DA
20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
PARTE
PRIMA - I PRIMORDI DEL CAPITALISMO |
Quando gli economisti parlano dei servizi del capitale accanto ai servizi fondiari ed ai servizi personali (lavoro) non vogliono evidentemente rilevare che non c'é produzione senza strumenti; la quale cosa si capisce da sé, sebbene il rilievo piuttosto ingenuo che molti economisti fanno di questo principio tenterebbe a credere che ci fosse bisogno di suggerirlo; ma verosimilmente riferirsi a una condizione economica in cui il capitale di per sé stesso, e separato dai servizi fondiari e dal lavoro materiale, frutta un reddito. Si presuppongono, dunque, due fatti : in primo luogo che il capitale abbia già acquistato un carattere autonomo rispetto agli altri due elementi della produzione, e in secondo che la sua accumulazione sia tanto larga che non ogni produttore possa intraprenderla. Il capitale del quale qui si parla é il capitale mobiliare. Di dove viene esso ?
Il capitale mobile non può rivestire che due aspetti : capitale strumenti e materie prime, e capitale sussistenze. La società che noi abbiamo schizzato nel capitolo precedente si trova rispetto a questa specie di capitale in una situazione ben diversa dalla società in mezzo alla quale oggi viviamo. Se noi figuriamo quella società distinta in due zone poste l'una accanto all'altra: la zona agricola e la zona manifatturiera; ci accorgiamo che né nella prima, né nella seconda il capitale mobile può aver l'ufficio che si é definito in principio di questo capitolo. Vediamo che nella zona agricola il lavoratore possiede i mezzi di produzione indispensabili (strumenti, sementi, animali) e che nella zona manifatturiera la esistenza di un vincolo diretto fra produttore e cliente elimina la necessità di un capitale superiore al minimo. Il capitale come strumenti trova scarsa applicazione nelle circostanze tecniche corrispondenti alla società del mestiere e della famiglia contadinesca. In una società così poco colta, gli strumenti sono molto elementari e di basso costo. Ma in ogni modo, il vincolo della tradizione, in campagna, il rapporto diretto con una clientela necessariamente limitata, nella manifattura, escludono l'applicazione del capitale sotto la forma strumenti. Il capitale sussistenze, volto ad impiegare una popolazione operaia più larga, nemmeno può essere utilizzato, perché la popolazione cresce in ragione così tenue, se pur cresce, che una domanda eccezionale di lavoro non potrebbe provocare una corrispondente offerta, e quindi quel capitale resterebbe necessariamente inoperoso. Questa società non solamente non risparmia, ma se risparmiasse, non potrebbe trasformare in capitale produttivo il risparmio.
E pur vero, l'unità agricola, fondata sul possesso comune della terra oppure sul vincolo feudale della terra medesima, non potrebbe impiegare in migliorie il capitale investito, perché occorrerebbe spezzare il vincolo della comunione o degli usi feudali e quindi rovesciare la costituzione giuridica della proprietà. Il maestro artigiano della città - esclusa dallo stato della tecnica la trasformazione dei metodi produttivi - vede sorgere contro l'uso del capitale industriale due potenti ostacoli la domanda limitata del prodotto per la limitazione affatto personale della clientela, e la limitazione della popolazione operaia; di modo che, come abbiamo visto, che anche in epoca avanzata, i compagni son molto meno numerosi dei maestri. Dunque, né sulla terra, né nel mestiere sorge la convenienza di quell'associazione mista, per cui il lavoratore astenendosi dall'accumulazione di un capitale, impiega quello di un capitalista che si astiene dal lavoro materiale, e trova vantaggioso per lui pagare al capitalista un congruo prezzo per l'uso del capitale di costui.
Il lavoratore non ha bisogno di un capitalista, il capitalista non potrebbe vivere su di un lavoratore. La contemporanea esistenza di queste due condizioni rende vana e perciò inesistente l'accumulazione capitalistica. Se il capitale fosse necessariamente destinato ad usi produttivi, non si avrebbe capitale, come categoria economica separata dai servizi fondiari e dal lavoro. Servizi di capitali, servizi fondiari e servizi personali apparirebbero sempre fusi nella stessa persona. L'uomo economico di questa epoca sociale sarebbe necessariamente una sintesi di funzioni economiche. Come nella sua persona sarebbero fusi il produttore e il commerciante, sarebbero parimentI fusi il capitalista, il proprietario fondiario e il lavoratore.
Ma questa nostra conclusione é fondata sull'ipotesi che il capitale debba necessariamente investirsi nella produzione, mentre gli sono aperti innanzi gli usi consuntivi. In effetti nemmeno nell'epoca storica che abbiamo schizzata nel capitolo precedente, la società é formata esclusivamente di agricoltori e di artigiani, scomponibili in varie altre categorie giuridiche e sociali. Accanto e sopra a loro c'é lo Stato e poi tutte le altre associazioni e corporazioni, in cui rientrano nel Medio Evo le varie categorie di persone che compongono quella società, e tanto le persone indicate, quanto altre che sin qui non abbiamo menzionato.
Degli usi e consumi di queste persone sinora non si parlò, ma era sottinteso che esistessero ; ma poi le stesse classi che in campagna o in città abbiamo già imparato a conoscere, e specie le maggiori, potevano avere e nel fatto avevano bisogni maggiori delle loro risorse. Di un uso del capitale per vie non produttive vi é larga possibilità in questo periodo sociale, il che poi non ha forse nemmeno bisogno di essere indicato, tanto sembra ovvio. Ma possibilità di un uso non vuol dire necessaria esistenza del mezzo destinato all'uso medesimo. In condizioni normali, la società che abbiamo imparato a conoscere non può risparmiare e quindi nemmeno accumulare.
Noi dobbiamo guardar fuori le categorie che si sono fin qui considerate se vogliamo veder nascere il capitale, o per dir meglio, se deve esistere possibilità di formazione del capitale. Gli elementi formativi del capitale non devono trovarsi né nell'unità agricola contadinesca, ne in mezzo alle classi artigianali. Si aggiunga che tutto quanto é commercio medioevale, almeno fino al periodo mezzano (XI-XII secolo), riveste il medesimo carattere artigianale del mestiere vero e proprio, e perciò dove si é parlato della impotenza del mestiere a generare il capitalismo, il discorso ha incluso anche il commerciante.
Dei commercianti di questo periodo sociale scrive il Sombart : « Come si presume dalla grandezza del loro negozio, essi vivevano in maniera puramente artigianale. Il loro pensare e il loro sentire, la loro esistenza sociale, la natura della loro attività, tutto li fa apparir congiunti ai piccoli e medi artigiani del loro tempo. Non vi é nulla infatti di più pazzesco, quanto popolare il Medio Evo di commercianti istruiti di economia e pensanti capitalisticamente. La specifica natura artigianale del commerciante di vecchio stile appare sopratutto dagli scopi che esso si pone. Niente gli é più remoto, quanto il guadagnare nel senso di un imprenditore moderno; anche egli non vuol altro, né meno, né più, che guadagnarsi il sostentamento proprio col lavoro delle sue mani. Tutta la sua esistenza é dominata dall'idea del sostentarsi» ( W. SOMBART, Moderne Kapitalismus, I, 174.).
Del resto, lo Stieda ci ha conservato le notizie che si riferiscono al commercio delle grandi città anseatiche nel XIV secolo ; e noi vediamo che esso era ben meschino, sebbene si tratti delle maggiori città commercianti del tempo ( W. STIEDA, Revaler Zollbucher, Hans. Geschichtsquellen, vol. V, pag. LVI e LVII).
Noi vediamo perciò che il giudizio che abbiamo fatto dell'agricoltura e del mestiere medioevali comprende anche il commercio ; almeno ci é giocoforza ammettere che il commercio artigianale non é stato uno dei propulsori più importanti del capitalismo. La vita medievale é dominata dalla nozione della sufficienza di ogni economia a sé stessa, ciò che agisce a controsenso della nozione capitalistica, fondata sulla strumentalità dell'economia e sulla divisione del lavoro portata all'ultimo punto del suo sviluppo. Il principio della sufficienza a se stesso é comune a tutte le forme economiche medievali, alle grandi, come alle piccole.
Noi conosciamo i particolari dell'economia domestica del Capitolo di S. Paolo in Inghilterra, per tutta l'ultima parte del XII secolo (W. ASHLEY, Hist. et doct. écon. de l'Angl., I, pag. 78). Il Capitolo possedeva 13 castelli, ciascuno era amministrato da un firmarius. Costui doveva al Capitolo una certa quantità di contribuzioni in natura ed in denaro. II dippiù era suo. I firmatari facevano ottimi guadagni, per la qual ragione i canonici si disputavano l'ufficio. Il capitolo possedeva, per i suoi bisogni, un mulino, una fabbrica di birra e una panetteria. Questo sistema primitivo durò fino alla metà del XIV secolo. I canonici ricevevano in natura il loro nutrimento. Poi le cose cambiano e vediamo che son pagati in denaro; ma precedentemente, nello statuto di Rolph di Diceto, é calcolato il pane che deve ricevere ciascun titolare, variando la quantità con l'importanza dell'ufficio, supponendosi quasi che la fame cresca con la dignità ! Si capisce che una società cosiffatta debba far sorgere una viva curiosità per sapere come il capitalismo si é formato.
