hanno nel genere umano differenti gradi di forza; una giovane e timida madre, spinta dall’istinto materno, si getterà senza la menoma esitazione, incontro al maggior pericolo per amore del suo nato, ma non per salvare un suo simile. Molte volte un uomo, od anche un ragazzo, che non si erano mai esposti a perdere la vita per altri, ma nei quali erano bene sviluppati il coraggio e la simpatia, si sono slanciati, contro l’istinto della propria conservazione, di colpo in un torrente, per salvare un loro simile prossimo a perire annegato. In questo caso l’uomo è spinto dallo stesso istintivo movente che fece sì che quella eroica scimmietta americana, di cui abbiamo parlato sopra, aggredisse il temuto babbuino per salvare il suo custode. Azioni come quelle da noi menzionate sembrano essere il semplice effetto della maggior potenza degli istinti sociali e materno sopra qualunque altro istinto o movente; perchè vengono compiute troppo istantaneamente per essere opera della riflessione, o della sensazione di piacere o di pena; sebbene, qualora non fossero state compiute, sarebbero causa di dolore.
So benissimo che alcuni affermano che quelle azioni che si compiono per impulso, come nei casi sopra menzionati, non cadono sotto il dominio del senso morale, e non si possono dire morali. Essi limitano questo nome alle azioni fatte deliberatamente dopo una vittoria sopra opposti desideri, o alle azioni suggerite da qualche movente elevato. Ma sembra difficilissimo segnare una linea ben distinta in questo genere, sebbene possa la distinzione esser vera. Per ciò che riguarda i moventi elevati, si sono riferiti esempi di barbari, privi di qualunque sentimento di amore per l’umanità, e non diretti da nessun movente religioso, i quali, prigionieri, hanno deliberatamente sacrificata la propria vita anzichè tradire i loro compagni; e certo la loro condotta deve essere considerata come morale. Per quello che riguarda poi la deliberazione e la vittoria sopra opposti moventi, possiamo vedere negli animali una certa esitazione fra gli istinti opposti, mentre stanno per correre a salvare la loro prole o i loro compagni; tuttavia le loro azioni, quantunque operate pel bene altrui, non sono chiamate morali. Inoltre un’azione compiuta da noi ripetutamente finirà per esser fatta senza deliberazione o esitanza, ed allora si distinguerà appena da un istinto; tuttavia nessuno certamente pretenderà che un’azione compiuta per quel modo abbia cessato d’esser morale. Anzi noi tutti crediamo che un’azione non possa esser considerata come perfetta o fatta nel più nobile modo quando non si compia per impulso, senza deliberazione o sforzo, nello stesso modo come da un uomo in cui le qualità richieste sono innate. Tuttavia colui che deve vincere il suo timore o la mancanza di simpatia prima di agire merita in certo modo maggior lode dell’uomo di cui l’innata disposizione lo induce ad una buona azione senza il menomo sforzo.
Siccome noi non possiamo distinguere fra i moventi, abbiamo dato il nome di morali a tutte le azioni di una certa classe, quando siano compiute da un essere morale. Un essere morale è quello che può comparare le sue azioni o i suoi moventi passati e futuri, e approvarli o disapprovarli. Non abbiamo nessuna ragione di supporre che qualche animale sottostante all’uomo abbia questa capacità; quindi allorchè una scimmia affronta un pericolo per soccorrere un compagno, o adotta una scimmia orfana, noi non diciamo che quella condotta è morale. Ma nel caso dell’uomo, che solo può essere con sicurezza considerato come un essere morale, una certa classe di azioni vengono chiamate morali, sia che si compiano con proposito deliberato dopo una lotta fra opposti sentimenti, o derivino dall’effetto di un’abitudine acquistata lentamente, oppure impulsivamente per opera dell’istinto.
Ma torniamo al nostro preciso argomento; quantunque alcuni istinti siano più preponderanti di altri, producendo così azioni corrispondenti, pure non si può sostenere che gli istinti sociali siano per solito più forti nell’uomo, o siano divenuti più forti mercè una lunga e continua abitudine, che non gli istinti, per esempio, della propria conservazione, della fame, della concupiscenza, della vendetta, ecc. Perchè dunque l’uomo sente egli rincrescimento, anche se cerca di bandire ogni cosiffatto rincrescimento, per aver seguito un dato impulso naturale, anzichè un altro; e perchè sente ancora che deve provare rincrescimento per la sua condotta? Per questo riguardo l’uomo differisce grandemente dai sottostanti animali. Nondimeno noi possiamo, credo, scorgere con una certa chiarezza la ragione di questa differenza.
