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La storia, gli uomini, il tempo
piccolissimo sguardo sulla filosofia della storia antica e medievale
di Massimo Ciceri
“il tempo della storia, realtà concreta e viva restituita all’irreversibilità del suo corso, è il plasma stesso in cui stanno i fenomeni, è come il luogo della loro intellegibilità".1.A Dal cerchio alla freccia: dal tempo senza tempo degli antichi al Dio uomo nel tempo dell’uomo
Con la prima persecuzione ordinata da Nerone contro i cristiani (67d.c.) si incrina irrimediabilemente la solida tradizione di tolleranza religiosa dell’Impero: l’occidente si trova per la prima volta di fronte ad un culto religioso insolito e profondamente innovatore, un culto “popolano”, “provinciale”, rozzo e allo stesso tempo sorprendentemente aperto alla profondità filosofica. Un culto che nella sua misteriosa semplicità agirà in modo potente a dissolvere il “mondo antico” e a caratterizzare un’epoca affatto nuova.
La “nuova religione” sorprende l’occidente antico anche (o soprattutto…) per una sorprendente visione della storia umana: il tempo dell’uomo non è più solo suo, è tempo di Dio con l’uomo, è tempo di Dio per la manifestazione di Se Stesso attraverso la vicenda umana. Divinità e storia sono vicine quanto non lo erano mai state prima. Il mondo antico è sorpreso da una religione i cui testi sacri sono in gran parte – per così dire – testi di storiografia. Le origine ebraiche del cristianesimo poggiano su un Antico Testamento che ha un rispetto profondissimo per la storia umana e per la narrazione storica. Di piu: se nel mondo antico l’interesse per la cronaca dei fatti passati è squisitamente agiografica, nel racconto storico dell’Antico Testamento Dio ispiratore guida i suoi scrittori a narrare la storia umana in modo per così dire “moderno”, collocando i fatti nella loro cruda realtà, a nche (o soprattutto…) quando parlano delle debolezze del “popolo eletto”, dei suoi peccati e delle sue infedeltà:
“Deuteronomio 31,26 <prendete questo libro e ponetelo accanto all’arca dell’alleanza del Signore Dio vostro, affinchè stia ivi in testimonianza contro di te> Al di sopra degli Ebrei c’è un’altra mano severa ed imparziale che ha scritto senza lusinghe un documento di accusa contro i suoi prediletti” (Vedi Galbiati- Piazza, pagine difficili della Bibbia, Milano 1962, il capitolo “L’antico testamento e la storia” )
Così gran parte dei testi sacri della religione cristiana, unici nel loro genere, si pongono anche e soprattutto come cronache accurate e fedeli della storia dell’uomo e testi di autentica “storiografia”, nel momento in cui di questa storia umana danno un’interpretazione messianica:
“nella mente di Dio cioè, l’una e l’altra cosa, la realtà israelitica e quella messianica sono tra loro congiunte sì che la prima, oltre che una tappa verso la seconda, ne risulta anche un’immagine adeguata. Così il passato (meraviglia solo all’onniscenza e provvidenza del Dio eterno) è modellato sul futuro e non viceversa” ( Ibid., il capitolo “il messianismo”)
Rispetto a questa tradizione testuale, la vicenda umana di Cristo si pone, come sappiamo, a compimento e a realizzazione; ma non solo e non in modo semplice. La passione e la Resurrezione, prima di essere evento autenticamente messianico, sono momento assolutamente storico, fatto determinato, punto preciso nel tessuto degli eventi, inserimento insolito dell’azione di Dio nel mondo a partire dal quale il tempo storico si orienta. E a partire dal quale viene spezzata per sempre (almeno secondo il pensiero occidentale fino al ‘900) ogni ipotesi di circolarità del tempo e ogni rigenerazione: il “ritmo” dell’universo immaginato dagli stoici diventa improponibile. A partire dalla Resurrezione il tempo storico del mondo si orienterà secondo un “prima” e un “dopo” che non avranno altre repliche, secondo un tempo di preparazione e un tempo di compimento che saranno unici nell’eternità. E anche in questo tempo “del poi” il Cristianesimo scardinerà completamente la visione del tempo del mondo antico: il Bene si manifesta perfetto all’uomo immediatamente, nell’attimo istantaneo della Resurrezione, ma non mette l’uomo, secondo una visione “platonizzante”, istantaneamente e definitivamente a contatto con la perfezione, lo avvia su un cammino difficilissimo verso la vera Parusìa. Un cammino tanto più incomprensibile quanto più lungo:
“Gesù annuncia che il regno di Dio è all’opera oggi, in questo oggi che non è una fine ma è un inizio. Il regno che sembrava doversi realizzare subitaneamente, ha una storia (…) i tempi e le scadenze sono così determinati da Dio che regola il corso della storia. Né processo immanente, né catastrofe imprevista, ma disegno di Dio fedele che conduce la storia al suo termine e la cui fedeltà si eprime attraverso la regolarità delle leggi della natura” (Cfr. Lèon Dufour. “I vangeli e la storia di Gesù” Milano, 1986 – il capitolo “il regno di Dio è in atto” )
L’attualità quotidiana del Regno, l’attesa della Parusìa che diventa sempre meno imminente sconvolgeranno così non solo il mondo pagano, ma anche, e soprattutto il mondo dei primi cristiani ancora incrostato di filosofia antica e paganesimo. Il “tempo storico” che Dio impone agli uomini imporrà anche e soprattutto una riflessione profonda sulla fragilità umana a resistere alla fatica di questo “tempo da trascorrere”: l’eresia DONATISTA è in qualche modo un segno tangibile della difficoltà di trovare il significato gnoseologico profondo di questa “lunga attesa” che è la Storia guidata dal Dio cristiano.