Ecco come io concepisco questo problema. Noi abbiamo bisogno di comprendere come funzioni oggi il capitale. Questa indagine ci rimanda alla natura dello stesso capitale. Quando avremo visto come nasce il capitale, avremo compreso anche come funziona. Così potremo comprendere anche fino a che punto sono giustificate le analisi logiche del capitale che l' Economia ci offre. E' infatti assai verosimile che la formazione presente del capitale abbia grandi analogie con la formazione iniziale ; ma la natura fisica della formazione presente potrebbe riuscire intuitiva solo per il confronto con la formazione primitiva. Noi vedremo appresso che la storia dell'industrialismo presente resta campata in aria quando non si é stabilito di dove il capitale é venuto e come ha dissolto la vecchia economia. Diremo di più : la dissoluzione dell'economia tradizionale ha del miracolo, quando non si é assistito alla genesi formale del capitale.
Il difetto degli storici dell'economia consiste nel descriverci la dissoluzione della vecchia economia, senza mostrare che questa dissoluzione diventava inevitabile dal momento che il capitale era nato. Ecco
perché si può assumere che il loro vasto materiale é ben lungi dall'aver fruttato, ed anche adesso gli storici di mestiere siano in credito verso gli economisti, che continuano ad ammucchiare definizioni, impassibili.
Se non che quando parliamo della genesi del capitale, noi corriamo rischio di porci a una impresa assurda. Facciamo la stessa figura di coloro che hanno trattato le origini del baratto. Se si dicesse che le origini del baratto o del capitale, considerato come complesso di strumenti, coincidono con le origini dell'uomo, si direbbe una cosa evidente. Baratto, capitale, economia, termini sinonimi; economia, attività concreta umana, idem. Inutile sdottoreggiare. Si può dar prova di una erudizione meravigliosa, ma siamo sempre su una strada che di tanto si prolunga indietro, di quanto appunto si prolunga avanti. Avanzare indietro nella ricerca, non significa raggiungere le loro origini. Se noi volessimo veder nascere il primo elemento capitalistico perderemmo il tempo, a modo di coloro che hanno cercato le origini del baratto, deducendolo da alcune singolarità locali (dono ospitale, baratto silenzioso, ecc.) che non ne escludono infinite altre. Ma la nostra impresa é più modesta. Si tratta di vedere come accada e da quando accada che certi aspetti dell'economia divengano più pronunziati. Nella lotta per l'esistenza delle forme sociali - per dirla con metafora positivistica - avviene che ora una forma prevale su certe altre e ora certe altre sulla prima, senza che né le une, né le altre spariscano interamente. Si tratta di vedere da che parte pende la fortuna storica ; niente più. Il nuovo assoluto non esiste né nell'economia né nella vita ; ma ora emerge una forma ed ora un'altra. La genesi del capitalismo torna a sapere da quando la forma capitalistica è uscita dalle tenebre della propria esistenza crepuscolare per varcare la soglia della storia documentabile.
È completamente inutile tentare di raggiungere le origini. Gli inizi storici restano quasi sempre - salvo irrilevanti eccezioni - avvolti nelle tenebre. Chiunque pretende documentare la storia di queste origini deve cadere nel romanzo. Noi possiamo fare congetture più o meno ragionevoli su queste origini. Il solo metodo che può assisterci è il seguente: bisogna che la congettura sulle origini abbia una stretta connessione col fatto posteriore; ma si comincia sempre da quest'ultimo. Cercare di cavare il certo, cioè il fatto posteriore, dall'incerto, cioè il fatto originario; é agire in maniera assurda. Il solo metodo ragionevole é quello inverso: (Parlando delle origini del cristianesimo, Sorel dice: « Il faut renoncer à jamais connaìtre tout l'ensemble des origines ; mais il est plus facile qu'on ne pourrait croire tout d'abord, de découvrir les chemins par lesquels des moeurs, des institutions, des idées parvinrent à l'état que nous révèle la fin du troisième siècle». G. SOREL, Système de Renan, Paris, pag. 211) assodato un momento molto chiaro e decisivo della storia del processo che si studia, si cerca di comprendere in che maniera si è giunti ad esso. Ma, sia detto in generale, proprio qui si riconosce il fiuto del buono storico. Quale momento scegliere ? La società dell'evo nostro può servirci a spiegare le origini del capitalismo? Non si deve invece ritenere che oggi la nostra società rappresenti un accumulo di circostanze e di condizioni, che col fatto originario hanno poco di vedere?
Facciamo che oggi uno storico si proponesse di gettare una certa luce sulle origini del Cristianesimo, pigliando come punto di partenza nelle sue indagini l'attuale organizzazione della Chiesa Cattolica. Se egli fosse sincero, dovrebbe concludere che il Cristianesimo fu una rivolta di elementi intellettuali schiacciati da una società barbarica, perché l'organizzazione ecclesiastica presente non é in fondo che una gerarchia di cultura, che ricorda in certo modo il mandarinato cinese. Ora si può immaginare nulla di più lontano dal vero? Invece lo storico, fermandosi alle condizioni del terzo secolo, e risalendo per il secondo secolo tutto irto di eresie, cioè di dottrine che non hanno avuto fortuna, cerca di farsi un'idea approssimativa di quelle condizioni del primo secolo, le quali sono e restano e verosimilmente resteranno sempre un insolubile mistero. Ma egli riconosce volontieri che si trova sul campo delle congetture, e che l'unico fondamento delle congetture che egli forma è una certa corrispondenza con gli avvenimenti dimostrabili storicamente nel periodo successivo.
Nel XIII secolo, il capitale mobile ci appare con caratteri di netta autonomia di fronte al possesso fondiario e al mestiere. Questo periodo deve necessariamente attrarre l'attenzione dello storico, non solo perché il capitale mobile gli appare ben distinto da possesso fondiario e dai servizi personali, ma anche perché non si è ancora impadronito di essi, oppure fuso con essi. Successivamente noi assisteremo a questa invasione del capitale mobile nei rapporti fondiari e personali, alla graduale sommissione del lavoro e della terra all'egemonia del capitale mobile e del capitalista mobiliare. Ma nel XIII secolo questo fatto non si è verificato ancora. Il capitale mobile ci appare separato dal possesso fondiario e dal mestiere artigianale, nella tipica forma di capitale bancario. Ciò é visibile per la Firenze del XIII secolo, la patria del capitalismo moderno.
Lasciando da parte il fatto dell'antichità delle arti della lana e della seta e senza occuparci del numero primitivo delle arti, serva per noi il fatto del 1236, cioè che allora il Consiglio dei 36 Buonuomini dette ordinamento alle corporazioni, e che tale ordinamento fu deciso nella residenza dei Consoli di Calimala. Le arti furono divise in 7 maggiori e 14 minori ; fra le maggiori, dopo i giudici e i notai, primi per onorificenza, venivano i mercanti o arte di Calimala e subito dopo il Cambio consistente nell'arte di impiegare il denaro e nel suo traffico. L'arte era in certo modo antica e doveva esistere anche prima del XIII secolo, poiché i suoi consoli presero parte al trattato del 1204 fra i fiorentini e i senesi (S. L. PERUZZI, Storia del commercio e dei banchieri di Firenze, 1868, pag. 136.). Era soggetta a regole, come le altre arti. Chi voleva entrarvi doveva dare un esame; dopo tale formalità, se veniva ascritto alla medesima, poteva come cambista aver bottega e tavola, cioè esercitare o fuori o dentro la sua bottega, assiso dietro una tavola coperta di tappeto verde, con sopra una borsa con la moneta necessaria, e un libro. Il capitale mobile esiste dunque, in questo primo momento della sua esistenza distinta, come capitale bancario.
Ma presso chi e come i cambisti o banchieri esercitano questo loro ufficio ? E' verosimile che questa indagine, né lunga, né difficile, ci farà comprendere l'indole e la genesi del capitale meglio che qualsiasi più tormentosa ricerca documentaria.
La prima cosa che colpisce studiando il capitale bancario medioevale é le strette relazioni che passano fra esso e l'amministrazione pubblica. Narra il Villani (Istorie, libr. VIII, cap. 62, 63) che quando Filippo il Bello, offeso ripetutamente nel suo amor proprio da Bonifacio VIII, ed essendo stato alla fine anche scomunicato, risolse vendicarsi, spedì suoi messi in Italia il Nogaret e il banchiere fiorentino Musciatto Franzesi signore di Staggia, dando l'ordine alla Banca dei Peruzzi in Firenze di somministrar loro il denaro occorrente ma senza metterla a parte dell'impresa. La Banca fu rimborsata tardi e con grande difficoltà; né fu tutta colpa del Re, perché i Peruzzi lavoravano in partita doppia, e mentre fornivano a Filippo il Bello il denaro per rovesciare il Papa, armavano, tutte a loro spese, una compagnia di 600 balestrieri per difendere il Papa (PERUZZI, Id., pag. 191); non dissimili ai pii commercianti di idoli buddisti nelle Indie inglesi, che impiegano una parte dei loro guadagni per sussidiare la propaganda del Vangelo. Ma qui non siamo che innanzi a uno dei centomila casi di cui son ricche le cronache di questi tempi.