Per l’attività delle sue facoltà mentali l’uomo non può a meno di riflettere: le impressioni e le immagini del passato attraversano di continuo e distintamente la sua mente. Ora in quegli animali che vivono sempre in società gli istinti sociali sono sempre presenti e durevoli. Questi animali son pronti ognora a dare il segnale del pericolo, a difendere la comunità, e ad aiutare i loro compagni secondo i loro costumi; provano in ogni tempo, senza essere a ciò spinti da una passione o da un desiderio speciale, un certo grado di amore o di simpatia per essi; sono infelici di essere da loro separati, e sempre lieti della loro compagnia. Ciò segue anche in noi. Un uomo che fosse privo di cosiffatti sentimenti sarebbe un mostro snaturato. Inoltre, il desiderio dì saziare la fame o qualche altra passione, come sarebbe la vendetta, è per sua natura temporaneo, e per un certo tempo può essere al tutto soddisfatto. E non è neppure cosa agevole, per non dire impossibile, svegliare in sè un sentimento vivace, come sarebbe quello della fame; e invero nemmeno, come è stato spesso notato, di nessun’altra sofferenza. L’istinto della propria conservazione non si prova che in faccia al pericolo; e più di un codardo si è creduto pieno di coraggio finchè non si è trovato al cospetto dell’inimico. Il desiderio di possedere la roba d’altri è forse uno fra i desiderî più persistenti che si possono menzionare; ma anche in questo caso la soddisfazione della possessione attuale è in generale un sentimento più debole che non il desiderio; molti ladri, quando non siano già rotti al mestiere, dopo il successo, si meravigliano e non sanno darsi ragione dell’aver rubato quell’oggetto.
Così, mentre l’uomo non può impedire che le antiche impressioni gli attraversino di continuo la mente, sarà spinto a comparare le impressioni affievolite, per esempio, della fame passata, o della vendetta soddisfatta, o del pericolo sfuggito alle spese di altri uomini, coll’istinto della simpatia e della benevolenza pel suo simile, che è sempre presente e sempre, fino a un certo punto, attivo nella sua mente. Allora egli sentirà nella sua immaginazione che un istinto più forte ha ceduto ad un altro che sembra ora comparativamente debole; e quindi proverà inevitabilmente quel senso di scontento di cui l’uomo è fornito, come ogni altro animale, acciò possa essere obbedito ogni suo istinto. Il caso menzionato sopra della rondine ci dà un esempio, sebbene di natura contraria, di un istinto temporaneo, quantunque in un dato tempo molto persistente, che vince un altro istinto che per solito domina tutti gli altri. Nella stagione opportuna questi uccelli sembrano essere tutto il giorno in preda al desiderio di migrare; il loro modo di vivere cambia; divengono inquieti, rumorosi, e si uniscono in stormi. Mentre la femmina sta sul suo nido cibando o covando i suoi piccoli, l’istinto materno è forse più potente di quello della migrazione; ma vince l’istinto più persistente, ed alla fine, nel momento che non vede più i suoi nati, prende il volo e li abbandona. Giunto che sia al termine del suo lungo viaggio, e cessata l’azione dell’istinto migratore, quale angoscioso rimorso sentirà ogni uccello, se, essendo come è dotato di grande attività mentale, non potrà impedire che l’immagine dei suoi piccoli, morenti dal freddo e dalla fame nel pallido Settentrione, non gli attraversi la mente!
L’uomo, nel momento dell’azione, sarà certamente spinto a seguire l’impulso più forte; e sebbene questo possa occasionalmente suggerirgli nobili gesta, tuttavia lo condurrà più comunemente a soddisfare i suoi propri desideri alle spese di altri uomini. Ma dopo averli soddisfatti, quando le impressioni passate ed affievolite saranno in contrasto cogli istinti sociali sempre persistenti, verrà certamente un ritorno su se stesso. Allora l’uomo si sentirà scontento di se, e prenderà la risoluzione di operare in avvenire in modo differente. Questa è la coscienza; perchè la coscienza guarda alle azioni passate e le giudica, producendo quella sorta di scontento, al quale se è debole diamo il nome di rammarico, e se è più forte, di rimorso.