( DONATISMO : eresia fiorita nel IV secolo secondo la quale non si dovevano riammettere nella comunità cristiana i lapsi e i traditores, in altre parole quelli che nel corso delle persecuzioni avevano ceduto abiurando o consegnando ai pagani i libri sacri. I sacramenti amministrati da sacerdoti e vescovi indegni erano considerati inefficaci dai donatisti Cfr. A. Agnoletto, storia del cristianesimo, Milano1986)
Identificare la fenomenologia del bene di Dio con il tempo della Storia, spalanca però i battenti al problema cardine della teodicea: non si può rimanere ciechi di fronte alle profonde incrostazioni di male e di dolore nella vita degli uomini. Perché il “modo di raccontare la storia” che ha scelto Dio per rendere protagoniste le sue creature è dunque così drammatico e doloroso?
La risposta cristiana a questa domanda attraversa tutta la filosofia medievale (e andrà oltre), complicandosi, affinandosi e affermandosi come risposta predominante. Ma all’inizio non fu l’unica. Manicheismo e Gnosi, di fronte al mistero dell’incarnazione di Cristo rifiutarono nettamente l’idea di un mondo creato in cui il male e il bene avessero uguale origine da Dio. E così, mentre i manichei, come abbiamo visto, vollero credere che la radice del male storico fosse in un principio negativo increato, gli Gnostici, con una mossa sorprendente, spezzarono l’unità del Vecchio e Nuovo Testamento proprio nel momento in cui la predicazione cristiana dei primi secoli si dava da fare per unirle. Il Dio ebraico, del Vecchio Testamento, secondo gli gnostici, non era alto che un “dio minore”, un demiurgo malvagio chiuso nel carcere miserabile della materia corporea e incessantemente condannato a plasmare e riplasmare questa materia e con essa la storia corporea dell’uomo, condannato a legare con catene eterne la materia a se stessa per allontanarla dallo spirito. E dunque, condannata la materia a se stessa e condannata la storia del Popolo Eletto a un mero accavallarsi di fatti, a che scopo il “Dio Perfetto” sommmo Bene avrebbe dovuto offrire il proprio Figlio a questa materia e al dolore? Come potevano spiegare gli gnostici l’Incarnazione e la Passione? Senza spiegarla in effetti: la vita di Cristo, secondo gli Gnostici e i Manichei fu null’altro che l’apparizione di un puro spirito in un corpo apparente; non fu altro che pura illusione, finzione, icona perfetta di una realtà ideale e immutabile… il tempo dell’uomo, la sua storia e tutto il male in essa, secondo la Gnosi e il Manicheismo rimanevano un territorio impossibile da bonificare. E il tempo diviso nell’eterno conflitto di Bene e Male rimaneva senza punto di partenza e punto d’arrivo, esattamente come prima dell’”apparizione” di Cristo.
(Vedi due edizioni recenti serie: “Il vangelo di Tommaso e come fu scoperto”. a.c. Dart J. e Riegert R. e Crossant D. e “Il vangelo di Tommaso. Tra eresia e fede: un cammino gnostico sui codici di Nag Hammadi” a.c.Marco Civra)
2.B – Agostino: il difficile luogo dell’uomo nel tempo
Tuttavia, il problema sollevato dalla Gnosi e dela maicheismo non era di semplice soluzione: la vicenda umana, storica, di Cristo (dopo il concilio di Nicea non vi furono più dubbi in merito) nella sua autenticità prometteva una redenzione certa nei “tempi ultimi” e garantiva all’uomo di incontrare certamente il suo Dio nella Storia.
Ma i fatti smentivano la Fede e la Speranza: nella Storia attraversata dalla ferocia umana e dalla guerra il Dio cristiano appariva quasi soggiogato dalla potenza del male. E incapace di riuscire a controllare quella natura che gli dei pagani sottomettevano con facilità.