Volgiamo al caso opposto. L'interessamento che i poteri pubblici pigliano al commercio bancario non si può spiegare con la semplice sollecitudine che essi avevano alla prosperità economica del paese, tanto più che, nelle condizioni economiche descritte nel capitolo precedente, l'uso che i privati potevano fare del capitale bancario doveva essere estremamente scarso. In Inghilterra i commercianti stranieri erano sotto la protezione personale del re. È interessante notare che i tedeschi, i quali prima ottennero i privilegi in Inghilterra (LELEWEL, Géographie du Moyen Age, III, pag. 216), trafficavano in cose puramente di lusso (spezie, pelli e altri generi di provenienza slava) e ritraevano dall'Inghilterra prodotti minerari. Ciò che vendevano e ciò che compravano rivela una connessione diretta non col piccolo consumatore diretto, ma con le classi superiori della società. Gli ebrei erano considerati come « mobilia reale » ed erano sotto la protezione del re. Fornivano larghe somme al tesoro reale ed erano, dice il Cunningham (CUNNINGIIAM, Op. cit., pag. 200), «strumento di infinite esazioni regie sui sudditi del re » dividendone la impopolarità. Noi vediamo qui apparire un nuovo caso di connessione fra il capitale mobiliare e il potere pubblico.
Lo stesso storico, parlando degli ebrei, dice: «Essi servivano come una spugna, che succhiava le risorse dei sudditi, e dalla quale era estremamente facile riversare il contenuto nelle cassaforti del re».
Più evidente è il caso degli italiani alla Corte inglese. Fino dal 1228 si trovano nella collezione dei decreti reali di rimborso (Liberate Rolls) i nomi di banchieri o prestatori di denari fiorentini, senesi, lucchesi. Vi sono poi dal 1228 al 1272 iscritte quarantotto partite o decreti dello stesso re Enrico per restituire cospicue somme a non meno di ventitre case bancarie di Siena, Lucca e Pistoia. E' da aggiungersi che un avvenimento accaduto poco dopo aumentò di molto l'importanza dei banchieri italiani in Inghilterra, e cioé il bisogno che il pontefice Innocenzo IV ed Enrico III ebbero di ricorrere ai loro sussidi, allorché i baroni inglesi ricusarono il denaro necessario per formare un'armata che desse al principe Edmondo, figlio del suddetto sovrano inglese, la corona di Sicilia e di Puglia, togliendola alla dinastia Sveva.
La Corte di Roma aveva in tale circostanza messe a disposizione di re Enrico tutte le tasse ecclesiastiche dell'Inghilterra; ma l'esercito non fu riunito e l'impresa contro gli Svevi non fu compiuta che più tardi dagli Angioini. Eduardo I, successo ad Enrico III, continuò a giovarsi dell'opera dei banchieri italiani.
Per la spedizione di Tripoli e in Palestina il servizio di tesoreria fu fatto dai banchieri De Luca e Aldobrandi. I decreti di rimborso fanno menzione di non meno di trentaquattro banchieri della sola città di Firenze, lasciando fuori conto i banchieri senesi e lucchesi, familiari alla corte d'Inghilterra. Appare infine che per liquidare i debiti contratti con la compagnia Frescobaldi (Firenze) furono assegnate le entrate delle dogane di Hull, Boston, Londra, Newcastle, Sandwich, Wynchelsea Ipswich, Yarmouth, Southampton, Exeter e altre somme del tesoro irlandese, dalle miniere di stagno (PERUZZl, op. cit., pag. 167 e segg.).
Ma da nessuna circostanza appare più evidente questa connessione fra il commercio bancario e i poteri pubblici, come dalla espulsione degli ebrei e dei commercianti italiani dalla corte inglese, quella espulsione che seguì al terribile fallimento della casa Bardi. Sin dai principii del XIV secolo si notano in Inghilterra famiglie d'inglesi o di stranieri, specialmente italiani, naturalizzati inglesi, pervenute a un notevole grado di ricchezza. Queste persone cominciavano a diventare evidentemente capaci degli uffici finanziari, a cui prima intendevano gli ebrei e gli italiani ( Cfr. A. LOAW, The nouveaux riches of the XIV century, in a Royal Hist. Society's Transactions n, 1895). Durante il regno d'Eduardo I si notò molto lavoro alla zecca di metalli grezzi per uso monetario, segno che il paese si era arricchito e che gl'indigeni intendevano investire proficuamente i propri capitali. A questo arricchimento dell'elemento inglese dovette concorrere lo spogliamento dei templari e le rimesse dei debiti contratti con gli ebrei, che lo Stato taglieggiava, ma non proteggeva mai sufficientemente contro l'invidia cristiana. Ma questa nuova ricchezza a sua volta non cresceva che in connessione a uffici pubblici. Conosciamo il caso di William de la Pole, il quale, nel 1339, prese in appalto la tassa sulla lana, diventando ben presto ricchissimo.
I nuovi arricchiti potevano assumere ogni sorta di uffici regi come l'appaltare imposte, dazi, ecc., il pesare la lana, raccogliere e vendere la lana onde fornire i sussidi al re, ecc., e potevano anche fare anticipi diretti al re: cioè tutti gli uffici, che prima prestavano gl'italiani, e talvolta anche gli ebrei. Gl'inglesi che avevano ammassato denaro (Essi si erano associati agli italiani nel loro lucroso commercio. Troviamo un John Van socio di un lombardo in un appalto regio. Sappiamo che il fallimento dei Bardi rovinò anche molti inglesi, che avevano a loro affidato il denaro. Vedi CUNNINGHAM, op. cit., pag. 290) cominciarono a competere con i fiorentini e i lombardi, e siccome dovevano esser inferiori per ricchezza e abilità non mancarono di ricorrere ai poteri pubblici.
Il Parlamento sosteneva vivamente i connazionali contro gl'italiani. Eduardo III, che era largamente debitore dei Bardi, soddisfece insieme gl'interessi della sua cassa e il desiderio dei sudditi, rifiutando di adempiere agli impegni contratti con i Bardi, nel 1345; da cui la rovina di questa casa e di tutti i suoi piccoli depositari, descritta così vivamente dal Villani, che fu in parte vittima della insolenza del re.
Espulsi gli ebrei, costretti gli italiani ad allontanarsi, gli uffici più rimunerativi delle finanze inglesi passarono nelle mani degli inglesi medesimi. Qui noi sorprendiamo un momento essenziale della formazione capitalistica.
Gli storici non hanno considerato una singolarità della storia bancaria di Firenze, e cioè il gran numero di compagnie bancarie che esistevano in quella città. Da un documento del 1369, in occasione della pace fra i fiorentini e i pisani, sappiamo che le compagnie bancarie della città erano 108, cifra veramente notevole per una città come Firenze ( PERUZZI, loc. cit., pag. 219 e segg. È dato l'elenco completo), e in sé inesplicabile se queste compagnie non avessero trafficato soprattutto fuori Firenze e in connessione a uffici pubblici, l'economia privata del tempo non rendendo necessario un uso così largo del capitale bancario. Ma le notizie che gli storici ci offrono di queste case bancarie mostrano i loro capi in strette relazioni con i poteri pubblici. La casa Acciaioli fornisce denaro al re di Napoli e all'ordine di Rodi ; la sua fortuna scossa dagli avvenimenti del 1345 risorge improvvisamente per il favore che uno della casa incontra alla corte di Napoli, per conto della quale apre uffici finanziari e politici in Grecia. La famiglia Alberti tra il 1289 e il 1528 dette alla repubblica fiorentina nove gonfalonieri e quarantanove priori. Della casa Bardi e dei suoi rapporti con la corte inglese già si è parlato; si aggiunge che fornì guerrieri alla repubblica. Un banchiere Bonaparte si trova nominato nel 1260 sedendo nel Consiglio della repubblica fiorentina, e nel 1280 mallevadore della pace stabilita tra i guelfi e i ghibellini per mediazione del cardinal Latino. Berto Frescobaldi, della casa bancaria omonima, portava alla battaglia di Campaldino le insegne di re Carlo d'Anjou. La stessa compagnia appaltava le dogane del re d'Inghilterra. La famiglia Peruzzi ebbe al tempo della Repubblica 10 gonfalonieri e 54 priori. In una delle sue case alloggiarono Roberto di Napoli protettore dei guelfi, quindi la principessa di Taranto, detta l'imperatrice di Costantinopoli, cognata del re Roberto e più tardi l'imperatore dei greci Paleologo, che nel 1483 si recò a Firenze per il Concilio convocato da papa Eugenio IV per riunire le due chiese latina e greca. La famiglia Sassetti fu illustre per negozi politici.