Queste sensazioni sono, indubbiamente, differenti da quelle che si provano allorchè altri istinti o altri desiderî rimangono insoddisfatti; ma ogni istinto insoddisfatto ha la sua propria sensazione, come vediamo colla fame, la sete, ecc. L’uomo così ammonito acquisterà da una lunga abitudine la piena padronanza di sè, per cui i suoi desiderî e le sue passioni finiranno per cedere sul momento alle sue simpatie sociali, e allora non vi sarà più lotta fra loro. L’uomo ancora affamato, o ancora vendicativo, non penserà più a rubare il suo nutrimento o a compiere la sua vendetta. È possibile, o anche, come vedremo in seguito, probabile, che l’abito del padroneggiar se stesso possa, come altre abitudini, essere ereditato. Così alla fine l’uomo viene a sentire, mercè l’abitudine acquistata o forse ereditata, che il suo meglio è di obbedire ai suoi istinti più persistenti. L’imperiosa parola dovere sembra puramente rinchiudere in sè l’interna consapevolezza della esistenza di un istinto persistente, sia esso innato o acquisito in parte, che gli serve di guida, quantunque possa essere disobbedito. Noi usiamo appena il vocabolo dovere in un senso metaforico, dicendo che il cane da fermo posta, il pointer punta e il cercatore cerca la selvaggina. Se mancano in ciò, mancano al loro dovere ed agiscono male.
Se un desiderio o un istinto qualunque, che mena ad un’azione contraria al bene altrui, si affaccia tuttavia all’uomo, ed egli lo tiene nella sua mente, o tanto forte, o più forte del suo istinto sociale, egli non sentirà un acuto rammarico di averlo seguito; ma sa benissimo che qualora la sua condotta fosse conosciuta dai suoi confratelli, sarebbe da essi disapprovata; e son pochi coloro tanto privi di simpatia da non sentire sconforto quando ciò segue. Se egli non sente questa simpatia, e se i suoi desideri che lo inducono a commettere cattive azioni sono nel tempo stesso potenti, e quando richiamati alla mente non sono soggiogati dal persistente istinto sociale, allora quell’uomo è essenzialmente cattivo; e l’unico motivo che lo trattiene è il timore del castigo e la convinzione che a lungo andare sarà più vantaggioso ai suoi egoistici interessi considerare il bene degli altri anzichè il proprio.
È chiaro che chiunque non abbia difficile la coscienza può soddisfare i propri desideri, se non si mettono di mezzo coi suoi istinti sociali, cioè col bene degli altri; ma per poter essere al tutto esente dalla propria disapprovazione, o almeno da inquietudine, è quasi necessario che egli eviti ogni disapprovazione, ragionevole o no, de’ suoi confratelli. Nè deve egli rompere colle abitudini più forti della sua vita, specialmente se sono sostenute dalla ragione; perchè ciò facendo sentirà certo scontento. Deve inoltre evitare la disapprovazione di un Dio o degli Dei, nei quali secondo la sua fede o la sua superstizione egli possa credere; ma in questo caso il timore addizionale della punizione divina si aggiunge sovente.
Le virtù strettamente sociali primitivamente sole considerate. – Le considerazioni suddette intorno alla prima origine e natura del senso morale, che ci dice ciò che dobbiamo fare, e la coscienza che ci rimprovera quando disobbediamo ad esso, concordano bene con quello che vediamo nella primiera e non ancora sviluppata condizione di questa facoltà del genere umano. Le virtù che debbono essere praticate, almeno in generale, dagli uomini rozzi, acciò possano formare una corporazione, sono quelle che vengono sempre considerate come le più importanti. Ma esse sono praticate quasi esclusivamente in relazione agli uomini della stessa tribù; e i loro opposti non sono considerati come delitti in rapporto agli uomini di altre tribù. Nessuna tribù può star riunita se vi sono comuni l’assassinio, il furto, il tradimento, ecc. In conseguenza entro i limiti di ogni tribù questi delitti sono coperti di eterna infamia, ma fuori di quei limiti non svegliano cosiffatti sentimenti. Un indigeno del nord America è contento di sè, ed è onorato dagli altri, quando strappa la pelle del capo ad un uomo di un’altra tribù, ed un Dyak mozza il capo di una persona innocua e lo fa seccare per tenerselo come trofeo. L’uccisione dei bambini è stata praticata in grande in tutto il mondo, senza svegliare rimprovero; ma l’infanticidio, specialmente di femmine, è stato considerato come vantaggioso per una tribù, o almeno non certo dannoso. Nei tempi antichi il suicidio non era in generale tenuto in conto di delitto, ma anzi come un atto onorevole pel coraggio che dimostrava; e presso certe nazioni semi-civili è ancora grandemente praticato senza svegliare rimprovero, perchè non si sente in una nazione la perdita di un individuo; qualunque sia la spiegazione che se ne possa dare, il suicidio è raro presso i barbari; tuttavia i neri della costa occidentale dell’Africa offrono, come ho udito dire dal signor Reade, una eccezione per questo riguardo. È stato riferito che un Thug indiano sentiva un coscienzioso rammarico di non aver strangolato e derubato tanti viaggiatori come aveva fatto suo padre. In uno stato di rozza civiltà derubare i forestieri è, invero, considerato generalmente come cosa onorevole.