Trascinato sul terreno della Storia, davanti alla devastazione del cuore del mondo, Roma nel 410, il Dio Cristiano sembrava tacere imbarazzato: perché non aveva protetto il popolo che si era affidato a lui? E soprattutto, perché la forza poderosa dell’Impero aveva cominciato a sgretolarsi dopo e solo dopo la conversione definitiva dell’Imperatore a Cristo? L’arma più tagliente contro la nuova religione fu proprio la mentalità istintivamente storicista con cui l’antichità aveva sempre letto il corso degli eventi.
Sarà Agostino di Ippona a impegnarsi su questo terreno non facile, con un’opera assolutamente unica nel suo genere, “de Civitate Dei”.
Agostino, in modo emblematico, viene quasi trascinato a viva forza dai fatti ad occuparsi di storia umana e del suo significato.
Prima del 410 infatti, nelle sue riflessioni, come abbiamo già visto...
(si da per scontato che sia già stato trattato il tema del tempo in Agostino. Eventualmente verranno letti i famosi brani delle Confessioni cap. XI sulla natura del tempo)
... Agostino legge lo scorrere del tempo umano in modo strettamente filosofico: sospeso tra passato e futuro, in un presente quasi etereo, impalpabile. Il tempo, creato da Dio con un atto irripetibile, nelle mani dell’uomo è ancora tempo squisitamente “filosofico”; è “distensione dell’anima”, un “basso continuo” persistente ed inesprimibile che riporta l’anima al suo desiderio di ricongiungersi al Creatore. Il tempo delle “Confessioni”, in certo modo, è ancora solo il tempo della Natura e dell’uomo nella Natura: è ritmo, passo dopo passo, dall’eternità e verso di essa. Un palcoscenico ancora vuoto; su cui la storia, però, sarà inevitabilmente chiamata a recitare una piéce unica, senza repliche.
Nel “Civitate dei” Agostino si occupa di tempo e di temporalità, infatti, in un modo decisamente diverso. Il tempo creato, filosoficamente percepito, quasi si “inspessisce” nei fatti, si declina nella storia, diventa concrezione dura di scelte e pensieri umani. Sempre da Dio creato e da Dio significato ma questa volta potentemente agito dall’uomo, potentemente scolpito dalla malvagità umana. Il tempo del Civitate dei è, per la prima volta, Storia a cui si chiede un significato. E per Agostino, sospeso tra medioevo e modernità, questo significato: è la struttura stessa del tempo: i fatti non anticipano il Regno, è piuttosto la “ragione seminale” del Regno promesso che spiega i fatti. Cristo, morendo in croce, entra nella Storia per viverla, concluderla e disvelarla: La sua umanità, contro ciò che pensano i manichei e gli gnostici, è necessaria quanto la sua divinità, per Agostino. Così attraverso Cristo la malvagità umana, le stragi e le crudeltà, gli imperi che crescono e muoiono, i grandi fatti della storia sono tutti ricondotti a Dio come i fatti della natura. Se il tempo della natura è conchiuso e significato così è conchiuso e significato il tempo dell’uomo. Attraverso una constatazione che Agostino fa con una semplicità sorprendente, lasciando, per così dire, semplicemente parlare il Vangelo “lasciate che l’uno e l’altro crescano fino alla mietitura” (Mt. 13,30)
Il male del mondo, tutto il male, è male storico; è pura storia umana, concrezione di volontà umana. E’ sempre e solo conseguenza di una volontà umana che sceglie di allontanare lo sguardo da Dio. Ed è un male necessario, che deve esplicarsi, nel tempo creato da Dio, insieme alla ricerca del Bene. Grano e zizzania devono crescere assieme , anche perché attraverso Dio opera per la costruzione del Regno anche attraverso le opere malvage e peccaminose dell’uomo: l’impero Romano, autentica concrezione di orgoglio e superbia mondani, fu pur sempre, afferma Agostino, terreno preparatorio alla venuta di Cristo e al passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento.
Ma la vera novità dell’opera di Agostino non è tanto l’accento sulla “vicinanza” di male e bene ma sul tempo necessario alla “crescita” delle due realtà. Il mondo deve esplicarsi come costruzione apparentemente malvagia, insensata, spietata e crudele. Ma solo apparentemente. Solo agli occhi ndell’uomo, appunto. L’errore fatale della Gnosi, del Manicheismo della filosofia polita e fredda di Cicerone, secondo Agostino, è proprio qui: nel fermarsi alla schiuma dei fatti e dinon vedere il fiume profondo di acqua viva che Dio incanala nella Storia.