In altri termini, mai vediamo disgiunta la ricchezza mobile dai poteri pubblici. I possessori del capitale mobile, del capitale investito nel traffico e non nella produzione, si appoggiano allo Stato, ricavano i loro principali guadagni dall'esercizio di qualche ramo della finanza e in un certo senso s'immedesimano con lo Stato. Questi rapporti si mantengono anche in un'epoca successiva. Carlo II d'Inghilterra dovette pagare interessi enormi agli « orefici », dal 20 al 30 % per somme prestategli. Operazioni lucrose condussero gli orefici a fare al re dei prestiti sempre più considerevoli, ad anticipargli tutto il prodotto delle imposte, ad accettare in pegno tutti i crediti votati dal Parlamento, di maniera che tutti i redditi dello Stato passavano per le loro mani (JOHN FRANCIS, History o f Bank o f England, Londra 1848, voi. I, pag. 31 ). L'autore dal quale pigliamo questi particolari spiega l'idea di fondare una banca col desiderio di sottrarre lo Stato agli usurai. D'altra parte il partito tory combatteva l'istituzione d'una Banca come intinta di repubblicanesimo. Con una banca, i capitalisti sarebbero stati padroni dello Stato ( Le origini del capitale bancario riducono all'assurdo le pretese di quegli economisti, che vorrebbero le Banche immuni da ogni contatto con la politica. Ma se la politica le ha generate !!).
Ora non é possibile pensare che mentre lo Stato diviene un mezzo così potente di accumulazione capitalistica, l'accumulazione capitalistica possa derivare da una fonte più ricca della stessa amministrazione del denaro pubblico. Questa, con qualche mutamento, la tesi che sosteneva il vecchio Pagnini (PAGNINI, Della decima e di varie altre gravezze imposte dal Comune di Firenze, 1765, vol. II, pag. 127).
Ma cercare proprio il momento in cui l'amministrazione pubblica diventa fonte di accumulazione privata, non si può.
Noi possiamo spingere un tantino indietro le circostanze ora descritte, e muovere proprio dai primi anni del XIII secolo o dagli ultimi del XII. Più in là sono tenebre, e documenti e congetture hanno appunto la stessa importanza. Il vecchio Pagnini ci rimanda all'amministrazione delle finanze papali. Noi possiamo individuare meglio e servendoci dei larghi studi del Gottlob, scorgere in che maniera l'amministrazione dei beni della Chiesa poteva diventar fonte di ricchezza privata. Scegliamo le imposte papali per le crociate, sia per l'importanza del loro ammontare, sia per la loro indole internazionale, sia per la larghezza della documentazione storica che esse consentono. Le vicende attraverso cui é passata l'amministrazione delle decime papali per le crociate ci mostra in atto questa connessione fra l'attività del capitale mobile già monetato e l'ente pubblico. Fornisce poi la possibilità di una forte congettura intorno a questa connessione, e per una tal via getta un po' di luce sulla formazione del capitale mobile, sulla sua indole e sull'indole delle circostanze, che più tardi lo costringeranno a dominare la produzione e ad impadronirsene dall'esterno.
Quanto all'importanza delle decime per le imposte, nessun dubbio é possibile. Il solo territorio francese delle decime papali fruttava annualmente, nell'ultimo quarto del XIII secolo, 264.000 libbre di oro. L'importo delle decime per l'Inghilterra era calcolato a 200. 000. Aggiungendo i redditi delle rimanenti terre della cristianità, e cioè Germania, Italia, Ungheria, Polonia, Svezia, Norvegia, Danimarca, l'importo delle decime di tutta la cristianità non poteva esser minore di 800,000 libbre l'anno, pari, secondo i calcoli del De Wailly a 14.375.000 franchi, e del Cibrario a 20.000.000; somma, che, con un poco di rigore da parte degli esattori, poteva esser portata a un buon quinto di più, e quindi rasentare i 18 milioni secondo i calcoli del De Wailly, e i 25 milioni secondo quelli del Cibrario. Chi si ponga dal punto di vista delle condizioni del Medio Evo, non può non giudicare rilevantissima questa somma. Si pensi che Filippo il Bello non disponeva che di una somma uguale al quarto di essa, ed era certamente uno dei monarchi più ricchi e potenti del suo tempo.
Certo il papa non disponeva di tutta questa somma, doveva oltre che pensare ai vari enti locali, doveva necessarianente esser pronto con le decime per i contraccolpi che subirono le prime crociate; il Gottlob non può fare a meno di osservare: « Con tutte queste restrizioni, noi crediamo che il diritto delle decime ecclesiastiche dava un potere alla Santa Sede, il quale, anche a prescindere dalle sue prerogrative spirituali, dal dominio che il potere delle chiavi di San Pietro conferiva, era sufficiente per esercitare un influsso decisivo sull'inizio delle cose pubbliche in Europa» (ADOLFO GOTTLOB, Die papstlichen Kreuzzugs-Steuern des 13. Jahrhunderts, Heiligenstadt, 1892, pag. 136). Figuriamoci adesso la posizione che avevano coloro che erano incaricati della esazione delle decime !
L'amministrazione delle decime per le crociate è passata attraverso quattro stadi. Il primo e lo stadio particolaristico. I vescovi sono i collettori principali. Queste sono le disposizioni di Innocenzo III, che hanno vigore fino al 1219. I sottocollettori sono decani e gli arcidiaconi. Il papa ha un semplice diritto di controllo. Il secondo stadio, posteriore al 1218, ci mostra nei vescovi i subordinati dei legati e dei nunzi, che il papa spediva direttamente. Nel terzo stadio, sotto il governo d'Innocenzo IV, i vescovi non hanno quasi più ingerenza nella amministrazione delle decime per le crociate. I legati e i nunzi divengono collettori generali. Gli arcidiaconi locali restano sottocollettori. Ma siccome, evidentemente il loro controllo non doveva esser troppo gradito, nel quarto periodo sono rimossi, e i collettori generali nominano direttamente i sottocollettori. Tutti rispondono soltanto di fronte alla Curia romana. Questo quarto periodo è completo intorno al 1263. L'accentramento delle decime è completo. La camera apostolica amministra i beni (ID., Id., pag. 184-186). Questa era organizzata sin dal tempo di Gregorio IX (1227) nel modo seguente. Alla sua testa stava un camerista, dal quale dipendevano uno o più notai. Completavano la camera i cosiddetti cambisti (banchieri). Noi cominciamo a scorgere come il cambio possa essere stato alle origini un ufficio amministrativo, che per l'arricchimento del ceto è diventato mano mano indipendente, pure prestando le sue funzioni soprattutto all'amministrazione pubblica.
Di rado il prodotto dell'imposta andava direttamente a Roma. Generalmente era depositato nei chiostri, chiese, ordini sacri, a disposizione del papa. Ma spesso troviamo il denaro affidato a cambisti o mercanti, che si recano a Roma e hanno ricevuto questo delicato incarico. In altri casi, questi mercanti sono dei creditori che devono essere rimborsati, avendo essi già accordato crediti alla camera apostolica contro promessa di rimborso sulle future decime ecclesiastiche.
Nella seconda metà del XIII e sul principio del XIV, la Camera Apostolica si serve quasi esclusivamente di questo sistema. I cambisti italiani, talvolta anche i caorsini, vengono incaricati di trasmettere il denaro e di fare le operazioni di cambio delle innumerevoli monete locali. Altre volte, come si è già detto, essi sono creditori che (incassando e trattenendo) si rimborsano da se stessi, sul prodotto delle decime. Sono centinaia e centinaia di nomi di banchieri italiani, di Firenze, Siena, Lucca, Piacenza e pochi di Roma che ricorrono nelle lettere e bolle dei papi relative all'esazione delle decime (Vedi elenco completo in GOTTLOB, loc. Cit., pag. 244-246). Talvolta i documenti li indicano soltanto come senesi o piacentini, tanto comune doveva esser diventato incaricare i cambisti italiani delle operazioni finanziarie relative alla Chiesa. Essi sono non soltanto i creditori che fanno comodi anticipi sulle lontane rimesse, ma anche gli uomini tecnici, che possono fare le complicate operazioni di pareggio fra le innumerevoli monete medievali, circostanza quest'ultima, la quale potrebbe spiegare come il cambista non sia stato alle origini che un ufficiale con particolari conoscenze e attitudini. Nel Manuale della Mercatura di Balduccio Pegolotti ( Era un impiegato dei Bardi, ma il suo manuale (manoscritto) ce lo rivela dottissimo in questioni di economia applicata) è largamente studiato il pareggio monetario e il corso dei cambi di vari paesi, Cina compresa (il grande Cattajo degli antichi commercianti fiorentini), dove vigeva al suo tempo il corso forzoso dei biglietti. Si ricordi a questo proposito che sino al XII secolo la Santa Sede non ha avuto nessuna moneta propria. La Camera Apostolica aveva un suo Cambiator, che curava il cambio e la fusione dei metalli, dove già non si era provveduto per mezzo di banchieri o mercanti ( GREGOROVIUS, Geschichted. Stadt Rom., V, pag. 284).
E del resto, questo stesso Cambiator, da ufficiale pubblico non si è potuto trasformare in banchiere ? E' questa una congettura non tanto remota dalla possibilità.