II grande delitto della schiavitù è stato quasi universale, e gli schiavi sono spesso stati trattati in modo infame. Siccome i barbari non tengon conto dell’opinione delle loro donne, così le mogli sono comunemente trattate come schiave. La maggior parte dei selvaggi vedono con indifferenza i patimenti degli stranieri, o anche ne provano piacere. È cosa nota come le donne e i bimbi degli indigeni del nord-America aiutassero a torturare i loro nemici. Alcuni selvaggi si prendono il barbaro piacere d’incrudelire contro gli animali, e in essi l’umanità è una virtù ignota. Nondimeno sono comuni i sentimenti di simpatia e di benevolenza, specialmente nel caso di malattia, fra i membri di una stessa tribù, e talora si estendono anche oltre i confini di essa. È generalmente noto il commovente racconto che fa Mungo Park della benevolenza dimostratagli dalle donne nere dell’interno dell’Africa. Vi sono molti esempi della nobile fedeltà dei selvaggi fra loro stessi, ma non verso gli estranei; la più comune esperienza mostra la giustezza di quella massima degli spagnuoli: “Non ti fidar mai di un Indiano”. Non vi può esser fedeltà senza la verità; e questa virtù fondamentale non è rara fra i membri di una medesima tribù: così Mungo Park ha sentito le donne nere insegnare ai loro bambini ad amare la verità. Inoltre, questa è una di quelle virtù che mette così profonde radici nella mente, che talora viene messa in pratica dai selvaggi anche con proprio danno verso gli stranieri; ma il mentire al vostro inimico è stato raramente considerato come un male, come del resto dimostra troppo chiaramente la moderna diplomazia. Appena una tribù ha riconosciuto un capo, la disobbedienza diviene un delitto, ed anche la più abbietta sommissione è considerata come una virtù sacra. Siccome nei tempi più rozzi nessun uomo può rendersi utile ed esser fedele alla propria tribù, se manca di coraggio, così questa qualità è stata universalmente messa al più alto posto; e quantunque nei paesi civili un uomo buono, ma timido, possa rendere maggiori servigi alla comunità che non un valoroso, non possiamo a meno di onorare istintivamente quest’ultimo più di quello senza coraggio, per quanto sia buono. Inoltre, la prudenza, la quale non ha che fare colla prosperità degli altri, per quanto sia una virtù utile, non è mai stata molto apprezzata. Siccome nessun uomo può, senza sagrifizio, padronanza di sè e forza nel sopportare, mettere in pratica le virtù necessarie al bene della sua tribù, queste qualità sono state in ogni tempo tenute molto giustamente in altissimo concetto. Il selvaggio Americano si sottomette senza un lamento alle più orribili torture per dimostrare ed afforzare la sua fortezza ed il suo coraggio; e noi non possiamo a meno di ammirarlo, come anche un Fakiro indiano, il quale per un assurdo principio religioso si dondola sospeso ad un gancio infilzato nelle sue carni.
Le altre virtù riguardanti gl’individui che non hanno un effetto evidente sebbene possano talora avere un effetto reale sulla prosperità di una tribù, non furono mai tenute in gran conto dai selvaggi, quantunque ora presso le nazioni civili siano altamente apprezzate. Presso i selvaggi, la più grande intemperanza non è cosa riprovevole. La loro sfrenata dissolutezza, per non parlare dei delitti snaturati, è qualche cosa che fa trasecolare. Tuttavia, appena il matrimonio diventa comune, sia esso poligamo o monogamo, la gelosia trarrà con sè l’inculcare la virtù femminile; e questa virtù essendo onorata, tenderà ad estendersi in tutte le donne nubili. Quando lentamente questa virtù vada estendendosi nel sesso maschile vediamo ai nostri giorni. La castità richiede in sommo grado il dominio di sè; perciò è stata onorata fino dal più antico periodo della storia morale dell’uomo civile. In conseguenza di ciò la sragionevole pratica del celibato e stata considerata fino da tempi antichissimi come una virtù. L’odio per l’indecenza, il quale ci sembra tanto naturale da considerarsi come cosa innata, e che è un così valido sostegno della castità, è una virtù moderna, che appartiene esclusivamente, come osserva sir G. Staunton, alla vita civile. Ciò è dimostrato dagli antichi riti religiosi delle varie nazioni che si osservano nei dipinti di Pompei, e dalle pratiche di molti selvaggi.
