SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
PIO IV - GIOVANNI L. ANGELO DE' MEDICI

PIO IV - Giovanni L. Angelo de' Medici (1499-1565)
(Pontificato 1560-1565)

GIOVANNI Luigi ANGELO nacque a Milano nel 1499 dal notaio Bernardo de' Medici e Cecilia Serbelloni. Gli umili suoi genitori non gli diedero la celebrità. Fu invece il fratello Gian Giacomo, detto 'Medeghino il famigerato', con la sua brillante carriera militare e con le sue clamorose imprese, a dargli un nome ed una fama. La stessa moglie di Gian Giacomo, Marzia Orsini, era cognata di Pier Luigi Farnese, parente del papa Paolo III.

Compiuti gli studi giuridici, fu avviato alla carriera ecclesiastica, godendo della protezione del cardinale Farnese, futuro Paolo III. Fu Protonotaio apostolico e Commissario per la città di Roma. Nel 1545 venne eletto vescovo di Ragusa e, l'anno successivo, Commissario della Lega Smalcaldica; cardinale nel 1549. Protetto da Giulio III e avversato da Paolo IV (durante il cui pontificato si era ritirato a vita privata, dal 1556 al 1559) per le sue simpatie filospagnole, venne eletto papa, alla morte di quest'ultimo, la notte di Natale nel 1559, dopo un tempestoso conclave durato circa quattro mesi.
Volle chiamarsi PIO IV per indicare la mitezza che si proponeva di usare nel suo governo.

A differenza del suo predecessore, si mostrò veramente conciliante usando buona diplomazia. Ristabilì i buoni rapporti con l'imperatore Ferdinando I e condusse la sua politica in accordo con lui e con Filippo II di Spagna, che si sentiva protettore nato del cattolicesimo e del papato, ma anche ardente fautore del cesaropapismo nei suoi regni. Incline veramente alla mitezza si rifiutò di scomunicare Elisabetta I d'Inghilterra.
Addirittura temperò la severità dell'Inquisizione cercando si regolarne le procedure, limitandone la giurisdizione.

Pio IV aprì un clamoroso processo contro i nipoti di Paolo IV, i Carafa, ed in particolare contro il nipote porporato Carlo, il quale, esiliato da Roma dallo stesso zio, aveva avuto la sfrontatezza di tornare in città. La mattina del 7 giugno 1560 furono arrestati i cardinali Carlo ed Alfonso, oltre al duca Giovanni, al conte Ferrante e a Leonardo de Cardenas. Il primo di costoro era accusato di aver indotto lo zio pontefice a muovere guerra contro la Spagna, nonché sospettato addirittura d'eresia, per aver tentato di stringere alleanze con alcuni principi protestanti tedeschi e con il sultanato turco. Il cardinale Alfonso era invece accusato di aver estorto denaro allo zio morente. Sul duca, infine, pendeva l'accusa di aver, col consenso degli altri membri della sua famiglia, fatto strangolare la moglie per adulterio, e per avere personalmente ucciso il suo presunto amante Marcello Capece. A sostenere la pubblica accusa nel processo fu designato, quale procuratore fiscale, Alessandro Pallantieri che si dimostrò implacabile nei confronti degli arrestati, sia nell'attività inquisitoria, sia in quella di giudizio, che si concluse con una sentenza durissima: condanna a morte per i quattro principali imputati e pena pecuniaria per il cardinale Alfonso, che fu anche rimosso dalla Curia ed esiliato.

L'esecuzione di Carlo Carafa avvenne a Castel sant'Angelo, dove il condannato era detenuto poichè porporato, mediante la garrota, sistema strangolamento di recente importato dalla Spagna, consistente in un laccio che da dietro veniva serrato mediante due manopole al collo del condannato. Metodo che però stavolta non funzionò alla perfezione, in quanto il Carafa era un uomo possente ed il laccio col quale il boia gli stringeva la gola si ruppe. Fu necessario usare un'altra corda che, stavolta, fece fino in fondo il suo dovere. Sul busto di Pasquino il mattino successivo apparve il libello 'Extinxit laqueus vix te, Carafa, secundus; tanto enim sceleri non satis unus erit' (ti uccise il secondo laccio, o Carafa, a tanta sceleratezza uno non sarebbe bastato).