E’ sufficiente guardare al Risorto, afferma allora Agostino, per capire il regno di Dio sulla storia. E solo incontrando la Fede l’uomo, nel suo tempo, può fare l’unica scelta che abbia significato per se stesso: se aderire alla comunità di uomini che costruisce sulla sabbia, guardando solo all’ambizione umana e al miserabile mucchio di sforzi per erigere imperi, concquistare terre e sottomettere genti, o se aderire alla comunità di chi costruisce sulla roccia, accumulando tesori in cielo, appartendo al mondo corporeo senza pre-occuparsene, senza caderne vittime, senza “diventare mondani”.
Scegliere di appartenere alla Città di Dio o alla Città dell’uomo: questo è l’unico compito dell’uomo nel tempo della sua Storia. Confidando nella Fede e ben sapendo che la scelta è impossibile appoggiandosi alla semplice ragione umana: grano e zizzania sono legati in modo inestricabile e solo la fede consente di distinguere. Tanto più che la Fede, secondo Agostino, è per prima lei stessa un fatto unico, “storico” di ciascuno di noi, tassello del tempo personale, un fatto che ha una “data di nascita” precisa, un prima e un dopo. Dio si manifesta all’uomo nel tempo che scorre. Sempre.
Una “terza via” filosofica e intellettuale rispetto a questa scelta tra città di Dio e città dell’uomo è impossibile. Cercare di allontanarsi prematuramente – attraverso il suicidio - dal campo di battaglia tra male e bene, cercare di preservarsi con perfetta chiarezza di intelletto dal contagio del Tempo, sostiene Agostino, non il più “puro” e liberatorio dei comportamenti, come volevano gli stoici, ma il più mondano, il più greve, perché è tutto solo autenticamente umano, senza alcuna scintilla di Fede. E in definitiva il più inutile: Attilio Regolo, afferma Agostino, fu superiore a Catone.
Ecco allora che, nel Civitate dei , la lettura precisa dei fatti, l’accuratezza, la distinzione netta tra racconto storico, favola e mito sono fondamentali ad Agostino per contrastare la visione pagana e politeista della crisi storica in atto e dare forza alla nascente filosofia cristiana: i nudi fatti accertati – la storiografia pagana! - dimostrano che gli dei di Roma non hanno mai protetto la città più di quanto abbia fatto il Dio cristiano. E dimostrano che, piuttosto, proprio la fede imperfetta dei pagani e dei politeisti, così mondana, così materiale e così priva di un vero sgurado verso l’Assoluto, è stata la vera implicita causa della rovina necessaria dell’Impero. Rovesciando l’avversasio con le sue stesse armi, Agostino afferma quindi l’estraneità dell’uomo salvato da Cristo alla rovina del mondo: è proprio la memoria dei fasti di Roma, la preziosa collezione antiquaria delle memorie dei fasti dell’impero, a condannare Roma alla rovina fin dalla sua fondazione. Se il tempo trascorso – è questa la novità degli scritti Agostiniani – viene letto secondo una interpretazione, secondo una filosofia della storia, il mero rapporto contingente di causa-effetto si sfalda. Se l’interpretazione è spinta in profondità, come la filosofia antica non volle fare, si incontrano fiumi sotterranei profondi che hanno sorgenti misteriose…
(dalla"Città di Dio" di Agostino: sull'inutilità del suicidio: cap I, 20-23; Dio ordinatore del mondo: cap V, 11; sulle due città : cap XIV, cap XVII (vari); Il fato di Roma non dipese dagli astri o dal caso V, 1; Il vero Dio ha inserito l'impero romano in un disegno della provvidenza V, 21-22 )
2.C – Dalla Scolastica all’Umanesimo: alla ricerca dello spazio dell’uomo nel tempo.
L’opera di Agostino costruisce per l’occidente cristiano, un alveo profondo in cui il senso dello scorrere del tempo e la filosofia della storia scorreranno quasi infallibilmente fino al XIV sec. E’ un argine per molti versi rassicurante: l’uomo – qualsiasi uomo, anche il non filosofo - può passare tranquillamente attraverso la contingenza del tempo senza timore della prevalenza del male… Ma è anche un argine strettissimo: la libertà umana e la sua capacità di partecipare alla realizzazione del disegno di Dio vengono messi sotto pressione.
Già con Boezio (VI sec.), sul crinale tra mondo antico e medioevo, proprio dove la Provvidenza preveggente prende il posto del cieco Fato antico, il problema del libero arbitrio mette in crisi la serenità dell’orizzonte filosofico: se Dio ha il governo del tempo umano come fanno gli uomini ad essere liberi? Boezio esce dalla stretta a fatica e più con un bizantinismo che con una vera argomentazione filosofica: Dio ha perscienza 7 della libertà umana proprio in quanto “libertà”. Dio ha conoscenza di un presente che non viene mai meno…
(Lettura dal passo della “consolatione philosophie” cap V par 3 segg.)