Abbiamo ora veduto che i selvaggi tengono per buone o cattive, e questo probabilmente era il modo di vedere dell’uomo primitivo, soltanto quelle azioni che non sono nocevoli ostensibilmente al buonessere delle tribù – non quello della specie, e neppure quello dell’uomo come membro individuale della tribù. Questa conclusione concorda bene colla prudenza che il così detto senso morale deriva originariamente dagli istinti sociali, perchè entrambi si riferiscono dapprima esclusivamente alla comunità. Dal nostro punto di vista, le principali cagioni della poca moralità dei selvaggi sono principalmente la simpatia limitata alla stessa tribù. In secondo luogo la insufficiente potenza di ragionamento, per cui non si può riconoscere la parte che hanno molte virtù, specialmente le virtù riguardanti l’individuo, al buonessere della tribù. Per esempio i selvaggi non sanno comprendere i molti mali che derivano dalla mancanza di temperanza, di castità, ecc. E, in terzo luogo, la scarsa potenza del padroneggiarsi; perchè questa potenza non si è accresciuta per lunga e continua e forse ereditata abitudine, per l’istruzione e per la religione.
Mi sono esteso un tantino intorno alla immoralità dei selvaggi, perchè certi autori si son fatti recentemente un alto concetto della loro natura morale, o hanno attribuito la maggior parte dei loro delitti ad una mal compresa benevolenza. Questi autori sembrano appoggiare la loro conclusione a ciò che i selvaggi posseggono, cosa del resto certissima, e spesso in alto grado, quelle virtù che sono vantaggiose, o anche necessarie per l’esistenza di una comunità.
Osservazioni conclusive. – I filosofi della scuola derivativa di morale sostenevano dapprima che la base della moralità consiste in una forma di egoismo; ma più recentemente nel gran principio della massima felicità. Secondo il modo di vedere summenzionato, il senso morale è fondamentalmente identico agli istinti sociali; e per ciò che riguarda gli animali sottostanti sarebbe assurdo considerare questi istinti come derivanti da egoismo, o dalla felicità della colonia. Tuttavia, sono certamente stati sviluppati dal bene generale della comunità. Questo modo di dire, bene generale, può venire definito siccome il mezzo per cui il maggior numero possibile di individui possono essere venuti su sani e vigorosi, con tutte le loro facoltà bene sviluppate nelle condizioni in cui si trovano. Siccome gli istinti sociali tanto dell’uomo come degli animali a lui inferiori sono stati senza dubbio sviluppati colla stessa gradazione, sarebbe convenevole, se fosse praticabile, adoperare in ambi i casi la stessa definizione, e prendere per prova di moralità il bene e la prosperità della comunità, piuttostochè la generale felicità; ma questa definizione richiederebbe forse qualche restrizione a cagione della morale politica.
Quando un uomo mette a repentaglio la propria vita per salvare quella di un suo simile, sembra più giusto dire che opera pel bene o per la prosperità generale, piuttostochè per la felicità generale di tutto il genere umano. Non v’ha dubbio che la prosperità e la felicità individuale consuetamente si collegano; ed una tribù contenta e felice sarà più prospera che non quella che è scontenta ed infelice. Abbiamo veduto che nei primi periodi della storia dell’uomo, i desideri evidenti della comunità hanno dovuto avere naturalmente molta azione sulla condotta di ogni membro; e siccome tutti desiderano la felicità, il principio della più grande felicità doveva divenire una importantissima secondaria guida e scopo; gl’istinti sociali, includendo simpatia, fanno sempre opera di principali impulsi e di guida. Così vien tolto il rimprovero di dar fondamento alla più nobile parte della nostra natura sul basso principio dell’egoismo; a meno che, invero, si possano chiamare egoismo la soddisfazione che ogni animale sente nel seguire i propri istinti, e lo scontento che prova quando non sono soddisfatti.
