ITALIA 1950-1963
Devastato dal 2° conflitto mondiale, il Paese
si riprende e conquista il benessere.
Ma la classe dirigente è inetta, incapace di gestire il presente e preparare
il futuro
(fu onesto il Sen. Bassetti nel dire in seguito: " abbiamo capito subito e ci siamo resi conto che non avremmo saputo dirigere la società italiana. Il Paese, fuori, era più forte della politica, e anche più intelligente. Non fare nulla fu la scelta migliore di tanti provvedimenti governativi. Il paese fu così lasciato nella logica della foresta e per fortuna ci è andata bene"
ITALIA MIRACOLATA: |
Alla fine della seconda guerra mondiale, l'Italia � un paese profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive precise, incerto addirittura sulla sua stessa unit�.
L'economia � prostrata; la societ� � sostanzialmente la stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale; la presenza di un fortissimo partito comunista rende incerta la posizione stessa dell'Italia sullo scacchiere internazionale.
Quarant'anni pi� tardi, lo stesso paese � uno dei sette pi� industrializzati del mondo, saldamente integrato nel sistema occidentale di mercato, il tenore di vita dei suoi cittadini si pu� a buon diritto definire tra i pi� elevati del mondo. Il volto dell'Italia � dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti � addirittura irriconoscibile, trasformato da un processo di accumulazione, di urbanizzazione e di secolarizzazione cos� rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra.
Gi� nel 1968 le rivolte studentesche poterono essere lette - almeno in parte, e in parte lo furono esplicitamente - come un fenomeno di rifiuto della societ� dei consumi. Quale differenza rispetto a soli vent'anni prima, quando da consumare c'era ben poco, e per moltissime famiglie il problema era mettere insieme il pranzo con la cena! Cosa aveva reso possibile una tale trasformazione della societ� italiana? I fattori di cambiamento furono molteplici e distribuiti nel tempo, ma il fulcro di tutto va cercato in un periodo relativamente limitato, che va approssimativamente dalla met� degli anni '50 al 1963, e che generalmente va sotto il nome di "miracolo economico". Ma fu davvero un miracolo? In effetti, abbiamo a che fare con mutamenti socio-economici del tutto fuori dell'ordinario, ma certo non inspiegabili, almeno a posteriori. In altre parole, il "boom" economico non nasce dal nulla, ma vi sono evidentemente le premesse storiche per il suo verificarsi. In secondo luogo, non abbiamo nemmeno a che fare con un passaggio miracoloso dall'inferno della povert� al paradiso del benessere generalizzato: proprio la rapidit� (e quindi la traumaticit�) di questo passaggio comport� la mancata soluzione di problemi strutturali che si trascinavano da prima ancora della guerra, se non addirittura dal Risorgimento.
Il passaggio dell'Italia alla modernit� fu in realt� tanto miracoloso quanto drammatico, e la rottura col passato non deve indurre a sottovalutare una serie importante di elementi di continuit� storica. Torniamo dunque al primo dopoguerra per individuare le origini sia dei fattori di rottura sia dei fattori di continuit�. Alla fine del conflitto, le stime generali delle distruzioni non sono nel complesso cos� drammatiche: � perduto dal 4% al 6% del sistema produttivo, ma con punte molto alte in certe zone geografiche (sud, coste ) o in certi settori produttivi (in particolare metallurgico e meccanico: risultava completamente distrutta Bagnoli e completamente smantellato dai tedeschi il moderno impianto di Cornigliano. Cinque sesti della marina mercantile erano stati distrutti). In particolare al Sud, ai bombardamenti alleati si erano aggiunte le distruzioni dei tedeschi in ritirata.
Nel Centro ( tra la linea Gustav e la linea Gotica) la guerra di posizione aveva aggiunto ulteriori distruzioni. Qui infatti si riscontrano i danni maggiori in settori come i trasporti e l'elettricit�. Altro fattore di disomogeneit�, che peser� in futuro sul diverso tasso di sviluppo di Nord e Sud, � l'importantissimo ruolo del CLNAI (Il Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia operante sia in regime di occupazione tedesca che di avvenuta liberazione) ai fini della difesa dell' apparato produttivo e della garanzia della sussistenza della popolazione.