E’un problema, quello della prescienza divina in rapporto alla libertà umana, cruciale, con cui il pensiero occidentale farà i conti per tutto il medioevo e oltre (cfr. anche il “de concordia” di Anselmo d’Aosta)
Il problema dell’azione schiettamente umana sul tessuto del tempo, dunque, resta invariabilmente. E in qualche modo, con l’epoca carolingia, si fa ancora più ineludibile. Con la nascita del Sacro Romano impero la città terrestre stigmatizzata da Agostino non ha più una vera entità con cui identificarsi (Roma) perché l’Impero si definisce sempre più come corpo materiale della Città di Dio. Salvati e peccatori abitano la medesima città, condividendo sacro e profano, preoccupazioni temporali e attese escatologiche. Il dualismo insanabile tra le due città lascia il posto al tentativo squisitamente temporale di armonizzare i due grandi poteri politici in conflitto, papato e impero.
Dopo Carlomagno, dunque, il tempo dell’uomo diventa sempre meno “attesa” della teodicea e sempre più territorio di realizzazione concreta del Regno: Già in Scoto Eriugena, ad esempio, l’ordine della natura ha un punto d’arrivo in Dio che non può più fare a meno dell’opera umana nel tempo: il significato della “natura creata che non crea”, il mondo, è quello di essere compreso e riassunto nell’uomo solo in vista di un ritorno alla “antura increata e increante”. Il tempo intermedio tra l’origine e il ritorno è occupato dall’impegno dell’uomo di ricondurre tutto a Dio: non ci si può più lasciare nulla alle spalle, nemmeno la natura bruta e semplice: Tutto il mondo deve essere inserito nel progresso del tempo.
Con il XII sec. la “riscoperta” di Platone sposta l’attenzione sulla controversia degli universali, e il problema del tempo e dell’accadere storico degli eventi perde importanza, sublimato dall’importanza di ossrvare gli enti “sub specie aeternitatis”.
Solamente per poco, in realtà: con il XII secolo è la concretezza dell’azione umana, il progresso sensibile del tenore di vita dei singoli, dell’economia, delle comunicazioni e – di conseguenza – delle strutture dello Stato a spingere nuovamente ambiti di speculazione filosofica verso il nodo problematico della “città terrena”. Fuori dai chiostri, il Comune cittadino e la vita borghese – pur senza rifiutare il grande schema del tempo di Agostino – valorizzano in modo schiettamente laico il tempo umano: viene alla luce “il tempo del mercante” e spezza il “continuum” dell’attesa che caratterizzava il tempo di Dio.
( passi tratti da Jacques Le Goff, “Tempo della Chiesa e tempo del mercante” )
Sovrasta la città il simbolo inquietante della vittoria dell’uomo laico sul tempo: l’orologio. Figlio di arti spregevoli come quelle meccaniche, l’orologio meccanico ha molto più in comune con la bruta intelligenza dei maestri fabbricatori di macchine da guerra che con la fine sapienza dei teologi. A differenza della meridiana o della clessidra – strumenti “naturali” che rappresentano bene il persistere del continuum 8 temporale immaginato dalla teologia - l’orologio meccanico impedisce allo spirito e alla mente speculativa di adagiarsi nel tempo in funzione delle proprie capacità speculative. L’ora frantumata in scatti meccanici dalla molla dell’orologio è uguale per la mente del villano e per quella del vescovo… La “città terrena”, nei rintocchi dell’orologio, trova una vera e propria “sincronia laica” quasi immagine della sincronia delle sfere celesti. Si apre nel “universo del pressappoco” il primo spiraglio verso “il mondo della precisione”.
La città, ancora più di prima, diviene luogo della Storia umana. Gli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani, abdicano per primi all’orgoglioso disprezzo del mondo cercato dai cenobiti chiudendosi nella bolla di “presente senza tempo” dei chiostri. Il “fare efficace” e produttivo del mercante comincia a incrinare le certezze morali legate alla “realizzazione nel mondo”: diventare ricchi e usare il tempo per questo (usura) è forse peccaminoso ma… ma in molti sono disposti a correre il rischio.
Nell’occidente così “moderno” Tommaso d’Aquino riflette allora in maniera profonda sul rinnovato rapporto tra uomo e tempo donato da Dio.
E’ pacifico che non è più possibile ritornare alla divisione sprezzante delle “due città” indicata da Agostino. Gli abitanti della città celeste e gli abitanti della città umana sono ormai le medesime persone e non possono più vivere la vita “schizoifrenica” di anime contemplanti travolte loro malgrado dal mondo. Tommaso infatti, non può fare a meno di constatare – e in questo la riscoperta di Aristotele è fondamentale –che l’uomo è costituzionalmente un animale “sociale” . L’uomo e ciò che l’uomo “fa” sporcandosi le mani nella Storia sono la stessa cosa. Il tempo dell’uomo E’ il vero tempo di Dio per l’uomo. E la legge umana – temporalmente data - è specchio autentico della legge divina. Così, essere nel tempo è strutturare saldamente la città terrena sul modello della città celeste, privilegiando la monarchia e cambiando le leggi, se sono ingiuste. Nessuno dovrà più salire all’Oreb per ricevere la legge scritta da Dio, nessuno potrà più interrogare personalmente il Maestro: l’unica voce in grado di dare legge di Dio agli uomini è oramai solo l’uomo che contempli con la ragione il piano di Dio.