L’espressione dei desideri e quello dei giudizi dei membri della medesima comunità, dapprima col linguaggio orale e poi collo scritto, serve, come fu giustamente osservato, di importantissima secondaria guida di condotta in appoggio degli istinti sociali, ma talora si oppone ad essi. Quest’ultimo fatto vien bene dimostrato dalla Legge dell’Onore, che è la legge dell’opinione dei nostri uguali, e non quella di tutti i nostri compatriotti. La violazione di questa legge, anche quando è riconosciuto che questa violazione non intacca per nulla la vera moralità, ha cagionato a molti uomini maggiori angosce che non un vero delitto. Noi riconosciamo la stessa azione nel vivo senso di vergogna che la maggior parte di noi abbiamo risentito anche dopo un intervallo di parecchi anni, quando ci si presentava alla mente alcuna accidentale violazione di qualche futile ma salda regola di etichetta. Il giudizio della comunità, in generale, avrà per guida qualche rozza esperienza di ciò che a lungo andare è il meglio per tutti i membri; ma questo giudizio non di rado sbaglierà per l’ignoranza e per la poca forza di ragionamento. Quindi, gli usi più strani e le superstizioni più singolari, che sono al tutto opposte alla vera prosperità e felicità del genere umano, sono divenuti onnipotenti per tutto il mondo. Ciò noi vediamo nell’orrore che prova l’Indiano che viola le leggi della sua casta, nella vergogna della donna musulmana che mostra scoperto il suo volto, ed un numero infinito di altri ceti. Sarebbe difficile fare la distinzione fra il rimorso che prova un Indiano che ha mangiato cibo immondo, da quello che sente dopo aver rubato; ma è probabile che il primo sia più forte.
Non sappiamo quale origine abbiano avute certe assurde regole di condotta, e certe sciocche credenze religiose; nè in qual modo abbiano posto, in tutte le parti del mondo sì salde radici nella mente degli uomini; ma è cosa degna di nota che una credenza inculcata costantemente durante i primi anni della vita, quando il cervello è più impressionabile, sembra acquistare quasi la natura di un istinto; e la vera essenza di un istinto è che vien seguito indipendentemente dalla ragione. E neppure possiamo dare la ragione del fatto che alcune mirabili virtù, come l’amor della verità siano apprezzate molto di più da certe tribù selvagge che non da altre; e neppure perchè così fatte differenze prevalgano anche presso nazioni civili. Sapendo noi quanto inveterate siano divenute molte strane leggi e superstizioni, noi dobbiamo sorprenderci che le virtù particolari ci debbano ora sembrare così naturali, mentre sono rette dalla ragione, tanto da sembrare innate, quantunque l’uomo nella sua primiera condizione non ne tenesse conto.
L’uomo, malgrado molte cause di dubbio, può in generale e prontamente fare la distinzione fra le più elevate e le più basse regole morali. Le più alte si appoggiano agli istinti sociali, ed hanno relazione colla prosperità degli altri. Sono sostenute dalla approvazione del nostro simile e dalla ragione. Le più basse, sebbene alcune di esse, esigendo il sacrificio personale, non possano più meritare quel nome di basse, si riferiscono principalmente all’individuo, e debbono la loro origine alla opinione pubblica, quando sia divenuta matura per la esperienza e per l’educazione; perchè esse non sono praticate da tribù rozze.
Man mano che l’uomo progredisce nello incivilimento, e le tribù poco numerose si uniscono per formare comunità più grandi, la più semplice ragione insegnerà ad ogni individuo che egli deve estendere i suoi istinti sociali e le sue simpatie a tutti i membri della medesima nazione, sebbene non li conosca personalmente. Giunto una volta a questo punto, non vi è più che un ostacolo artificiale a ciò che le sue simpatie non si estendano agli uomini di tutte te nazioni e di tutte le razze. Invero, se siamo separati da questi uomini da grandi differenze nell’aspetto e nei costumi, l’esperienza dimostra sfortunatamente quanto tempo ci vuole perchè possiamo venire a considerarli come nostri simili. La simpatia, oltre i confini umani, che vuol dire l’umanità verso le bestie, sembra essere fra gli acquisti morali più tardivi. Non sembra che i selvaggi la provino tranne che per quegli animali che prediligono. Le orribili lotte di gladiatori ci dimostrano quanto poco gli antichi Romani conoscessero questa facoltà morale. L’idea stessa dell’umanità, per quanto ho potuto osservare, era nuova per la maggior parte del Gauchos delle Pampas. Questa virtù, una delle più nobili di cui l’uomo sia fornito, sembra derivare per incidente da ciò che le nostre simpatie facendosi più tenere e più espansive e diffuse, vengono a riversarsi su tutti gli esseri senzienti. Appena questa virtù viene onorata e praticata da alcuni uomini, si diffonde mercè l’istruzione e l’esempio ai giovani, ed eventualmente tende a radicarsi nella pubblica opinione.
Il punto più alto cui possiamo giungere nella coltura morale, è quello di poter riconoscere che dobbiamo dominare i nostri pensieri, e “non ripensare neppure nel più interno della mente ai peccati che ci resero piacevole il passato”. Chiunque rende familiare il suo pensiero con una cattiva azione, ne agevola di molto il compimento. Siccome disse anticamente Marco Aurelio: “come sono i tuoi abituali pensieri, così sarà l’indole della tua mente; perchè l’anima prende le impressioni del pensiero”.