Si distingue spesso tra una "fase militare" della ricostruzione (1945-47) dalla ricostruzione vera e propria. Nel dicembre 1945 al governo di "solidariet� nazionale" di Parri succede il primo governo De Gasperi, che nel giugno del 1946 guider� il passaggio dalla monarchia alla repubblica. I primi due governi presieduti da De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946 e luglio 1946-febbraio1947) sono entrambi governi di coalizione, sostenuti cio� dalla quasi totalit� dei rappresentanti parlamentari. Ministeri importanti come quello delle finanze sono occupati da esponenti del PCI. Sul fronte economico i problemi di breve periodo sono quelli della ricostruzione fisica e la preoccupante coesistenza di inflazione e disoccupazione. A ci� si aggiunge una notevole scarsit� di materie prime aggravata dalla scarsit� di mezzi di pagamento delle importazioni.
I problemi di lungo periodo riguardano la riconversione della struttura produttiva del paese (arretrata, autarchica, protetta, ostacolata nello sviluppo da troppe posizioni di monopolio) e la riduzione del divario Nord-Sud. Due serie di problemi che in realt� si intrecciano. Lo svolgersi della vita politica nel periodo 1946-48 si rivela di particolare interesse in prospettiva futura: vediamo perch�. Nei programmi di quasi tutti i partiti � contemplato un controllo statale (pi� o meno intenso) dell'economia. Nei dibattiti interni ai partiti prevale troppo spesso l'aspetto teorico e utopistico, in quello tra i diversi partiti ha il sopravvento la demagogia, ma resta significativo il tema dominante: quali limiti apporre alla propriet� privata dei mezzi di produzione. Gli stessi liberali, notoriamente avversi a ogni intervento statale in economia, ammettono la necessit� di una pianificazione economica a breve termine. Vi � poi l'esempio di altri paesi europei: l'Inghilterra gi� dal maggio 1944 adotta una politica di piano. Nel 1945 l'Olanda costituisce addirittura un Ufficio centrale per la pianificazione e nel 1946 � la volta di De Gaulle che con un decreto predispone un piano economico per la Francia.
Dalla met� del 1947, invece, prevale nettamente una politica economica di stampo neo-liberista. Perch�, e quali furono le conseguenze sugli anni a venire? Come sempre, contribuirono molti e diversi fattori. La fine dell'emergenza, la svolta di Palazzo Barberini, con la scissione del PSDI di Saragat (Partito socialdemocratico italiano, pi� moderato e filo-occidentale) dal PSI di Nenni, l'avvio della dottrina Truman e il suo piano di aiuti all'occidente europeo in chiave antisovietica, le pressioni della grande industria timorosa delle interferenze operaie nella gestione, contribuiscono tutte all'esclusione del PCI dall'esecutivo, e, dal maggio 1947, con il quarto governo De Gasperi, all'affermarsi di quella che i pi� critici definirono una "egemonia liberista": al ministero del Tesoro troviamo Del Vecchio (liberale indipendente), alle Finanze Pella (DC), al Commercio estero il liberale Merzagora, al Bilancio nientemeno che Luigi Einaudi.
Un altro posto chiave, la presidenza della Banca d'Italia, � occupata da Donato Menichella. Al di l� degli schieramenti partitici, sono tutti liberali "doc". Al successo della linea liberista contribuirono molti altri fattori pi� o meno secondari: il prestigio e il rigore degli economisti liberisti, la loro ottima tradizione dottrinale e i trascorsi antifascisti di molti fra loro; la distribuzione territoriale omogenea della "scuola" liberale e la sua compattezza sotto la guida di un leader riconosciuto come Einaudi; specularmente, la debolezza e la disorganicit� delle posizioni alternative. Del resto, la posizione esplicitamente filosovietica di un grande partito come il PCI ( anche se pi� sul piano puramente politico che su quello della politica economica) rendeva particolarmente ambigua agli occhi degli avversari la parola "pianificazione". Del maggio 1947 � un episodio emblematico: alcuni esponenti della sinistra (tra cui Foa, Pesenti, Pajetta) all'Assemblea Costituente presentarono un emendamento che cos� recitava: "lo Stato interverr� per coordinare e dirigere l'attivit� economica secondo un piano che dia il massimo rendimento alla collettivit�".