Giovanni, Ferrante e Leonardo furono, all'alba dello stesso giorno, decapitati nel cortile del carcere di Tordinona ed i loro cadaveri esposti al pubblico ludibrio, sotto la pioggia nella piazzetta di Ponte, ciascuno con la rispettiva testa collocata al fianco. Solo la notte successiva fu possibile provvedere alla sepoltura nella cappella di famiglia che è l'ultima della navata di destra della basilica di santa Maria sopra Minerva.

Inflitto questo duro colpo al grande nepotismo, Pio IV si limitò, per conto suo, a praticare il piccolo nepotismo. Elevò alla porpora numerosi congiunti, oltre a favorirne altri: il nipote Federico fu nominato Capitano Generale della Chiesa e Gian Antonio Serbelloni e Marco Sittico Altemps furono nominati cardinali; con loro favorì anche il nipote CARLO BORROMEO, cui affidò diversi incarichi prima ancora di essere consacrato sacerdote (Protonotario Apostolico e Referendario della Segnatura), fino all'elezione a cardinale avvenuta alla fine del gennaio 1560. Il 7 febbraio 1560, Carlo fu nominato arcivescovo della diocesi di Milano, ma, come era usanza all'epoca, rimase a Roma presso la corte dello zio, dove ottenne ricche commende abbaziali, diventò Legato pontificio per la Romagna, protettore del regno del Portogallo e dei Paesi Bassi, protettore di alcuni fra i maggiori ordini religiosi, arciprete di santa Maria Maggiore, gran penitenziere. Soprattutto occupò una posizione di primo piano all'interno della curia pontificia e, in qualità di cardinale-nipote si affermò come il più stretto collaboratore del papa. Moltissimi storici ritengono questo caso un classico esempio di nepotismo 'opportuno'.

Pio IV investì della propria autorità Teresa d'Avila, la quale lavorò con successo dal 1562 ai fini di una più rigorosa osservanza della regola nei monasteri carmelitani maschili e femminili; fu sostenuta da Giovanni della Croce che ne condivideva gli ideali.
Pio IV si rivelò, durante il suo papato, anche munifico mecenate. Presso la sua corte trovarono protezione e lavoro Michelangelo, Giovanni da Udine, Daniele da Volterra; agevolò anche l'arte della stampa chiamando Paolo Manuzio a Roma. Tra le sue opere più significative segnaliamo la Porta Pia, eretta dal 1561 al 1564 da Michelangelo, presso l'antica Porta Nomentana, a fondale della strada Pia. È l'ultima opera di Michelangelo e segna il momento di transizione fra il tardo Rinascimento e il Barocco.

Il lato che affaccia su via XX settembre presenta nel mezzo del corpo a mattoni coronato da una merlatura ornamentale, il grandioso portale di travertino con lesene scanalate e ricco timpano composito. Ai lati finestroni a timpano sormontati da minori finestre riccamente incorniciate.

Il lato che guarda la via Nomentana è a forma di arco trionfale, a un fornice, fiancheggiato da nicchie con le statue di sant'Alessandro e di sant'Agnese. Le due porte sono tra loro unite da bassi fabbricati, che fiancheggiano un cortiletto, ornato dei busti bronzei, dove oggi è situato l'ingresso al Museo Storico dei Bersaglieri.
La Porta Cavalleggeri sostituì la 'Porta Posterula alias Turrionis'. La porta prese il nome attuale nel 1550, quando, la Guardia dei Cavalleggeri fu accasermata nelle sue vicinanze. La porta, che è ora murata, fu aperta, dopo il ritorno del papa da Avignone.