Il nostro grande filosofo, Erberto Spencer, ha recentemente espresso il suo modo di vedere intorno al senso morale. Egli dice: “Io credo che gli esperimenti di utilità organizzati e consolidati lungo le passate generazioni della razza umana siano andati producendo corrispondenti modificazioni, le quali venendo di continuo trasmesse ed accumulate, sono divenute in noi certe facoltà di intuizione morale, certe emozioni corrispondenti alla retta ed alla cattiva condotta, che non hanno base apparente nelle individuali esperienze di utilità”. A me non pare che possa esservi la minima improbabilità inerente, acciocchè le tendenze virtuose siano più o meno fortemente ereditate; perchè senza parlare delle varie disposizioni ed abitudini che si vanno trasmettendo in molti dei nostri animali domestici, ho sentito dire dei casi in cui la voglia di rubare e la tendenza al mentire sembravano trasmettersi in certe famiglie agiatissime; e siccome il rubare è un delitto rarissimo nelle classi ricche, noi non possiamo guari attribuire a mero caso tendenze che si manifestano in due o tre membri della stessa famiglia. Se si possono trasmettere le cattive tendenze, è possibile che anche le buone siano trasmessibili. Togliendo il principio della trasmissione delle tendenze morali non possiamo darci ragione delle differenze che esistono per questo riguardo fra le varie razze del genere umano. Tuttavia fino ad oggi non abbiamo guari sufficienti prove in proposito.
Anche la trasmissione parziale delle tendenze virtuose deve essere di un immenso aiuto ai principali impulsi che derivano direttamente dagli istinti sociali, e indirettamente dalla approvazione del nostro simile. Ammettiamo pel momento che si ereditino le tendenze virtuose, sembra probabile, almeno nei casi come della castità, della temperanza, della umanità verso gli animali, ecc., che vengano impresse nella mente mercè l’abitudine, l’istruzione e l’esempio, continuate per parecchie generazioni nella stessa famiglia, e in un grado molto subordinato, o nullo, da individui forniti di quelle virtù, che sono meglio riusciti nella lotta per la vita. La principale sorgente di dubbio che io abbia intorno ad ogni cosiffatto retaggio viene da quegli usi insensati, da quelle superstizioni e da quei gusti, come sarebbe l’orrore dell’Indo pel cibo immondo, dovuto allo stesso principio della trasmissione. Quantunque ciò per se stesso forse non sia meno probabile che non quello che alcuni animali ereditino un gusto particolare per certe sorta di cibo, o il timore per certi nemici, non ho mai incontrato nessun esempio per sostenere la trasmissione di usi superstiziosi o di sciocche abitudini.
Infine, gli istinti sociali, i quali certamente furono acquistati dall’uomo e dagli animali sottostanti pel bene della comunità, debbono avergli dato dal principio un certo desiderio di imitare i suoi compagni, e un certo senso di simpatia. Cotali impulsi saranno stati per lui, in un periodo molto primitivo, come una rozza guida per discernere il giusto dall’ingiusto. Ma mentre l’uomo andava progredendo man mano in potenza intellettuale e poteva riconoscere le più remote conseguenze delle sue azioni; mentre acquistava sufficienti cognizioni per respingere da sè le superstizioni e gli usi nocevoli; mentre considerava e cercava sempre più non solo la prosperità ma la felicità del suo simile; mentre le sue simpatie, mercè l’abitudine, la benefica esperienza, l’istruzione e l’esempio, si facevano sempre maggiori e più diffuse, tanto da estendersi agli uomini di tutte le razze, agli idioti, agli storpi ed agli altri membri inutili della società, e finalmente agli animali sottostanti, in tal modo si andava sempre più e più elevando il livello della sua moralità. E tutti i moralisti della scuola derivativa ed alcuni intuizionisti ammettono che il livello della moralità è andato crescendo da un antichissimo periodo della storia dell’uomo.
Siccome possiamo talvolta osservare la lotta che in alcuni animali a noi inferiori segue fra i loro vari istinti, così non vi sarebbe da far le meraviglie che vi fosse pure una lotta nell’uomo fra i suoi istinti sociali, le virtù che da quelli derivano, e i suoi più bassi sebbene momentaneamente più potenti impulsi o desiderî. Ciò, come osserva il signor Galton, è tanto meno sorprendente, in quanto che l’uomo è uscito da uno stato di barbarie da un tempo comparativamente recente. Dopo aver ceduto a qualche tentazione noi sentiamo un certo senso di scontento, analogo a quello che fanno provare gli istinti insoddisfatti, e allora si chiama coscienza; perchè non possiamo impedire alle immagini ed impressioni del passato di attraversare continuamente la nostra mente, e noi la compariamo, affievolite come sono, cogli istinti sociali sempre presenti, o colle abitudini che abbiamo contratto nella prima giovinezza e che son divenute più forti col progredire degli anni, e forse anche per via dell’eredità, per cui si son fatte alla fine quasi tanto potenti quanto gli istinti. Pensando alle future generazioni, non v’è ragione per temere che gl’istinti sociali si vadan facendo più deboli, e possiamo prevedere che gli abiti virtuosi si faranno più forti, e mercè l’eredità forse diverranno stabili. In questo caso la lotta fra i nostri migliori impulsi contro i cattivi sarà meno forte e la virtù finirà per trionfare.