Sulle parole "dirigere" (poi inutilmente modificata in "orientare") e "piano" scoppi� un enorme polverone giornalistico in cui si sventolava lo spettro dello stalinismo sovietico: l'avversione della DC fu netta e decisa. L'emendamento fu poi bocciato con l'astensione di pochi isolati democristiani tra cui Fanfani, Dossetti, La Pira. Per anni non si parl� pi� di programmazione e se sul momento un rifiuto del genere fu giustificato dalla peculiare collocazione politica del PCI, col senno di poi � difficile negare che l'attribuzione di un valore costituzionale al principio della programmazione economica avrebbe contestualmente stabilito un principio di responsabilit� del governo rispetto agli obiettivi programmatici. Negli anni successivi lo Stato sarebbe intervenuto ugualmente - e spesso pesantemente - nell'economia del paese, ma in modo del tutto disorganico e disordinato, dunque inefficace e inefficiente. Questa mancanza di responsabilit�, cio� di verifica dell'avvenuto raggiungimento di obbiettivi precedentemente stabiliti, � una tara (enormemente facilitata dalla mancata alternanza di governo per pi� di quarant'anni) che ha pesato sull'economia italiana sino ai giorni nostri. Constateremo quanto fu difficile governare il "boom" economico senza strumenti adeguati di pianificazione. L'unico tentativo serio in questo senso sar� il Piano Vanoni varato nel 1954 per il decennio successivo ("Schema decennale di sviluppo del reddito e dell'occupazione").
Gli obiettivi erano il pareggio della bilancia dei pagamenti, la piena occupazione, e la riduzione del divario tra Nord e Sud. Quest'ultimo fu clamorosamente mancato, i primi due raggiunti (nel 1958 e attorno al 1960) ma in virt� dell'andamento spontaneo dell'economia pi� che per l'incisivit� ,piuttosto scarsa, della pianificazione. La fase neoliberale ebbe comunque il non piccolo merito di sconfiggere l'inflazione con misure dure e decise. Coadiuvato dalla politica monetaria restrittiva della Banca d'Italia, il governo De Gasperi prima ancora che allo sviluppo della produzione punt� alla stabilit� monetaria e al risanamento finanziario, tanto che, paradossalmente, proprio dagli Stati Uniti vennero pressioni per una politica economica pi� keynesiana, vale a dire pi� orientata alla spesa e all'investimento produttivo (mentre talvolta l'Italia "dirottava" gli aiuti del Piano Marshall al ripianamento dei buchi di bilancio).
Ad ogni modo � grazie a questa linea politica che vengono gettate le basi per il passaggio dell'Italia da un'economia chiusa a un'economia sempre pi� integrata agli scambi (commerciali e finanziari) internazionali. Nel 1946, ad esempio, solo il 3,5% delle importazioni OECE non erano sottoposte a licenza. Nel '49 sono gi� il24%, nel '52 il 50%, e nel '54 meno dell'1% � ancora sottoposto a restrizioni. Non va poi dimenticato l'importante ruolo di De Gasperi nella nascita della CEE (1957).
Altro fattore non trascurabile fu l'afflusso dei macchinari e del know-how americani che, grazie al Piano Marshall, apr� nuovi orizzonti a molte imprese italiane e le spinse a rimodernarsi. Ma � il combinarsi di pi� variabili che determina un dato processo storico, ed � assai difficile stabilire quale sia il coefficiente di importanza di ciascuna: agli inizi degli anni Cinquanta un elemento senza il quale il "miracolo" non avrebbe probabilmente avuto luogo fu il basso costo del lavoro che si riscontrava in Italia, dovuto agli alti livelli di disoccupazione. La combinazione data dal basso costo del lavoro e dall'apertura ai mercati esteri � presumibilmente la scintilla che diede il via al boom economico.
In realt� tra il 1951 e il 1958 la crescita della produzione (comunque ragguardevole: 5,5% annuo) fu stimolata dalla domanda interna e gli investimenti indirizzati a settori poco dinamici quali lavori pubblici, edilizia, agricoltura.
E' tra il 1958 e il 1963 che il tasso di crescita del PIL (Prodotto interno lordo) raggiunge il livello record del 6,3% annuo. Questo risultato straordinario fu trainato dalla domanda dei mercati esteri e diede vita a quel fenomeno definito "dualismo" della struttura produttiva. Di che cosa si tratta?