Nel 1561 Pio IV operò la grande trasformazione delle Terme di Diocleziano con la costruzione del monastero e del relativo chiostro grande della certosa di santa Maria degli Angeli, più comunemente conosciuto come chiostro michelangiolesco, perché la tradizione lo attribuisce ad un disegno di Michelangelo. Iniziato nel 1565, come testimoniato dalla data incisa sulla colonna angolare in prossimità del portale settecentesco, che collega il grande chiostro con l'esterno, fu terminato alla fine del '600.
Con la realizzazione della Casina di Pio IV, di Pirro Ligorio, i giardini vaticani assunsero l'aspetto di una villa. La casina, iniziata da Paolo IV, e completata dal suo successiore, rende molto bene l'idea del riposo bucolico.

L'opera più proficua di Pio IV è senz'altro la ripresa del Concilio di Trento, su suggerimento del nipote Carlo, per il suo terzo ed ultimo periodo (sessioni XVII-XXV, 18 gennaio 1562 - 4 dicembre 1563). Per la sua apertura vi erano ancora gravi difficoltà da superare, poichè l'imperatore e la Francia desideravano una convocazione completamente nuova del Concilio, che prescindesse dai decreti emenati nei due primi periodi e si radunasse in una città diversa da Trento. Purtroppo la Germania in questo importantissimo periodo conclusivo fu molto mal rappresentata; per timore dei protestanti l'episcopato tedesco si astenne dal parteciparvi. I principi protestanti d'altronde avevano ancora una volta respinto, in forma offensiva, l'invito papale loro comunicato nel convegno di Naumburg (gennaio 1561).
Comunque sia, Pio IV lo riprese con la bolla del 29 novembre del 1560, ma la riapertura si ebbe solo nel 1562. Tra i cardinali sostituti del presidente delegato Ercole Gonzaga, venne nominato l'agostiniano Girolamo Seripando, allora arcivescovo di Salerno che aveva contribuito non poco alla discussa stesura dei decreti sul peccato originale e la giustificazione; tra gli altri teologi che parteciparono al concilio, si ricordano in particolare Reginaldo Pole, Diego Lainez, Melchior Cano e Domingo De Soto.

Il concilio doveva innanzitutto portare a termine la dottrina dei sacramenti. Le sessioni XVII-XX furono dedicate alla riorganizzazione dei lavori. Nelle sessioni XXI-XXIV (16 luglio 1562 - 11 novembre 1563) furono emanati decreti sulla dottrina della Comunione sotto le due specie, la Comunione dei bambini, il sacrificio della Messa, i sacramenti dell'Ordine e del Matrimonio. I dibattiti relativi furono talora molto difficili e richiesero parecchio tempo; più di una volta si affacciò il pericolo di uno scioglimento del concilio. A questo periodo sono da ascriversi anche un gran numero di sostanziosi decreti di riforma, concernenti i più importanti settori della vita ecclesiastica.

L'imperatore Ferdinando I, nel giugno 1562, presentò al concilio un libello di riforma in quindici articoli, concernenti la "Riforma della Chiesa nel suo capo e nei suoi membri", e insistette perchè venisse messo in discussione prima delle questioni dogmatiche. Accanto a proposte ben fondate ed utili, vi si trovavano però anche richieste pressochè inaccettabili per la Curia, come quella della concessione del calice per i laici e del matrimonio per i sacerdoti; esse erano sostenute anche dal duce Alberto IV di Baviera e in parte anche dalla Francia. La decisione circa il calice per i laici fu infine rimessa, nella XXII sessione, al giudizio del papa. In realtà Pio IV nel 1564 concesse ad un buon numero di diocesi germaniche, sotto determinate condizioni, la comunione sotto ambedue le specie; la richiesta di abolizione del celibato ecclesiastico, per altro frequentemente violato, fu invece fermamente respinta.