Sommario dei due ultimi capitoli. – Non vi può essere ombra di dubbio che fra l’intelligenza dell’uomo più basso e quella dell’animale più perfetto siavi una immensa differenza. Se una scimmia antropomorfa potesse dare un giudizio spassionato del suo proprio caso, dovrebbe riconoscere che, quantunque possa fare un progetto artifizioso per depredare un giardino, sebbene possa adoperare i sassi per difendersi o per rompere le noci, tuttavia il pensiero dl foggiare un sasso per modo da farne un utensile è al tutto superiore ai suoi mezzi. E tanto meno poi, come dovrebbe pure riconoscere, potrebbe tener dietro ad un ragionamento metafisico, o risolvere un problema di matematica o riflettere sulla esistenza di Dio, o ammirare una scena naturale. Tuttavia alcune scimmie probabilmente dichiarerebbero di esser sensibili alla bellezza della pelle colorita e della pelliccia dei loro sposi. Riconoscerebbero che sebbene possano far comprendere coi loro gridi ad altre scimmie alcune delle loro percezioni, o anche dei loro più semplici bisogni, la nozione dell’esprimere idee definite con suoni definiti non è mai passata loro per la mente. Potrebbero insistere sul loro essere sempre pronte a correre ad aiutare in vari modi le scimmie loro compagne della stessa schiera, a porre a repentaglio la propria vita per esse, a prender cura degli orfani; ma dovrebbero per forza riconoscere che l’amore disinteressato per tutte le creature viventi, che è il più bell’attributo dell’uomo, è loro affatto incomprensibile.
Nondimeno, per quanto grande sia la differenza che passa fra la mente dell’uomo e quella degli animali più elevati, è differenza solo di grado e non di qualità. Abbiamo veduto che i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà, come l’amore, la memoria, l’attenzione, la curiosità, l’imitazione, la ragione, ecc., di cui l’uomo va altero, si possono trovare in una condizione incipiente, o talora anche bene sviluppata negli animali sottostanti. Inoltre essi sono anche soggetti ad un miglioramento ereditario, come vediamo nel caso del cane domestico comparato col lupo o collo sciacallo. Se si può affermare che certe potenze, come la consapevolezza di sè, l’astrazione, ecc., sono particolari all’uomo, può benissimo essere che questi non siano altro che effetti incidentali di altre facoltà intellettuali molto inoltrate; e queste di nuovo non siano altro che l’effetto dell’uso continuo di un linguaggio altamente sviluppato. In quale età il bambino comincia a possedere la potenza di astrazione o divenire conscio di sè e riflettere sulla propria esistenza? Non possiamo rispondere, nè possiamo neppure rispondere per ciò che riguarda la scala organica ascendente. La semi-arte ed il semi-istinto del linguaggio conservano ancora l’impronta della loro graduata evoluzione. Il nobile sentimento della fede in Dio non è universale nell’uomo; e la credenza negli agenti spirituali attivi viene naturalmente dalle altre sue potenze mentali. Il senso morale forse fornisce la migliore e la più grande distinzione fra l’uomo e gli animali sottostanti; ma non fa d’uopo dire altro su questo particolare, avendo io più sopra cercato di dimostrare che gl’istinti sociali, principio primo della costituzione morale dell’uomo, aiutati dalle forze attive intellettuali e dagli effetti dell’abitudine, conducono naturalmente a quella legge aurea: Fa agli altri quello che tu vorresti fatto a te; e questo sta alla base della morale.
In un capitolo avvenire farò poche osservazioni intorno al probabile andamento ed ai mezzi per cui parecchie facoltà mentali e morali dell’uomo sono venute grandemente svolgendosi. Che questo almeno sia possibile non deve essere negato, quando noi ne vediamo giornalmente lo sviluppo in ogni bambino; e quando possiamo segnare una perfetta graduazione tra la mente di un uomo al tutto idiota, più basso dell’animale più basso, e la mente di Newton.