L'utile del commerciante consisteva nelle alte provvigioni, che egli otteneva per la propria opera. Nei prestiti era cosa comune scrivere sull'obbligazione una somma maggiore di quella effettivamente prestata. Pare che l'aumento d'un terzo sulla somma prestata, per un anno, fosse cosa comune. Generalmente gli interessi non si cominciavano a pagare se non dalla data della scadenza, caso mai non si pagasse. Essi non ammontavano mai meno del 30 %. Del resto sugli alti saggi dell'interesse nel Medio Evo, i documenti abbondano. Hullmann (HULLMANN, Geschichte des Stadewesens, II, pag. 55 V) racconta che nel 1348 a Lindau, sul lago di Costanza, si è pagato il 216,70 %. A Zurigo il tasso legale fu fissato a 43,33 % dal Consiglio. Nel tempi di Carlomagno, l'interesse diventava usurario solo quando superava il 100 %. Per semplici rimesse di denaro i banchieri reclamavano da Roma provvigioni variabili dall'8 al 24 %. Nel 1268, la Casa Alfani dovette consegnare a Roma 4576 libbre e 8 piccoli soldi veneziani. A Roma non furono pagate che 4202 lire e 11 soldi ; 373 libre e 17 soldi stanno nel conto «pro eorum latoribus et expensis » ( GOTTLOB, loc. cit., pag. 249).
Noi vediamo adesso in che maniera l'esistenza d'un potente meccanismo finanziario, come la Curia romana. funzionasse da energico mezzo di accumulazione durante il Medio Evo. Ora l'essenziale per noi non è sapere come si è formato il primo accumulo monetario, ma come è cresciuta questa massa primitiva. Lo studio dei rapporti fra i primi possessori di denaro e gli enti pubblici ha svelato il segreto.
Più in là e inutile risalire. Si capisce che dietro il banchiere c'è l'usuraio. Anche in una Società come quella che abbiamo descritto nel precedente capitolo appare la necessità delle prestazioni monetarie. I bisogni di fasto nel signore, il pagamento dei tributi all'ente pubblico nei soggetti e tante e tante altre circostanze, che e assai facile immaginare, spiegano il ricorso a chi possiede il denaro. Costui è l'usuraio, personaggio antico quanto le società umane. L'usura investe la vecchia società fondata sul valor d'uso e contribuisce potentemente alla formazione del capitale primitivo (« L'usura è un fattore potente per la costituzione del capitale industriale » , MARX, Kapital, III, parte II, cap. XXXVI).
Ma questo momento ha per noi scarsa importanza. Noi vogliamo conoscere come si è formata quella società in cui le considerazioni desunte dal capitale mobile determinano la forma della vita economica. Quindi a noi non importa sapere come propriamente è nato il capitale mobile - impresa d'impossibile realizzazione - ma come esso ha potuto fortemente accrescersi e poi dominare i rapporti della vita economica. Marx ha detto che la produzione capitalistica non appare se non al momento in cui masse considerevoli di capitali e di forze operaie trovansi già accumulate nelle mani dei mercanti. La questione era dunque semplicemente di sapere sotto l'influsso di quali circostanze il capitale primitivo avesse potuto crescere. Ora quello che di autoritario, d'imperativo, quasi di politico noi troveremo nel capitale - questo potere di dominio sulle forze di lavoro - ci parrà discendere dai suoi antichi rapporti con lo Stato. La forza concentrata del potere politico ha creato il capitale e nella natura di questo si è conservato quanto d'oppressivo e d'autoritario costituisce l'essenza dello Stato.
Ma in che modo noi possiamo parlare d'un potere rispetto al capitale ? Da che cosa risulta questa qualità che noi gli riconosciamo di mutare i rapporti economici in concomitanza dei propri interessi e della propria natura ?
Al lettore sarà nota per quante vie divergenti corse la disputa intorno agli elementi storici formativi del capitale. Intorno a tre principii si è annodata la genesi del capitalismo. Chi l'ha vista, al modo degli storici professionali, nel commercio, chi negli accumuli delle rendite fondiarie monetate ( Questa tesi, alla quale sarebbe facile trovare antecessori, è appunto quella del nostro Loria. Recentemente l'ha ripresa e largamente sviluppata Werner Sombart. Ma della tesi del Sombart credo resti ben poco dopo la esauriente confutazione del BELOW (Historis. Zeitschr., vol. XCI, pag. 432-85) e del DAVIDSON (Forschungen zur Gesch. von Florenz, IV, pag. 268 e segg.; - sebbene questi scrittori cadano in errori opposti), chi l'ha vista nella espropriazione del possessore diretto e nel saccheggio coloniale.
Reputo non già che questi momenti abbiano agito tutti nella formazione del capitalismo, ma che essi siano stati la conseguenza dell'azione del capitale, già accumulato considerevolmente, sulla produzione, anzi sulla vita economica della società, che vide crescere la potenza del capitale. Quando il capitalismo investe la produzione, la obbliga a spogliarsi poco per volta di quel suo carattere d'esser rivolta alla pura soddisfazione del bisogno del produttore diretto, cioè la mercantilizza, trasforma in merci i beni, crea per essi un mercato diverso da quello dell'unità produttiva, entro cui son nati. Ma produrre merci vuol dire poter guadagnare in ragione dello smercio crescente delle merci, quindi uno stimolo, un incentivo, una ragione per rompere la società tradizionale, uscire dai metodi di cultura consacrati o dal collettivismo primitivo o dal feudalismo patriarcale, quei metodi di cultura, che rendono immutabile la quantità del prodotto, o la fanno dipendere soltanto dalle vicende delle stagioni.
Ma per far ciò bisogna spezzare la costituzione comunistica o feudale del suolo, sottometterlo alla volontà del padrone, schiacciando i diritti della popolazione agricola, nata sul fondo. L'accumulazione, grazie agli uffici pubblici o connessi a funzione pubblica, del capitale, intensifica il commercio; il contatto del commercio con l'agricoltura feudale o comunistica provoca la espropriazione o l'asservimento totale del contadino. Così risalgono le rendite fondiarie o si accumulano nella forma monetaria, per funzionare da nuovi incrementi dell'accumulazione capitalistica e da mezzi per accrescere l'efficacia degli effetti ora descritti. Ben lungi dunque dal vedere nel commercio, nel crescere della rendita fondiaria oppure nell'espropriazione del produttore diretto, e quindi in quella sua più scellerata e nefanda sottospecie che è il saccheggio coloniale (Ma il saccheggio coloniale: la rapina diventata economia, come l'hanno praticata quasi tutti i popoli d'Europa, non è possibile senza l'opera dello Stato), altrettante cause separate, distinte o alternanti e accumulate di formazione capitalistica, noi scorgiamo in esse tanti momenti successivi dell'azione del capitale nella società.
L'economista, perdendo di vista la connessione che si riscontra fra quei vari momenti, è tentato talvolta di attribuire a ciascuno di essi la maggiore efficacia nella formazione del capitale. Ma chi tenga presente la limitata capacità accumulatrice del commercio nella fase medioevale, la difficoltà del crescere delle rendite fondiarie dove la popolazione cresce stentatamente, se pur cresce, e quindi i metodi di cultura restano immutabili ; l'impossibilità d'espropriare il produttore diretto, quando la sua distruzione, per effetto della espropriazione, non compensata da altri fattori, sopprime la base della economia feudale, cioè il servo ; chi appalesi al suo spirito tutte queste circostanze, comprenderà l'impossibilità di ricondurre a tutti o ciascun di quei fattori la genesi del capitalismo. Ben altra efficacia hanno tutti quei momenti, quando, già formatasi un'accumulazione di capitali, questi cercano investimento e, trovatolo nel commercio, provocano tutta la serie dei meravigliosi avvenimenti, ai quali già abbiamo accennato.
Noi offriamo, nelle pagine seguenti, un sobrio schizzo delle influenze che il capitale già accumulato, nel suo desiderio di investirsi proficuamente, ha sviluppato.
Il denaro che le compagnie dei cambisti guadagnavano al servizio dei vari enti politici, ci appare subito da loro messo a maggior frutto nell'acquisto e nella vendita di merci. Verso la metà del regno d'Eduardo I, cioè prima del 1290, il commercio delle lane, delle pelli e cuoiami prese grande incremento in Inghilterra ad opera dei banchieri fiorentini. Ma è notevole che la vendita appaia fatta quasi esclusivamente da conventi, i quali - come meglio vedremo più avanti - avevano già introdotto un sistema di produzione molto più perfetto di quello dei castelli signorili, e potevano quindi disporre d'un maggior prodotto.
