SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
CARMELO AGNETTA


un ardito ma "vivace" prefetto garibaldino

 

Carmelo Agnetta fu garibaldino arditissimo ma anche prefetto.
Egli guidò la cosiddetta “retroguardia dei Mille”, arrivata a Marsala il 1° giugno ed entrata il 6 a Palermo con un carico prezioso di armi e munizioni. Ricevette il famoso schiaffo da Bixio e, nell’inevitabile duello atteso più d’un anno, rese invalida la mano che l’aveva colpito. Voglio però qui ricordare anche la carriera di Agnetta come alto funzionario dello Stato.

Apparteneva a famiglia siciliana, nato nel 1823 a Caserta dove il genitore, ufficiale di carriera, si trovava di guarnigione. Compì gli studi a Palermo dopo essere rimasto orfano del padre. L’educazione sua e dei fratelli fu curata dallo zio Antonio Agnetta, la madre si risposò ed ebbe altra prole.

Carmelo Agnetta come tanti coetanei partecipò con passione alle vicende politiche del suo tempo, prima ai moti di Messina del 1° settembre 1847, poi alle vicende rivoluzionarie siciliane del 1848 rivestendo incarichi militari e civili nel governo provvisorio. Fu comandante del distretto di Corleone e segretario della delegazione inviata in missione a Londra e Parigi. Nella capitale inglese, allorché sorse una vertenza legale col governo borbonico per l’acquisto di navi, Agnetta diede prova del suo carattere che definire “vivace” è riduttivo: aggredì e fu sul punto d’uccidere tale De Angelis che rappresentava la controparte.

Quando nel 1849 le sorti della Sicilia volsero al peggio, Agnetta partì per l’esilio, diretto prima a Malta, poi a Parigi e Londra dove frequentò Francesco Crispi. Quella vita raminga lo portò poi in Egitto e nuovamente a Parigi. Un decreto del governo napoletano gli vietò di tornare in patria.
Scoppiata la seconda guerra d’indipendenza, corse ad arruolarsi nell’esercito toscano.
L’anno dopo, nella notte dal 25 al 26 maggio 1860 s’imbarcò a Genova su un vecchio rimorchiatore che portava il nome “Utile”, insieme con una sessantina di compagni e un carico di più di mille fucili e 100.000 cartucce per Garibaldi. Il livornese Francesco Lavarello comandava il trabiccolo. La maggior parte dei volontari era formata da siciliani e genovesi ma c’erano giovani di tutte le regioni e anche due ungheresi e un polacco. Il varesino Giulio Adamoli, che faceva parte della comitiva, in un bel libro di ricordi (“Da San Martino a Mentana”) descrisse Agnetta “siciliano bruno, vivace, intelligente” che portava sempre il fez, evidente souvenir del soggiorno egiziano.

La spedizione Agnetta, grazie anche alla tenacia e decisione di Agnetta, riuscì a sbarcare a Marsala senza danni. Certamente, il rimorchiatore Utile non avrebbe potuto sostenere nessuna battaglia navale.
Garibaldi, appena avvisato, mandò questo messaggio: “Caro Comandante, vi felicito dell’arrivo vostro e dei vostri bravi compagni. Marciate con sollecitudine verso Palermo seguendo le strade Salemi, Calatafimi, Alcamo, Partinico, Monreale. Spero di stringervi presto la mano.”.
Giuseppe Bandi, che ad Alcamo s’aggregò alla compagnia, ricordò con queste parole il passaggio per Partinico: “La città che, dopo le batoste toccate ai regi a Calatafimi, aveva dato loro il resto del carlino mentre passavano per tornarsene, era tutte in arme. Nell’entrare la strada asserragliata aveva per sentinelle due frati cappuccini, con un gran berretto rosso in capo, colla tonaca rimboccata intorno alla vita e colla sciabola al fianco e il moschetto sulla spalla”.


L’episodio dello schiaffo di Bixio a Palermo è rievocato così da Adamoli che ne fu testimone:
“Ci si condusse nella chiesa di san Giuseppe dei Teatini, sui Quattro Canti, aperta la volta da una bomba, e già occupata dai garibaldini. Schierati nella navata sinistra, attendevamo già la visita di Garibaldi, impazienti di vederlo e di udirlo: l’Agnetta era già pronto a presentargli il suo piccolo drappello, quando entrarono due ufficiali in giubba di tela. Quegli che aveva l’aria di maggior grado, venne difilato a noi, e domandò – Chi comanda qui? L’Agnetta si fece innanzi, e l’altro, senza aspettar risposta – Vada coi suoi uomini ad accompagnare ai funerali la salma del colonnello Tuköry. L’Agnetta, ritto sul guard’a voi, chiede: - Ma scusi, chi è lei? - Io sono Bixio, grida e gli lascia cadere in viso un manrovescio… Ne nasce un parapiglia infernale. L’Agnetta mette mano alla sciabola e i nostri si vogliono scagliar sul Bixio per vendicare il loro comandante. Giuseppe Dezza, il compagno di Bixio, ed altri ci si buttano di mezzo per trattenere i contendenti. A gran fatica le cose si acquietano. L’Agnetta voleva aver subito, e con ragione, una soddisfazione per le armi. Ma Garibaldi, a più buon diritto, proibì il duello: i tempi non permettevano a lui di dare a un Bixio il lusso di giocarsi la vita”.