Siccome l'entusiasmo per il calice ai laici ben presto si raffreddò fra i cattolici tedeschi, e per di più non si ebbe il successo che se ne sperava di recuperare numerosi protestanti, nel 1571 esso fu abolito in Baviera, e nel 1584 anche in Austria (eccettuata la Boemia).

Lunghe e tempestose discussioni si sollevarono a partire dall'aprile del 1562, quando si cominciò a trattare dell'obbligo di residenza e del potere di governo dei vescovi. Per rendere impossibile la cumulazione di benefici ecclesiastici in una sola mano, gli spagnoli e i francesi volevano che il concilio dichiarasse che l'obbligo di residenza fosse di diritto divino, e in relazione a ciò favorivano la tesi secondo cui la giurisdizione vescovile non proveniva dal papa, ma direttamente da Dio. Gli italiani si opposero con energia.

Così la controversia riaccendeva l'antica (ma attuale ancora oggi) opposizione fra sistema episcopale e sistema papale. Nel sessione XXIII (15 luglio 1563), dopo che il nuovo presidente cardinale Morone ebbe raggiunto con contatti personali un accordo con l'imperatore a Innsbruck (aprile-maggio 1563), nella questione della riforma, in concilio si arrivò ad accantonare la questione del rapporto tra episcopato e papato, lasciandola impregiudicata.

Nella sessione XXII 1562 ordinò che nel canto e nel suono dell'organo si evitasse severamente tutto ciò che aveva un tono di lascivo e impuro. Alcuni zelanti volevano addirittua proscrivere completamente dalle chiese la musica figurata o polifonica per far ritorno al puro canto gregoriano; ma la commissione cardinalizia istituita dal papa per l'applicazione dei decreti tridentini non fece sua questa proposta estrema e si limitò ad esigere intellegibilità del testo, maggior semplicità delle composizioni ed esclusione di melodie mondane dalla chiesa.

Nel capitolo del matrimonio (sess. XXIV) non ci si limitò a definirne la sacramentalità e l'indissolubilità, ma fu emanato anche un apposito decreto, 'De reformatione matrimonii', in dieci capitoli. Il primo di questi, il cosiddetto decreto 'Tametsi', dichiarò nullo e invalido il matrimonio segreto e riconobbe validità soltanto al matrimonio celebrato dinanzi al parroco competente e a due o tre testimoni.

Degli altri decreti di riforma sono da ricordare: le prescrizioni relative al conferimento degli ordini sacri e alla sufficiente dotazione delle parrocchie, l'abolizione dell'ufficio dei questuari e il conferimento ai vescovi del compito di annunciare le indulgenze (sess. XXI, XXIII), l'accentuazione del dovere di residenza per i rettori delle chiese e l'obbligo per tutti i prelati di farsi consacrare entro tre mesi (sess. XXIII). Di vasta portata fu il decreto riguardante l'erezione di seminari diocesani per la formazione dei futuri sacerdoti, decreto, però, che nelle intenzioni dei padri conciliari, non doveva minimamente compromettere o meno ancora abolire lo studio della teologia nelle università. La sessione XXIV emanò una quantità di disposizioni circa la celebrazione di sinodi provinciali (ogni tre anni) e di sinodi diocesani (annuali), la visita delle diocesi, l'esercizio dell'ufficio della predicazione e l'istruzione religiosa del popolo, la penitenza ecclesiastica pubblica, l'istituzione di un esame di concorso per le nomine alle parrocchie vacanti, il divieto di cumulazione dei benefici (prevedendo una serie di dispense), delle expectantiae, delle provvisioni, delle riserve.

Nella sessione conclusiva (sess. XXV) del 3 e 4 dicembre 1563 furono emanati i decreti dogmatici circa il purgatorio, il culto dei santi e delle reliquie, le immagini sacre e le indulgenze. Interessante ciò che troviamo nel decreto delle indulgenze, dove leggiamo: "Il Santo Sinodo insegna e comanda di mantenere nella Chiesa l'uso delle indulgenze, molto salutare per il popolo cristiano... desidera tuttavia che nel concedere le indulgenze si usi moderazione... per evitare che la troppa facilità nel concederle indebolisca la disciplina ecclesiastica... col presente decreto (il sinodo) stabilisce la completa abolizione di tutti gli indegni traffici di soldi fatti per ottenerle".