Sappiamo che le compagnie residenti in Londra compravano annualmente 2380 sacchi di lana. Vediamo anche apparire il sistema della vendita a termine. Eccone un esempio del 1294, nel Sussex. L'abate del convento di Wawerley dell'ordine cistercense vendè alla compagnia di Frescobaldi in Firenze tutte le sue lane al prezzo di 20 marchi per ogni sacco di buona lana e 10 per ognuno di quella inferiore, la consegnava in Kingston-upon-Thames per San Giovanni. Ora calcolando i suddetti 2380 sacchi di lana ai prezzi di 10 e 20 marchi, ne risulta una somma che può ammontare dalle 25 alle 30 mila lire sterline all'anno ( Su tutto ciò che si riferisce al commercio fiorentino delle lane, l'opera classica del DOREN, Studien zur florentiner Wirtschaftsgeschichte, vol. I, Stuttgart, 1905.).
Siamo, dunque, di fronte a una somma parecchio notevole. Si tenga conto che è sborsata da un numero ristretto di persone e che ristretto appare il numero dei venditori, quasi sempre conventi; e ciò in un periodo abbastanza avanzato della storia delle relazioni economiche fra l'Inghilterra e Firenze. Si capisce subito che i compratori non potevano essere mercantuzzi dal capitale limitato, ma gente già ricca. Inoltre il fatto che in questo periodo abbastanza avanzato dell'economia, quando cioè il sistema mercantile si era già diffuso, non appaiono piccoli venditori e piccoli compratori, ma sempre conventi e compagnie bancarie, fa supporre che questo commercio non rappresentava l'evoluzione da un commercio più meschino. E allora comprendiamo che le somme cospicue necessarie al commercio non dovevano venire da un commercio più modesto, ma da un'altra fonte. Così per vie indirette troviamo confermata la tesi, che la accumulazione primitiva non ci viene dal commercio, ma dall'amministrazione delle finanze pubbliche.
Se il commercio non poteva gestirsi che con capitali cospicui, non è il commercio che ha fornito capitali all'amministrazione pubblica, ma viceversa.
L'abitudine dei fiorentini di costituire compagnie per esercitare la mercatura sembra infatti che derivasse dalla necessità di mettere insieme capitali cospicui e per ridurre i rischi personali della mercatura medesima. Per averne un'idea basta appena riflettere alla durata dei viaggi nel Medio Evo.
Nel suo Manuale della mercatura Balducci Pegalotti fa un quadro delle distanze fra le piazze più frequentate. Vediamo che fra Firenze e Londraci si mettevano da 25 a 30 giorni, ed era uno dei viaggi più comuni ! Da Firenze a Milano si andava in 12 giorni, a Napoli lo stesso, a Parigi in 22, a Genova in 5. Il viaggio al Cattajo (Cina), frequente per i fiorentini d'allora (Anche adesso i russi chiamano la Cina : Kitai. Cina è nome di origine portoghese, fabbricato, come si sa, dal nome della dinastia Tsin.), tanto che il Pegalotti ne dà un minuto itinerario, durava un anno. Bisognava cominciare dal provvedersi di cavalli a vettura, oppure di accompagnarsi a qualche missione di principe o signore. Generalmente le compagnie avevano propri cavalli. Non sembra, dunque, che abbia tutti i torti il Sombart, quando, appoggiandosi su altri fatti, dichiara puramente fantastico che i ricchi che incontriamo del Medio Evo debbano la loro ricchezza al commercio. Anche ammesso che i prezzi del Medio Evo portassero notevoli aumenti sui costi, essi non dovevano consentire larghi guadagni, e ciò per tre ragioni 1. a causa dello estremo onere dei prezzi dei trasporti ; 2. per le numerose e gravi tasse che nel percorso si prelevavano su di essi; 3. per i grandi rischi connessi a questo commercio, a causa dei quali se è possibile un caso individuale di arricchimento, non può parlarsi di arricchimento della classe (SOMBAR, Moderne Kapitalismus, I, pag. 228-231.).
Il commercio medievale diventa lucroso da quando e gestito all'ingrosso e da quando i commercianti possono contare sulla speciale protezione dei governi. Ora protetti erano soprattutto i commercianti che lavoravano per conto della Curia ( GOTTLOB, op. cit., pag. 250: « Il commerciante si procurava sicurezza appellandosi alla Chiesa e chiamando in aiuto il braccio secolare ». È assurdo comprendere l'economia medievale senza dare il debito posto allo Stato.) e, naturalmente, tutti coloro che prestavano servizi di vario genere ai governi. Così nei limiti in cui il commercio è fonte di ricchezza, questa ricchezza appare dipendere dall'azione che i commercianti svolgevano in rapporto all'ente pubblico. La tesi che riconduce al commercio la genesi della prima accumulazione capitalistica appare, dunque, per più versi erronea. Ma ci diventa sempre più chiaro che il grande commercio, il quale, nella successione del tempo, diventava fonte potenziata di ricchezza, era il naturale risultato del bisogno d'investimento dal quale era preso il capitale per altra via accumulato.
Ma se anche il documento fotografico ci manchi della maniera con la quale questo sviluppo del commercio reagiva sull'economia feudale, l'indole di questa reazione appare intuitiva alla mente nostra. E per vero, se noi escludiamo il commercio delle spezie e dei generi di lusso, anch'esso condizionato dall'esistenza di ceti superiori, traenti la ragione della loro superiorità dall'esercizio d'una funzione politica e giurisdizionale, questo commercio ha per campo quasi esclusivo derrate e prodotti, elaborati o da elaborarsi, dell'agricoltura. Si vede che dove il commercio ha fatto apparire la possibilità di soddisfazioni superiori al consumo diretto, tali soddisfazioni sono parse dipendere dalla quantità di prodotti che l'agricoltura poteva offrire. È stato perciò necessario rompere l'economia tradizionale. Ma questa trovava una difesa e un riparo formidabile nelle classi soggette che nella vecchia economia vedevano la sicurezza del sostentamento e della vita quotidiana. Il guadagno della mobilizzazione della terra era tutto per il signore, che poteva vendere e trafficare i prodotti della terra e adattare le culture alle richieste del mercato. Invece il contadino vedeva nella mobilizzazione della terra la distruzione della sicurezza del proprio sostentamento.
Il signore non può raggiungere il suo scopo che sopprimendo il diritto del contadino alla terra. Questo scopo si raggiunge in doppio modo: o asservendo i contadini alla terra, di modo che essi divengano una parte della terra stessa, sprovvisti di volontà e incapaci di diritti ; o liberando i contadini dalla terra, togliendo loro ogni disponibilità della terra. Di questo colossale dramma, che riempie cinque secoli di storia e si chiude con la consacrazione della maggiore iniquità che la storia conosca: la soppressione della proprietà fondata sul lavoro dell'individuo e delle generazioni dalle quali discende, daremo qui il profilo più esterno, a maggiore intelligenza della nostra dimostrazione.
Ci è facile vedere come l'evoluzione della agricoltura feudale si compie sotto la spinta di forze identiche in tutta Europa. Il capitale nel suo sforzo diretto a trasformare i beni differenziati in beni indifferenziati, cioè in simboli astratti di valore e di ricchezza, deve necessariamente rompere la costituzione feudale del suolo, che perpetua il profilo di una economia rivolta a soddisfare il bisogno personale. L'agente di questa grande trasformazione è la città, la quale crea nel contempo il mercato e la possibilità di realizzare il maggior valore del prodotto agricolo. Noi vediamo pertanto le vicende della feudalità accompagnarsi al crescere e al mutare del centro urbano, dove risiede il capitale incipiente e da dove muove i passi per la conquista della produzione. Questo elemento ci permetterà di comprendere taluno dei più singolari fenomeni a cui dà luogo il processo della produzione feudale, nel suo tentativo o di resistere o di adattarsi alle esigenze del capitalismo.
Se adottiamo come punto di partenza nelle nostre sommarie illustrazioni, il periodo delle Crociate, almeno per la Francia, vediamo che enormemente benefiche furono per i servi le Crociate medesime. Mentre i re assoluti spingevano alle Crociate gli elementi inquieti della nobiltà, si vede il clero fare un lodevole sforzo a vantaggio dei servi ; circostanza tanto più notevole in quanto nell'alto Medio Evo il clero aveva avuto una grande responsabilità nella diffusione della servitù, fino al punto che erano stati ritenuti capaci di obbligarsi, nel donare alla Chiesa, anche bambini di sette anni (S. SUGENHEIM, Geschichte der Aufhebung der Leibeigenschaft, Pietroburgo, 1861, pag. 7 ; utilizziamo per le notizie seguenti questa opera, purtroppo ora quasi introvabile, e la cui larga e sicura erudizione non è stata mai più eguagliata.). Ma gli stessi servi provvedevano alla sorte loro, prestando denaro ai signori e ottenendone in cambio il proprio riscatto. La Chiesa utilizzava nello stesso senso le Crociate, anticipando denaro ai signori e ricevendone in cambio le terre. Se non che, contemporaneo alle Crociate, è lo sviluppo delle città, in Francia. Le città diventano rifugio di servi, sfuggiti all'oppressione feudale. Invano i re tentano contrastare allo spopolamento delle campagne, che ne consegue. Migliore avviso sgravare il peso dei servi, affezionandoli al feudo; di qui al Sugenheim sembra sia derivata la trasformazione del servo in affittaiuolo ereditario legato al suolo (SUGENHEIM, Id., pag. 113 e segg.). Il servo acquista una certa libertà; ma si badi che la libertà feudale non si deve mai intendere nel senso romano, poiché non si tratta mai della piena disponibilità della persona, ma una concessione di usi sulla cosa. Altre forze spingevano nel senso della liberazione dei servi. Col crescere del potere del sovrano e con lo sparire dei gradi medi della nobiltà per guerre, pestilenze e spogliazioni, si ha la emancipazione d'intere famiglie e villaggi. I capetingi estendono il loro dominio e si vedono formarsi borghi e città interamente liberi. Filippo il bello, bisognoso di denari, affranca borghi, villaggi e città capaci di pagare il riscatto, e questo processo di emancipazione dei servi si urta solo nella povertà delle popolazioni soggette, impotenti a raccogliere il prezzo del proprio riscatto. Ma ecco sopraggiungere l'avvenimento, che forma la chiave principale della storia economica medievale e che gli storici di professione si mostrano così incapaci a spiegare.