Un giurì d’onore rimandò la soluzione della vertenza alla fine della campagna militare. Agnetta, che intanto aveva raggiunto il grado di maggiore, lasciò l’esercito nel febbraio 1861 non volendo battersi con un suo superiore di grado.
Finalmente, il 17 novembre successivo, avvenne il duello a Brissago, luogo di confine tra Italia e Svizzera. I contendenti furono posti dai padrini a distanza di trenta passi, armati di pistola, con facoltà di avanzare e sparare a volontà. Al primo colpo Agnetta attinse Bixio alla mano. La ferita era seria, provocò molte sofferenze e fece perdere la piena funzionalità dell’arto.
Si attribuisce a Bixio la frase: “Sono punito nella mano che ha peccato” e, come riferisce Gualtiero Castellini, “tenne poi sempre l’Agnetta in conto di amico, come uomo che faceva parte per dir così, della tribù dei violenti buoni cui egli apparteneva”. E lo aiutò a essere assunto nell’amministrazione dell’Interno.


“Agnetta portò negli uffici che ebbe, di consigliere di prefettura e di sottoprefetto, le sue abitudini di violenza, una volontà indocile e intransigente, l’abitudine di farsi ragione con le sue mani”. Così scrisse Matteo Mazziotti e, infatti, i ventisette anni di carriera furono per Agnetta un susseguirsi di episodi movimentati.

Entrò in carriera come Consigliere di prefettura a Palermo. Nel 1864 era in servizio a Rocca San Casciano allorché dal carcere militare di Forlì evasero 16 soldati: Agnetta ne catturò buona parte guidando personalmente la colonna mobile.
Successivamente, come padrino di un collega d’ufficio recò una sfida a duello che, vietato dalla legge, si svolse nel territorio di San Marino. Per questa condotta, riprovevole per un pubblico funzionario, Agnetta subì un severo richiamo dal ministero e il trasferimento a Cesena.

Lì, da sottoprefetto, affrontò nel foyer del teatro un “guappo” locale e con maniere brusche lo trascinò fuori minacciandolo di più duro trattamento. In breve tempo fu traslocato prima a Ravenna poi a Borgotaro.
In un’altra occasione, affrontò in strada dei manifestanti scalmanati, arrestò il capo e lo consegnò ai carabinieri. Allo scoppio della terza guerra d’indipendenza chiese di potersi arruolare ma non gli fu concesso.
Inviato in Campania, come sottoprefetto di Vallo s’impegnò personalmente nella lotta al brigantaggio e, armato di fucile, organizzò e animò egli stesso le perlustrazioni a caccia dei latitanti. Lo stesso fece poi a Isernia.

Nel 1870 dopo il 20 settembre svolse una missione presso la Luogotenenza del re a Roma. L’anno dopo, quando era Sottoprefetto a Termini Imerese, fu retrocesso nella carriera e trasferito a causa di un arresto arbitrario che aveva ordinato.
Nelle note personali è scritto: “Poca pratica amministrativa, ma molta energia, indole pronta, svegliata, carattere leale, coraggioso ma troppo impetuoso, facile ad avere contrasti”.

Dopo essere stato nelle prefetture di Bergamo e Caserta, ottenne nel giugno 1877 l’agognata nomina a prefetto, allorché Ministro dell’Interno era Giovanni Nicotera e Segretario generale Pietro Lacava (due ex-garibaldini come lui). Fu destinato alla provincia di Massa e Carrara dove, tanto per cambiare, si scontrò col Presidente del Tribunale e molti altri. Si mostrò sempre assertore intransigente dell’autorità dello Stato contro gli oppositori “rossi” e “neri”.

Tra i lavoratori del marmo era forte la presenza di anarchici e internazionalisti. Un giorno Agnetta fece chiamare nel suo ufficio un personaggio che pare avesse proferito minacce nei suoi riguardi e gli disse con aria di sfida: “Qui siamo soli, petto a petto, ho mandato altrove tutto il personale”, ma non s’arrivò alla scazzottata per rinunzia dell’altro contendente.

Il prefetto accusò poi un tal Biglioli di oltraggio e aggressione ma il Tribunale assolse l’accusato ed espresse invece critiche al funzionario. Alla Camera l’on. Cavallotti accusò Agnetta d’avere compiuto lui un vero e proprio agguato ma Depretis, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, rispose così:
“Si può credere bensì che il commendatore Agnetta non sia uomo interamente calmo, interamente senza difetti; ma accusarlo di un agguato! Non è della sua indole; molti degli onorevoli deputati lo conoscono e saranno in ciò d’accordo con me. Le parole che l’on. Cavallotti ha pronunziate, lo creda pure, sono troppo gravi, trattandosi di un funzionario che è un patriota e ha reso distinti servigi al paese” (seduta del 16 maggio 1883).
L’on. Bonghi affermò: “Se nell’amministrazione pubblica vi fossero molti tipi come l’Agnetta, sarebbe un affare serio; ma se non ve ne fosse alcuno sarebbe un vero danno”.

Il prefetto più volte aveva manifestato al ministero il desiderio di cambiare sede ma s’ammalò e morì a Massa il 4 aprile 1889, assistito dalla moglie Emilia Sauvet.
Molti rimpiansero la generosità che lo portava a elargire denaro anche al di là delle sue possibilità, tanto da dovere poi egli stesso chiedere prestiti. Questo aspetto caratteriale è bene espresso da un famoso aneddoto. Il re Vittorio Emanuele gli aveva regalato un prezioso orologio e, tempo dopo, incontrando Agnetta gli chiese: “Come va l’orologio”. Si sentì rispondere: “Benissimo ma ha un difetto. Vi sono incise le cifre reali e non posso impegnarlo”.

Donato D’Urso


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