(vedi alcuni passi dalla “summa contra gentiles” di Tommaso)
Ecco allora che nel corso del XIII sec. l’impronta di Dio sul tempo della Storia tende sempre più a scomparire, come impronta sulla sabbia, cancellata dall’onda ripetuta del “fare” umano sempre più efficace e sempre meno casuale. Ecco che nel XIII sec. diventano possibili le idee avveniristiche di sommergibili e aereoplani di Ruggero Bacone, le medesime idee folli “meccaniche” e sciocche con cui era dato di trastullarsi solo a persone profondamente incorstate di mondo come gli ingegneri militari (Leonardo sarà uno di loro…).
E tuttavia Bacone già intuisce, sotto la scorza variopinta e grossolana di queste anticipazioni “meccaniche” qualcosa di molto più profondo e decisivo: “la verità e figlia del tempo”. E stavolta non si tratta di Verità intesa in modo teologico – il Dio fine della storia è ormai inesorabilmente spostato in avanti, alla fine dei tempi – ma già della certezza scientifica moderna; della verità con la vi minuscola, declinata nelle centinaia di risposte “vero o falso” ai dubbi pratici dell’uomo.
Il tempo del XIII secolo è pronto a connotarsi fortemente come il ritmo del progresso umano. Il XIV secolo accelera un moto la cui direzione è ormai data: la scienza occamista prepara, portando al massimo affaticamento e al punto di rottura gli strumenti speculativi aristotelici, la crisi della scienza antica e la nascita della scienza moderna.
E la nozione di tempo e di storia dell’uomo sono ormai pronti ad un ultimo deciso salto: se con Tommaso le leggi della città terrena sono ancora la copia delle leggi della città eterna, con Marsilio da Padova e il “defensor pacis” la legge e lo Stato, le vere uniche creazioni dell’uomo che vive compiutamente il tempo che gli è donato, sono tutte sue: fonte del diritto e delle regole è la collettività umana e la sua volontà e “dove non sono sovrane le leggi non vi è stato vero e proprio”. La convivenza umana si deve dare regole sue proprie.
E’arrivato il momento di guardare davvero nella sua crudezza in faccia la realtà del tempo umano nella sua brutale semplicità (e siamo alla soglia della visione tagliente e chiarissima di Machiavelli oramai…) :l’uomo è completamente padrone del suo tempo terreno e agisce inevitabilmente spinto dai suoi cinici appetiti e dalle sue più basse necessità piuttosto che dalla luce del Diritto Divino. Trovare le vie efficaci palesi e nascoste di questa azione, regolare il meccanismo dell’”orologio” uomo e della suo tempo meccanicamente determinato sarà il nuovo orizzonte della scienza politica. E non solo…
2.D - Il mondo Islamico: Dio padrone assoluto della storia
E’ scontato che un discorso sulla percezione del tempo e della storia umana che nel medioevo non sia completo senza una accenno, perlomeno, alla filosofia della storia nel mondo islamizzato.
Una premessa in questo senso è fondamentale (il tema di questo paragrafo è stato svolto consultando il volume di Giuliana Turroni “Il mondo della storia secondo Ibn Kaldun” con attenzione particolare anche alla prefazione di P. Branca. A livello didattico, per l’integrazione opportuna dell’unità si ipotizza senz’altro la lettura in classe di alcuni brani della “Muqqadima” di Kaldun che – come indica la Turroni – è in corso di traduzione italiana presso l’editore Jouvence): uno degli stereotipi più veicolati dalla vecchia scuola liceale è quello di un mondo arabo e islamico fuso in una sorta di “blocco unico” culturale e politico che attraversa l’intero medioevo, laddove gli studi attuali – e in questo la Turroni è ad esempio molto attenta – badano a sottolineare agli studenti occidentali le differenze profondissime che dividono il concetto di “arabi” (abitanti di penisola arabica, Marocco e Iraq senza distinzione religiosa ma parlanti una stessa lingua) e “islamici” (convertiti all’islam anche fuori dal mondo arabo).