Vale la pena approfondire questo problema. In sostanza, nonostante l'Italia presentasse un vantaggio competitivo nei costi di produzione (prodotti tradizionali ad alto coefficiente di lavoro) la domanda estera dei paesi ricchi e industrializzati premeva per prodotti nuovi ad alto tasso di capitale e di tecnologia. L'assoluta necessit� di soddisfare questa domanda implic� lo sviluppo dei settori interessati (chimica, meccanica, metallurgia) che si rivelarono via via sempre pi� dinamici.
Nasce cos� la sfasatura tra una struttura industriale modellata sulle esigenze della domanda estera una domanda interna che giustificherebbe solo la produzione dei beni pi� necessari (alimentari, tessili): il primo settore si rivela sempre pi� dinamico, quello rivolto al mercato interno sempre pi� statico.
In questo periodo l'aumento di produttivit� oraria nei settori tessile e alimentare � del 4-5%, in quello chimico, automobilistico e siderurgico varia tra 8,5% e 11%. Tra il 1953 e il 1962 il margine di profitto nel settore tessile-alimentare aumenta dello 0-10%, nel settore dinamico del 28-55%. Come si vede, l'esistenza di due velocit� diverse dimostra che il boom economico portava con s� alcune significative contraddizioni.
Certo � che la velocit� del settore dinamico risulter� sorprendente: nel 1947 la Candy produceva una lavatrice al giorno, nel 1967 una ogni quindici secondi. Nel 1951 furono prodotti 18.500 frigoriferi, nel 1957 la cifra era di 370.000 e nel 1967 di ben 3.200.000. L'Italia era diventata il primo produttore europeo di elettrodomestici. La produzione automobilistica costituiva inoltre un grosso fattore propulsivo per l'intera economia e l'industria dell'indotto si sviluppava anche fuori delle grandi citt�. L'espansione dell'industria manifatturiera cominciava a manifestarsi anche al di fuori del solito triangolo industriale. Ci vorranno parecchi anni e una sensibilit� del tutto nuova per prestare maggiore attenzione a un effetto collaterale inevitabile dell'industrializzazione: l'aggressione indiscriminata dell'ambiente e del paesaggio. Tutti i settori produttivi citati si giovano dunque di un circolo virtuoso in cui l'aumento della produttivit� produce un aumento dei profitti; a sua volta l'aumento dei salari (per definizione poco flessibili) � meno che proporzionale a quello della produttivit�: ci� comporta una diminuzione del potere sindacale (di passaggio, ricordiamo che � del 1948 la frattura del sindacato unitario in CGIL, CISL e UIL).
Combinato al basso assorbimento di manodopera, tutto questo consente alle aziende di autofinanziarsi pi� facilmente e dunque di sviluppare il fattore capitale (cio� la tecnologia) rispetto al fattore lavoro. Ulteriore risultato � la stabilit� dei prezzi che rappresenta l'ambiente pi� favorevole al contenimento dei salari, all'investimento produttivo e alla crescita dei consumi. E' facile constatare come ciascuno di questi elementi rafforzi l'altro. Abbiamo gi� visto, tuttavia, che non erano solo rose e fiori. Uno degli aspetti pi� caratteristici del "miracolo economico" fu il suo sviluppo spontaneo e incontrollato. La politica non fu in grado di indirizzarlo e di correggerne i maggiori squilibri. La cosiddetta "distorsione dei consumi" � un esempio clamoroso di scompenso strutturale dovuto a questo mancato controllo. La distorsione dei consumi fu il prodotto di una crescita orientata all'esportazione che comport� un'enfasi eccessiva sui beni di consumo privati (e spesso su quelli di lusso) a scapito di un adeguato sviluppo di consumi pubblici quali case, trasporti, scuole, ospedali. Si spiega anche cos� il fatto che ancora oggi le infrastrutture di un paese sviluppato come l'Italia risultino spesso arretrate rispetto agli standard europei.
Tale distorsione venne riscontrata anche a livello di consumi individuali, favorita dalla gi� citata doppia velocit� dell'economia: la minor dinamicit� del settore tradizionale implicava infatti che i beni primari risultassero proporzionalmente pi� costosi rispetto a quelli secondari o di lusso. L'emulazione delle societ� pi� ricche, e l'assimilazione troppo rapida della struttura dei consumi delle classi borghesi e cittadine da parte di una societ� ancora provinciale e contadina completavano un quadro paradossale, dipinto forse meglio dai film di Sordi che da molti trattati di sociologia: negli appartamenti comparivano le televisioni ma continuavano a mancare i sevizi igienici; mentre l'auto diventava uno status-symbol le ferrovie venivano abbandonate al proprio destino; al dinamismo della piccola e media impresa faceva da contraltare l'inefficienza della pubblica amministrazione.