Nel 1358 scoppia in Francia la Jacquerie, fenomeno comune a tutti i paesi feudali. Come si spiega questo strano avvenimento, che segue a tutto un secolo speso nel migliorare la situazione dei servi? Il Sugenheim, per esempio, dopo averci descritto per una ventina di pagine il processo di miglioramento della sorte dei servi, ci butta innanzi questo fatto (SUGENJIEIM, Id., pag. 135). Ancora una volta ci domandiamo: Come la rivolta dei servi ha potuto seguire a tutta una politica volta a rendere più agevole la loro sorte ? Gli storici di professione ( Il ROUGEBIEF (Hist. de la Franche-Comtée, pag. 277) scrive : « Jamais l'oppression féodale n'avait été plus brutalement impudente » ; affermazione che gli atti smentiscono nella maniera più completa.) vorrebbero farci supporre che la Jacquerie sia stata la risposta dei servi a un rincrudimento della servitù, seguito alla peste; il che, male si accorda con tutta una politica favorevole ai servi seguìta sistematicamente nel corso di un secolo. Noi richiamiamo la nostra attenzione su un'altra serie di fatti. In concomitanza delle Crociate, della peste e poi della Jacquerie si ha il crescere delle città e quindi un interesse a estorcere maggior lavoro ai contadini per produrre una massa di derrate maggiore di prima. Il processo rivolto a liberare i servi, si deve intendere in concomitanza alla tendenza a sciogliere le comunità feudali e a porre la terra a libera disposizione dei signori. Posti in libertà i contadini, senza attribuir loro punto o parti sufficienti di terra, questa restava a totale disposizione del signore, non più obbligato a rispettare le tradizioni della cultura e della divisione del prodotto. L'apparizione in questo periodo d'un ceto che le carte definiscono di hospites e di homines de suis manibus ci fa pensare che a lavorare la terra non era assolutamente necessaria l'opera servile, ma poteva nascere una specie di vincolo di salariato. Ben lungi dunque dallo spiegare la Jacquerie come il risultato della maggiore oppressione fatta sentire ai contadini ; noi la poniamo in relazione col processo di sterrificazione, a cui i signori ricorrevano, allo scopo di restare in possesso esclusivo della terra, e sotto pretesto di donare la libertà ai contadini. La stessa causa che produceva l'emancipazione dei contadini, produceva il loro più grande sfruttamento economico. La reazione provocata dalla Jacquerie (Vedi descrizione in SUGENHEIM, op. Cit., pag. 137 e segg. ) persuade i signori a un metodo opposto a quello scelto con la sterrificazione. L'essenziale non era già sopprimere il diritto dei contadini sulla terra, ma far della terra piena balìa del signore, il che si poteva riducendo alla vera schiavitù i contadini, ed è il metodo al quale essi ricorrono dopo domata l'insurrezione.
Negli Stati Generali del 1560 e del 1614 si odono i lamenti del contadiname ridotto in piena servitù. I "grands jours » dell'Auvergne testimoniano con documenti di sangue la nefanda durezza a cui era giunta l'oppressione dei contadini. Il 1698 il maresciallo Vauban scriveva che un decimo della popolazione mendicava e cinque decimi vivevano di solo pane. Si capisce che progredendo lo sviluppo delle città, crescesse la possibilità di vendere prodotti su una scala sempre più larga e quindi la necessità di estorcere una quantità di lavoro gratuito sempre maggiore al bestiame contadinesco vivente sulle terre signorili, e quindi ad aggravare la condizione dei servi. Ma lo istesso sviluppo della città preparava la vendetta dei servi, perché accumulava in esse quelle classi rivoluzionarie, che da sé l'agricoltura non riesce mai a partorire e che con la propria libertà dovevano fatalmente provocare anche la libertà dei ceti contadineschi, queste vittime rassegnate della più spietata iniquità (Dove lo storico s'imbatte in una iniquità o in un sistema che offenda il sentimento umano, egli non lo assolve, ma ripara dietro la sua necessità. Questo è il modo dei muli, cioè della storia « oggettiva » per uso dei poliziotti e di B. Croce. Lo storico non rinunzia a infliggere il postumo marchio dell'infamia a coloro che trassero vantaggio del delitto e della frode. E poi esiste veramente la necessità dell'atto scellerato?).
Ma in nessun luogo questi rapporti appaiono più evidenti che nella Germania orientale del XVI secolo. Col diffondersi della economia monetaria, la situazione dei contadini peggiorò notevolmente. Nell'Holstein, i Junker partecipavano attivamente alle speculazioni granarie. Quando nelle Fiandre i prezzi delle derrate furono notevolmente saliti, molti Junker si dettero all'acquisto delle derrate. Essi spedivano le derrate acquistate nelle Fiandre.
La terra signorile era distribuita, conforme al sistema feudale, su grandi strisce. Per fare un'economia razionale era necessario arrotondare i territori e coltivarli organicamente, ed a questo si opponeva il fatto che le terre dei contadini erano mescolate alla terra signorile e quindi impedivano l'esercizio di una agricoltura sistematica. Era necessario porre al luogo d'una serie di possessioni nane la grande proprietà. Espropriare i contadini senz'altro non si poteva, perché il signore aveva bisogno delle loro forze di lavoro e se i contadini si vedevano sottratte le terre se ne sarebbero scappati via. Egli doveva cercare ogni mezzo per incatenare durevolmente il contadino alla zolla. A questo fine corrispondeva la servitù.
Allo sviluppo delle grandi economie signorili aiutò notevolmente la guerra dei trent'anni. Essa tolse a innumerevoli terre i loro proprietari e trasformò vaste estensioni in deserti. Dopo la guerra, i territori deserti avevano un'estensione spaventevole. In alcuni villaggi non era rimasto che il 17 % della popolazione. Nei tre comuni di Kaltennordheim, Fischberg, Illmenau, la popolazione decrebbe dal 1631 al 1649, da 12.285 persone a 2864. Dal 1634 al 1639 la popolazione del Wurtemberg discese da 414.536 persone a 37.258 (Handwòrterbuch der Staatswissensehaften (art. Bevòlkerungswesen). Dopo la guerra, la nobiltà dichiara propria tutta la terra e serva la popolazione, che possedeva ab antico, per diritto di marca, la piena proprietà della terra.
L'oppressione signorile raggiunse il limite estremo. Naturalmente era necessaria la violenza più spietata per mantenere in servitù una popolazione, la quale ricordava benissimo che pochi anni prima era libera e possedeva la terra, dalla quale era stata espropriata, in piena proprietà. Il totale sovvertimento dei rapporti agricoli produsse una grossa popolazione di vagabondi. Stanchi del giogo servile, i contadini conducevano una spietata guerriglia contro i loro espropriatori, i ladri delle loro terre. Di qui poi una legislazione sanguinaria contro i vagabondi e i servi fuggiti, questa vera popolazione in soprannumero che non voleva adattarsi ai rapporti economici esistenti. Ma la forca, la scure e la galera, ausiliari del reverendo Malthus, dovevano liberare la società di questo incomodo eccesso di popolazione (Per tutto ciò cfr.: P. KAMPFMEYER, Geschichte of modernen Gesellsehafsklassen, in Deutsehland, Berlin,1891
pag. 29 e seg.).
Più terribili ci sono descritte le cose per il Mecklemburg. Sulla fine del Medio Evo noi troviamo un contadino libero, proprietario della terra senza vincoli o limitazioni. Con la introduzione del diritto romano nel 1621 si compie la espropriazione dei contadini. Dove non esistevano documenti scritti, che provavano il buon diritto sulla terra ; e ovviamente tali documenti mancavano nella quasi totalità dei casi, trattandosi appunto di una popolazione il cui diritto di proprietà rimontava alle origini della civiltà agricola; la terra, in forza di scellerati pretesti legali, passava al signore. Nella stessa ordinanza con la quale la prescrizione era dichiarata nulla per i contadini e il diritto di proprietà era dichiarato valido soltanto in forza di documenti scritti, si faceva eccezione per le terre nobiliari, purché si potesse provare il possesso trentennale. Quello che seguì può definirsi la «ecatombe della proprietà contadinesca». Poco per volta la legge introduce artificiose limitazioni alla libertà dei contadini. L'ordinanza sui giornalieri e domestici del 1654 toglie ai contadini la libertà matrimoniale, obbligandoli a sposarsi con persone del feudo; e la libertà di muoversi dal feudo ; infine conferisce ai signori il diritto di vendere il contadino, anche senza la terra alla quale era legato. A questo momento due saggi giuristi mecklemburghesi, i nominati Mevius e Scarf, dichiarano che i contadini appartengono al bestiame domestico e possono essere liberamente alienati.