“Parlare di Islam in generale, chiedersi quale sia la posizione dell’islam in riferimento a un dato problema costituisce un falso punto di partenza” (G. Turroni, cit. pag. 65):
sarà importantissimo, allora, cogliere l’occasione dell’argomento dell’unità didattica per sottolineare ai ragazzi la ricchezza di particolari e diversità nel vecchio sclerotizzato concetto di Islam. La “Muqqadima” di Kaldun costituisce un esempio calzante e appropriato di questo islam “complesso” e movimentato, in forte tensione (come l’occidente coevo) tra tradizione e modernità (forse non a caso Kaldun e Machiavelli sono cronologicamente non troppo distanti).
Ciò detto entriamo nel merito del concetto di tempo e di storia che impronta la cultura araba e islamica fino al 1375, anno dell’opera di Ibn Kaldun.
Appare evidente subito che l’idea cardine del tempo che Agostino stigmatizza per l’occidente si ritrova identico nel mondo islamizzato: trattandosi di una religione strettamente legata all’ebraismo, l’Islam accoglie certamente la nozione di tempo umano creato da Dio che scorre dalla Creazione al Giudizio Universale in una direzione unica e senza soluzione di continuità. E fa sua, allo stesso modo, anche la visione di una storia nettamente “tagliata a metà” da un fatto preciso, databile: la nascita di Muhammad e della stesura del Corano. Dio – non in persona come nel caso del cristianesimo ma con la sua parola– entra nella storia e alla Storia, alle azioni umane dà senso una volta per tutte.
Con un accento ulteriore: nell’Islam l’abbraccio tra mondo della fede e mondo dell’uomo, tra “Città di Dio” e “Città dell’Uomo” è soffocante e inestricabile. Ciò che Agostino e l’occidente leggono come un continuo problema e confronto di forze, il rapporto tra potere temporale e spirituale, nell’Islam è risolto in una vera e propria sublimazione del temporale allo spirituale. La parola scritta nel Corano (con tutti i problemi che la cosa comporterà…) è “l’ultima parola” del tempo umano, l’interpretazione definitiva della Storia su cui la società umana deve essere fondata. La cronologia della Storia, nell’Islam diverrà così quasi un artificio meccanico per l’affermazione progressiva della parola di Dio in vista dell’Ultimo Giorno. Che, molto più che nel cristianesimo, diventa il centro di gravità immobile di ogni storia:
“l’Islam non deve le sue origini ad un’idea monoteistica, ma ad una visione escatologica. L’elemento motore della più antica predicazione meccana non è costituito dalla pubblicazione perentoria di un credo monoteistico (…) è invece dato dalla prospettiva immanente dellUltimo Giorno” (Cfr. capitolo “escatologia islamica” in “Islam e cristianesimo” di Gilberto Galbiati, a.c. di Attilio Agnoletto)
Il tempo e la storia dell’uomo islamico sono così concentrati in un unico punto: un punto in cui, si badi bene, non verrà giudicata “l’umanità” in senso ampio, la società umana e civile ma sempre e solo ogni singolo credente, e sempre e solo per il suo rapporto privato con la fede e mai con la Storia. Che abbia “comandato eserciti” o “vegetato” sarà irrilevante rispetto ai passi decisivi della sua vita morale.
Questo punto di arrivo rende ragione della visione rigidamente progressiva della storia nel mondo islamico medievale (vedi l’introduzione al libro di G. Turroni e i capp. 2 e 3): la storiografia non è una disciplina da fondarsi su principi di ragione ma sulla tradizione, il racconto e la memoria.
“Nel settore della storia prevaleva ancora incontrastato il principio di autorità che lasciava scarso margine alla critica delle fonti e alla libera valutazione dell’attendibilità dei fatti tramandati, consentendo al massimo l’accostamento di più varianti della stessa narrazione (…) Il lavoro storiografico veniva così ad assomigliare a quello letterario e in particolare a quello del poeta (…) artigiano della parola che accosta verso a verso come infilando perle in un monile”.
Il protagonista della storia è una volontà divina che solo i profeti possono indagare. Il tempo nell’Islam è il respiro di Dio.
Si potrebbe facilmente obiettare che anche in Europa i cronisti medievali non si siano sottratti a una storiografia assolutamente solo narrativa. Tuttavia una differenza importante con l’Islam va colta: nella sua simbiosi tra potere politico e potere religioso, il mondo Islamico caricò la narrazione dei fatti passati di significati teologici. La cronachistica e la storia “esemplare” nell’Islam furono strategici alla costruzione della civiltà; ed è possibile sostenere questa differenza importante proprio rapportandoci al presente: “troppo spesso, infatti, testi e lezioni delle scuole di ogni ordine e grado nel mondo arabo sia attardano alla mera celebrazione delle glorie del passato, presentato in forma arcaica e mitizzata” (vedi l’introduzione a G. Turroni: cit. 12)
Questa, in sintesi, la cronachistica e la storiografia islamica tradizionale. Ma se, come si è detto, è importante cogliere soprattutto le diversità del “blocco islamico” piuttosto che le continuità, ecco che ha un senso didattico forte inserire, a questo punto dell’unità didattica, un ampio discorso sulla filosofia della storia di Ibn Kaldun, vero e proprio “sovvertitore” della storiografia tradizionale islamica e del suo rigido rapporto con il tempo.