Due fenomeni, per�, sopra tutti gli altri, segnarono in modo drammatico il periodo del boom economico: l'urbanizzazione e l'immigrazione. L'esodo dalle campagne, fenomeno comune a tutta la penisola, rappresenta uno degli aspetti pi� drammatici del passaggio da un'economia agricola a una industriale. L'affidabilit� delle statistiche in proposito � certamente relativa, ma altrettanto certo � il vero e proprio sommovimento geografico causato dalla fuga dalle campagne.
Dal 1951 al 1971 la distribuzione geografica della popolazione fu sconvolta: pi� di dieci milioni di italiani furono coinvolti in migrazioni interregionali. Le citt� si gonfiarono a dismisura: ci furono, � vero, diversi interventi di edilizia popolare, ma globalmente insufficienti (gli investimenti pubblici costituirono solo il 15% del totale). Manc� evidentemente un controllo pi� stretto dell'industria delle costruzioni al fine di prevenire, cosa che invece fu troppo spesso la norma, scempi culturali e paesaggistici, speculazione e corruzione.
I sobborghi delle grandi citt�, i quartieri dormitorio, diventarono presto terreno di coltura di piccole e grandi ingiustizie sociali, humus in cui cresceva a sua volta la microcriminalit� urbana. Le periferie si allargavano disordinatamente, molto spesso al di fuori di ogni piano regolatore: nel 1970 si calcolava che a Roma fosse abusiva una casa su sei e che ben 400.000 persone vivessero in case che ufficialmente non esistevano. La corruzione della pubblica amministrazione non era purtroppo fenomeno nuovo per la storia d'Italia, costellata di piccoli e grandi scandali fin dai tempi dell'Unit�. Certo � tuttavia che l'espansione edilizia indiscriminata di quegli anni contribu� non poco a intrecciare pi� strettamente affari e politica. La pratica della bustarella venne elevata a sistema. Determinante fu anche la mancata costruzione di una adeguata ed efficiente rete di trasporti che, collegando le grandi citt� al resto della provincia, avrebbe ridotto la scarsit� di suoli urbani (e conseguentemente il loro valore di mercato) evitando probabilmente molte "pressioni economiche" sulle amministrazioni locali. Strettamente legato al problema dell'urbanizzazione � quello dell'immigrazione, a sua volta figlio di quello squilibrio tra Nord e Sud che il boom economico, lungi dal risolvere, aveva anzi decisamente acuito.
La "questione meridionale" ha attraversato la storia d'Italia fin dall'Unit�, ed � un problema gi� ben presente ai membri della Costituente nel 1947: l'economia meridionale soffre di un'industria scarsamente sviluppata e tecnologicamente arretrata, di una generale bassa produttivit� del lavoro, di una troppo alta percentuale della popolazione dedita all'agricoltura, a sua volta eccessivamente squilibrata sulla produzione cerealicola (il che la pone in bal�a delle fluttuazioni dei prezzi). La capacit� di accumulazione di capitale � scarsa e le infrastrutture totalmente insufficienti. La classe dirigente manca di mentalit� imprenditoriale, e a questo proposito va ricordato che le regioni meridionali non avevano conosciuto durante la guerra il fenomeno della Resistenza, e che ci� aveva sicuramente contribuito alla mancanza di un vero e proprio rinnovamento politico e amministrativo: nel Sud pi� che altrove la sopravvivenza della vecchia classe fascista o prefascista era risultata pi� facile. La "questione meridionale" � dunque scottante gi� nel primo dopoguerra, ma viene affrontata solo incidentalmente nella trattazione di temi come il regionalismo o il latifondo (cfr. art. 44 Cost.).
Da un lato � considerato un problema troppo grande per essere considerato all'interno di una logica di contingenza, dall'altro non � niente di pi� che un pretesto per la retorica del meridionalismo tradizionale. Ma � Napoli che presto diventa il centro propulsivo di un "nuovo meridionalismo", pi� moderno, che pone come problema centrale quello della sua industrializzazione. Molti economisti meridionalisti si impegnano a dimostrare che il Mezzogiorno non � un costo ma un investimento anche per il Nord. Capofila di questo movimento � la SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno, centro di studi e ricerche che riunisce diversi studiosi e politici di prestigio), che preme perch� il Mezzogiorno sia considerato come problema strutturale da risolvere all'interno di una politica di pianificazione economica generale.