Ma dopo la guerra dei trent'anni, la pastorizia è sostituita all'agricoltura. Lo sviluppo del commercio delle lane rendeva vantaggiosa questa sostituzione. Il contadino, che è stato prima incatenato alla terra, è ora espulso dalla terra, che un giorno era sua piena proprietà. I pochi servi rimasti sono ridotti a condizioni di quasi animalità. L'uso stabilisce che il nutrimento di un servo deve costare la metà di quello d'un cavallo, e il pastore Tiburtius, con il Vangelo alla mano, trova che la condotta dei signori é pura umanità ! (ID., Id., pag. 39 e seg.). Il prete e il giurista sono i servi nati e predestinati del capitale.
Il capitale opera dall'esterno trasformando in merci i prodotti, da beni di consumo diretto che prima erano. In questa sua corsa alla mercantilizzazione della società, crea il bisogno di produrre in una ragione sempre crescente. Ora il maggior prodotto può ottenersi sia riducendo in schiavitù il lavoratore e sia liberandolo completamente dalla terra. Le circostanze del momento determinano l'impiego del primo e del secondo di questi sistemi, come già si é visto dal caso precedente. Ma il paese dove l'espropriazione del contadino rappresenta il sistema classico al quale ricorre il proprietario per ottenere rendite più alte è l'Inghilterra. Le circostanze medesime che dànno origine a un forte ceto medio son cagione che vi appaia un proletariato sprovvisto di tutto. La guerra delle due rose, cioè delle case di York e di Lancaster, decima la vecchia aristocrazia e, obbligandola a frequenti ricorsi al credito, ne intacca la proprietà. I nobili, per condurre la loro guerra, hanno bisogno di uomini e di denaro. I servi arruolati acquistano libertà ed i livellari, grazie agli anticipi in denaro, ottengono la piena proprietà della terra. Le confische largamente usate fanno cadere in balìa della Corona la quinta parte delle terre inglesi ; questa le aliena o a piccoli proprietari o ad affittaiuoli a lunga scadenza. La terra è abbondante e a buon mercato. È famosa la lettera del vescovo Latimer, nel 1480, il quale ci assicura che suo padre pagava 4 sterline per una terra sulla quale erano occupati 12 lavoratori e vivevano 30 vacche e 12 pecore. La politica dei Tudor e la Riforma precipitano questo movimento verso la formazione di un potente ceto medio.
L'ultima volta che sentiamo a parlare di servi é nell'editto della regina Elisabetta del 1574, col quale si liberano gli ultimi servi rimasti sui beni della Corona ; ma tanto trionfo di libertà era accompagnato dalla più cinica espropriazione di contadini. Già sin dal tempo di Enrico VII il pascolo sostituiva dappertutto la terra arativa e i contadini erano sostituiti dai montoni. « Pauper ubique jacet », esclamava malinconicamente la regina Elisabetta dopo un giro attraverso il suo regno. I «montoni hanno mangiato gli uomini», esclamava il cancelliere More. Così appariva ancora una volta evidente che la liberazione giuridica dei contadini aveva per condizione la perdita della loro prosperità economica (Vedi SUGENHEIM, loc. cit., pag. 295 e seg.).
La pietra sepolcrale sulla proprietà contadinesca é posta all'epoca degli Stuard con l'abolizione della costituzione feudale del suolo. Comincia il furto gigantesco delle terre demaniali, mercè la chiusura delle terre. La rivoluzione borghese con Guglielmo III d'Orange completa il saccheggio dei beni pubblici e delle Chiese e la Camera dei Comuni «caso per caso» sancisce la chiusura delle terre demaniali (" È chiaro che la chiusura delle terre a profitto del signore fu di uso molto generale e anche una delle cause principali, se non la causa principale, del malcontento popolare", ASHLEY, Histoire et doctr. écon. de l'Angleterre, trad. franc., vol. II, pag. 312. ).
La « chiusura delle terre comunali» spossessa immediatamente il proprietario originario a profitto del signore e sanziona una delle maggiori iniquità della storia ; ma il giurista non si perde d'animo. Solo più tardi i suoi sofismi interessanti troveranno riscontro nello zelo operoso col quale gli economisti vorranno giustificare il monopolio del capitale. Il signor Fustel de Coulanges considererà il signore feudale come il proprietario primitivo, il quale, in un'epoca remota concesse dei diritti ai contadini. Il diritto di comunità non sarà allora altra cosa se non un uso che il signore -generosamente -aveva lasciato stabilire (Origine de la propriété fonc). Certo ciò non sarà accaduto per pura filantropia, ma perché il diritto di comunità sui beni comunali sarà stato meglio adatto ai bisogni della cultura. Il signore feudale a un certo punto é ritornato sui propri passi ed ha ritolto ai contadini l'uso sui beni detti comunali. Ma a questa comoda teoria si oppongono i fatti che già Henri Maine aveva esposto, e secondo cui la terra era originariamente libera, e sopratutto il vivo sdegno dei contemporanei innanzi agli abusi dei signori feudali (Village Community, pag. 7).
L'inchiesta del 1548 è già la prova indiretta dell'enorme malcontento che la chiusura delle terre comunali aveva suscitato. I tentativi del legislatore per opporsi a questa calamità riuscivano impotenti. In realtà, nel suo tentativo di rendere commerciabili tutti i beni e quindi di far crescere il guadagno in ragione delle quantità di prodotti che si potevano condurre al mercato, il capitale era lo strumento della economia cittadina allora formatasi. A questo incremento del prodotto si opponeva in linea principale il diritto consuetudinario del contadino, e poiché la specie di cultura (il bestiame da lana), che l'Inghilterra trovava più conveniente, rendeva superflua una larga scorta di lavoratori, al processo del totale asservimento si sostituiva il processo della liberazione. Per proletarizzarli bisognava renderli liberi, e l'Inghilterra insegnò la libertà all'Europa perché potesse prima insegnarle come si possono lacerare i diritti della proprietà fondata, essa veramente, ma anche essa sola, sul lavoro.
Noi vediamo dunque che la costituzione del sistema capitalistico impone la convergenza di momenti e di fatti, che concorrono tutti a un medesimo risultato. Senza porci all'impossibile problema di sapere come all'inizio si formò il capitale mobile, ed ammettendo che l'usura vi ebbe una larga parte, abbiamo detto che l'interessante consiste solo nel sapere in che modo la ricchezza mobile iniziale ha pigliato quella estensione per cui ha potuto più tardi investire e dominare il processo economico della produzione.
La concomitanza dell'accrescersi della ricchezza mobiliare con l'esercizio di una funzione pubblica, ci è parsa decisiva, ma si è visto anche come la ricchezza mobiliare accumulata dovesse cercarsi uno sbocco nel commercio. Perciò non é propriamente un errore scorgere nel commercio l'origine prima del capitale, ma una inesattezza di valutazione dell'ordine cronologico in cui questo momento appare. Si spiega poi come la pressione del commercio spinga la proprietà fondiaria a rompere la costituzione tradizionale del suolo. Qui appare il momento della espropriazione della proprietà contadinesca fondata sul lavoro personale, ma essa si connette all'azione del capitale solo per via indiretta, mentre appare un momento decisivo nella formazione più alta della rendita fondiaria. Ora la rendita fondiaria monetizzata è sì un mezzo per accrescere l'accumulazione del capitale mobile, ma storicamente e logicamente é l'ultimo anello di una catena, il cui primo anello é avvolto di mistero, mentre i successivi possono abbastanza bene illuminarsi. Tutte le volte che noi ci porremo alla ricerca delle origini del sistema capitalistico, tre momenti ci appariranno siccome decisivi 1. la funzione pubblica; 2. il commercio; 3. la soppressione della proprietà personale fondata sul lavoro. Le modificazioni subite dalla rendita fondiaria debbono necessariamente considerarsi come risultanti da quelle tre circostanze.
(Curioso notare che il Marx, il quale più di qualunque altro ha contribuito a diffondere l'opinione che il commercio rappresenti il punto di partenza del capitalismo, abbia poi, con una inconseguenza, che del resto è testimonio della sua onestà scientifica, messo in rilievo come in tutti i momenti della formazione capitalistica, appaia l'influenza dello Stato; di essi scrive: «In England werden sie... systematisch zusammen gefasst im Kolonialsystem, Staatschuldensystem, modernen Steuersyn stem und Protektionssystem... Alle aber benutzten die Staatsmaschine, die koncentrirte und organisirte Gewalt der Gesellschaft, etc. », Kapital, I, 4a ed., pag. 716.)