Inoltre fu approvato un particolare decreto di riforma degli ordini religioso maschili e femminili e un decreto di riforma generale riguardante diversi oggetti (fra l'altro vi si proibisce il duello, con la pena di scomunica). Diverse riforme non ancora elaborate, come l'edizione di un nuovo indice dei libri proibiti, in sostituzione di quello troppo severo di Paolo IV, di un Catechismo generale, di un Breviario e un Messale riveduti, furono demandate al papa.

I decreti conciliari furono sottoscritti da 255 partecipanti, fra cui 6 cardinali, 3 patriarchi, 193 arcivescovi e vescovi, 7 abati e 7 generali di ordini e 39 procuratori di assenti. Il concilio fu ufficialmente chiuso con la Bolla Iniunctum nobis del novembre 1563. Nella Bolla Benedictus Deus del 26 gennaio 1564, Pio IV concesse una ratifica dei decreti richiesta dal concilio e sitituì una Congregatio s. Concilii, costituita da otto cardinali, col compito di interpretare autenticamente i decreti stessi e di controllarne l'esecuzione. Inoltre nel 1564, secondo l'incarico che gli era stato affidato, egli pubblicò un 'Index librorum proibitorum' e una 'Professio fidei' tridentina, contenente una professione di fede e una promessa d'ubbidienza verso la Santa Sede. Il resto del programma fu riservato ai suoi successori.

I decreti tridentini furono accettati senza riserve dal maggior numero dei sovrani e degli stati, come dall'imperatore Ferdinando, dalla Polonia, dal Portogallo, dalla Savoia e dagli stati italiani, ma da Filippo II di Spagna invece furono accolti soltanto con la clausola 'salvi i diritti regali'. La Francia accettò bensì i decreti dogmatici, ma rifiutò il riconoscimento ai decreti di riforma; questi tuttavia furono promulgati gradualmente dai vescovi nei sinodi provinciali. In Germania gli stati cattolici, con l'imperatore Massimiliano alla testa, si assoggettarono, nella Dieta di Augusta del 1566, ai decreti tridentini circa il dogma e il culto.

Il Concilio di Trento ebbe una durata più lunga e dovette superare difficoltà esterne ed interne maggiori di qualsiasi concilio precedente. Ma è anche vero che nessuna altro concilio ha esercitato un'azione così vasta, profonda e duratura per la fede cattolica e la disciplica ecclesiastica; tale azione è ancora viva ai nostro giorni. Certo esso non riuscì a ripristinare l'unità religiosa, giunse appena in tempo per salvare la Chiesa nei paesi latini; in quelli nordici era ormai troppo tardi.

L'occidente cristiano rimase così confessionalmente diviso. Ma la dottrina cattolica fu chiarita e nuovamente precisata nei suoi punti decisivi. Anche se l'attuazione dei decreti fu soltanto graduale e di diversa portata nei singoli paesi, dal concilio si irradiò una forza rigeneratrice e creativa andata sotto il nome di CONTRORIFORMA (o Riforma Cattolica).

Scampato miracolosamente ad una congiura ordita verso di lui per ucciderlo, Pio IV ne rimase così impressionato che si ammalò e non riacquistò più la salute. Quando si aggravò accorsero ad assisterlo sul letto di morte Carlo Borromeo e Filippo Neri, e nelle loro braccia spirò tranquillamente la notte del 9 dicembre 1565. I suoi resti mortali riposano nella tomba a lui dedicata in santa Maria degli Angeli a Roma, dove c'è anche un busto che ne ricorda la presenza. Spostando l'organo, nell'abside fu creato un passaggio per una bellissima sala a lui dedicata.

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