E' dell'ottobre del 1950 la legge istitutiva della Cassa del Mezzogiorno, il cui nome evoca oggi sprechi immani di denaro pubblico, ma che era invece un tentativo molto serio e ben elaborato, sicuramente meritorio, frutto di una politica economica avanzata.
Gli interventi nel Mezzogiorno si orientarono in tre fondamentali direzioni: una politica delle infrastrutture, agevolazioni all'impresa privata, l'intervento diretto dello Stato. Il fallimento (anche se non totale) di questi tentativi � storia nota. Nasce in questi anni l'espressione "cattedrali nel deserto", a designare alcuni immensi insediamenti industriali sia pubblici (ad esempio l'Italsider di Taranto o l'Alfasud di Pomigliano) che privati (le raffinerie di Siracusa, la Montecatini di Brindisi) privi di connessione col tessuto economico e sociale circostante, perch� incapaci di generare indotto o di assorbire adeguatamente la manodopera locale, in quanto sbilanciati sul fattore tecnologia avanzata piuttosto che sul fattore lavoro. Quali che siano le cause - e sono molte - di questo insuccesso, proprio gli anni del "miracolo economico" furono i pi� drammatici per le popolazioni del Sud: tra il 1951 e il 1974 l'esodo fu impressionante: 4,2 milioni di meridionali (su un totale di 18 milioni) emigr� nel Norditalia. L'esodo pi� massiccio ebbe luogo proprio tra il 1955 e il 1963. (Al computo vanno aggiunti, nello stesso periodo, pi� di 550.000 italiani, per quasi tre quarti meridionali, emigrati nel Nord Europa, in particolare in Germania).
Una citt� non certo cosmopolita come Torino, su cui gi� convergevano i flussi di lavoratori provenienti dalla campagna depressa piemontese, assorb� una cos� alta percentuale di immigrazione (dal 1951 al 1967 pass� da 719.000 a 1.125.000 abitanti) da diventare la terza citt� "meridionale" d'Italia dopo Napoli e Palermo, con tutti i problemi di integrazione che si possono immaginare. Se � possibile trovare un risvolto positivo in questo immane sradicamento dalle proprie radici, esso forse consiste nella formazione di un patrimonio culturale comune, di un minimo di senso di identit� nazionale che andasse al di l� della appartenenza locale e del proprio dialetto.
Abbiamo dunque visto i costi del "miracolo" economico. Sull'altro piatto della bilancia sta uno straordinario aumento del reddito pro capite, la cui rapidit� � il principale motivo per cui il termine "miracolo" � tutto sommato giustificato. Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe pi� del 130% ( se poniamo come base 100 per il reddito del 1952, si passa a 234,1 nel 1970). In paesi come Francia e Inghilterra l'aumento nel medesimo periodo fu rispettivamente del 36% e del 32%. Parallelamente crebbe anche la capacit� di spesa e dunque , nonostante tutte le distorsioni cui si � fatto cenno, il tenore di vita. Nel 1958, i possessori di un televisore erano il 12%, nel1965 erano quattro volte tanto. Nel 1958, solo 13 persone su 100 possedevano un frigorifero e 3 su 100 una lavatrice: nel 1965 le percentuali erano del 55 e del 23. La diffusione della TV � un indicatore straordinariamente interessante dei risvolti sociali delle trasformazioni economiche.
Come ovunque in Europa, essa era allora un monopolio statale: divenuta subito un fenomeno di massa, in Italia si dimostr� uno strumento di potere non indifferente per la DC, a sua volta pesantemente influenzata dal Vaticano. Ma, come � stato giustamente osservato, se per la DC fu un'arma potente (non di rado l'informazione giornalistica conteneva forti pregiudizi anticomunisti), per la Chiesa si rivel� una lama a doppio taglio. Nonostante il controllo di fatto sulla censura, essa diede prova di scarsa lungimiranza usando tale strumento solo affinch� i programmi non raffigurassero "atteggiamenti, pose o particolari che sollecitino bassi istinti", senza accorgersi che attraverso la televisione si imponeva un modello di vita edonistico e consumistico in cui la religione non era affatto contemplata.