Va subito notato che è possibile, quasi doveroso, un confronto tra Kaldun e la sua “laicizzazione” della storia e il Machiavelli dei “Discorsi” e del “principe”. Rispetto all’argomento della nostra unità, infatti, è centrale in entrambi gli autori lo spostamento importante del punto di vista sulla storia umana dal suo traguardo “metafisico” (la fine dei tempi) alle forze in gioco nell’orizzonte limitato degli avvenimenti conoscibili. Entrambi infatti, non forzano l’interpretazione cronologica tradizionale, ma la svuotano profondamente di significato. Ovunque vada a finire il tempo ciò che appare assolutamente chiaro è che la mano di Dio su di esso ha un tocco davvero lieve: gli uomini sono largamente artefici del loro destino…
La Muqqadina: il tempo dell’uomo è la sua capacità di vivere in gruppo.
L’astuzia dell’approccio “nuovo” di Kaldun al problema del tempo storico è tutta nella aporia semplice in cui riesce a far cadere storiografia musulmana tradizionale.
Secondo tradizione l’unità dell’islam fu un processo possibile unicamente in forza della vera fede. L’islam, annullando le contese e le divisioni tribali, ha potentemente spinto avanti la storia umana verso il suo scopo ultimo. Così era stato lo stesso Maometto ad affermare che ogni motilità verso il potere, ogni conato umano ad aggregarsi in tribù contro altri gruppi, fosse la mala pianta da estirpare: ogni atto storico umano che non fosse sottomissione pura era semplicemente malvagio.
A Ibn Kaldun, che ha capito perfettamente che proprio l’egoismo umano, lo spirito tribale o più propriamente lo “spirito di corpo” (Asabyya), è il vero “motore immobile” della storia, la vera forza fecondante del tempo che Dio abbandona nelle mani umane, importa invece salvare l’apparente disordine tribale originario come forza viva non trascendente della storia; per il suo mutamento di punto di vista, dal corso “religioso” del tempo al corso “umano”, questo recupero è fondamentale. E l’interpretazione (davvero astuta) della condanna di Maometto contro lo “spirito di corpo” tribale è una vera rivoluzione copernicana: “
"Quando il Legislatore proibisce o condanna certe attività umane, o esorta ad abbandonarle, egli non vuole che vengano completamente omesse o sradicate, o che le forze che da esse derivano non vengano affatto usate. Egli vuole che queste forze siano usate il più possibile per giusti fini (…) se la forza dell’irascibilità non esistesse più nell’uomo, egli perderebbe la capacità di far trionfare la verità: Non ci sarebbe guerra santa né glorificazione della parola di Dio (…) La propaganda religiosa non può compiersi senza lo spirito di corpo. I profeti, per propagandare la religione ebbero il sostegno del loro gruppo e della loro famiglia sebbene essi fossero gli unici che avrebbero potuto essere sostenuti da Dio e da nient’altro, se Dio l’avesse voluto. Ma Dio, nella sua volontà, ha permesso che le cose seguissero il loro corso naturale ” ( Ibn Kaldun, “Muqqadima” ).
Il disegno di Dio si attuerà inevitabilmente, è ovvio, ma in un contesto stavolta “naturale”, di libere forze in gioco che agiscono ciecamente spinte solo da una logica propria interna, cieca, quasi meccanica. Così le città, secondo ibn Kaldun, sono argilla plasmata dal clima, dall’avidità dei commerci, dalla forza irruenta e belluina dello “spirito di corpo” tribale. Nascono e crescono come organismi umani e come essi si ammalano e muoiono, seguendo decorsi che la ragione umana (questo è il suo campo d’azione efficace… solo questo! Sembra di ascoltare Hobbes…) può comprendere perfettamente. Dio non è allontanato dal tempo dell’uomo ma lo domina sempre più “per interposta natura umana”: il miracolo e l’evento misterioso scompaiono sempre più dal tessuto dei fatti, in uno svuotamento sotterraneo apparentemente impercettibile ma in realtà fatale. O meglio, fatale per l’occidente: da Machiavelli in poi, con la rivoluzione scientifica prima e il meccanicismo cartesiano poi, lo vedremo, il dio protagonista della storia sarà via via confinato al ruolo sempre più silenzioso di “orologiaio”, quasi una sorta di ritorno al motore immobile aristotelico.
Nel mondo islamico, viceversa, sopra questa voragine filosofica aperta non solo da Kaldun ma anche da Avicenna e Averroè, resisterà la superficie adamantina dello stato confessionale islamico. Il tempo resta saldamente nelle mani del suo Creatore.