Scriveva Pasolini nel 1974 che il Vaticano avrebbe dovuto piuttosto censurare Carosello, il seguitissimo programma pubblicitario della Rai. In effetti era attraverso un programma sostanzialmente innocuo come Carosello che passava la secolarizzazione del paese, pi� che attraverso tante opere d'autore censurate solo per motivi di moralismo formale. Comune a tutti gli altri paesi occidentali fu poi il fenomeno della "privatizzazione" del tempo libero. Alla progressiva diffusione della TV nelle singole case corrispose un parallelo declino dell'uso collettivo e socializzante del tempo libero.
Sommato all'esodo dalle campagne, l'adesione al modello di vita consumistico comport� un declino della religiosit� davvero marcato, tanto da non passare inosservato nemmeno al tempo. Soprattutto nelle citt�, in primis nelle periferie, il distacco dal modello religioso tradizionale si tradusse fatalmente in un abbandono progressivo della pratica religiosa. Un'altra importante trasformazione, prodotto combinato di tanti fattori (emigrazione nelle citt�, imposizione del modello consumistico, maggior reddito disponibile, secolarizzazione) fu il mutato rapporto uomo-donna. Per le donne (del Sud in particolare) l'entrata nel mondo del lavoro - per quanto in posizione ancora svantaggiata rispetto agli uomini - rappresent� la prima forma di emancipazione dalla gerarchia familiare, rigidamente maschilista, nonch� di autonomia finanziaria. Rispetto al resto d'Europa, tuttavia, il destino di casalinga era quello che continuava a toccare alla maggior parte delle donne italiane: un effetto collaterale del benessere era infatti che a mantenere la famiglia bastava spesso solo il reddito del marito.
Se da una parte l'urbanizzazione distruggeva tutto il positivo della vita sociale rurale (le festivit� collettive, gli stretti rapporti interfamiliari e cos� via), per i giovani diminuivano le costrizioni e si allargavano alcuni spazi di libert�: la morale ufficiale era ancora imperante, ma le prime incrinature cominciavano a farsi strada. Ma, va ricordato, proprio sulle abitudini sessuali continuava a registrarsi una profondissima spaccatura tra un Nord sempre pi� emancipato e un Sud ancora legatissimo alla morale tradizionale. Quanto all'istituzione famiglia, comincia proprio con il boom economico la progressiva disgregazione della famiglia allargata a scapito di quella mononucleare e, come abbiamo gi� visto, della gerarchia interna per cui l'autorit� dei genitori sui figli e del marito sulla moglie si faceva meno opprimente. Il periodo 1959-1962 fu caratterizzato dai primi cospicui aumenti salariali nel settore industriale. Attorno al 1962 veniva raggiunta in molti settori la piena occupazione e l'aumento conseguente dei salari imponeva alle aziende il ricorso al credito esterno anzich� all'autofinanziamento.
L'aumento degli investimenti degli anni precedenti, sommato a quello (notevole) della propensione al consumo diede origine - fenomeno nuovo per l'Italia - a una inflazione per eccesso di domanda, alla quale la Banca d'Italia rispose con una stretta creditizia. Nell'ottobre del 1963 l'espansione economica toccava il culmine per entrare in una fase di depressione. Era la fine della favola. La storia corre veloce, e le trasformazioni sociali sembrano cos� rapide da risultare spesso indecifrabili. Il Sessantotto, celebrato o criticato che sia, viene giustamente considerato come un momento storico fondamentale della storia repubblicana, ma � forse dieci anni prima, con l'inizio del "miracolo" economico, che va individuata l'origine della vera rivoluzione che ha stravolto la societ� di un intero paese.
Se il '68 fu un momento di contestazione dello sviluppo, al tempo stesso ne fu un prodotto e ne espresse la crisi. Fu un momento di rottura con le istituzioni tradizionali (Chiesa, famiglia, scuola, ecc.) ma tale rottura sarebbe stata impensabile senza il terremoto sotterraneo che la secolarizzazione di massa aveva gi� prodotto dietro la facciata del conformismo imperante. Questione sottile � poi il determinare quanto le trasformazioni culturali siano state il prodotto di quelle economiche, o viceversa. Quello che � certo � che l'Italia della met� degli anni Sessanta, uscita quasi irriconoscibile da tutte queste trasformazioni, � per molti aspetti ancora parente stretta dell'Italia di oggi.
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di VALENTINO NECCO
Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di