I cinici maneggi delle grandi potenze
europee che nel 1915
trascinarono l'Italia nel conflitto mondiale
L'ITALIETTA
ANDO' ALLA GUERRA |
Sul ruolo protagonista ed eroico dell'Italia nella prima guerra mondiale s'� fatta molta retorica e molta disinformazione, s'� detto che questo conflitto (definito dallo storico Hermann Suderman "la pi� gigantesca imbecillit� che il genere umano abbia compiuto dal tempo delle Crociate") ha rappresentato la quarta guerra di indipendenza, logico seguito di quelle risorgimentali per l'unit� nazionale, � stato la grande lotta per la liberazione del Trentino e dell'Istria, la santa battaglia per la riunificazione di Trento e Trieste al corpo della Patria.
In realt� le cause di questo spaventoso incendio che ha devastato l'Europa dal 1914 a1 1918 sono ben pi� complesse e articolate, soprattutto, per quel che riguarda l'Italia, Paese comprimario pi� che protagonista, trainato pi� che trainante. Trainato da una situazione della quale gli alberi motore sono le grandi potenze europee tradizionali, l'impero austriaco, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, la Russia.
Nella contesa fra queste nazioni ci sono le radici del grande scontro. Indispensabile perci� fare il punto, sia pur molto sinteticamente, di questa situazione. Negli anni precedenti il 1914 la politica del cancelliere tedesco Otto von Bismarck, dopo la vittoriosa guerra contro la Francia, aveva portato alla creazione di uno strumento teso a garantire la conservazione della pace in Europa.
La "Triplice Alleanza", firmata nel 1882, che univa Germania, Austria, Italia.
Nel quadro del patto, l'alleanza fra gli imperatori russo, tedesco, austriaco e una politica di buoni rapporti con l'Inghilterra. Ma la convivenza non � facile. La tendenza degli imperi centrali all'espansione nei Balcani cozza contro le aspirazioni dello Zar su questi territori.
L'Inghilterra dal canto suo vede con preoccupazione un altro interesse della Russia, quello per l'Estremo Oriente, e con altrettanta preoccupazione il veloce sviluppo della potenza economica, commerciale e militare della Germania che, con la politica di espansione mondiale ispirata dall'imperatore Guglielmo II, tende a conquistare anche i mercati mediorientali.
In allarme anche la Francia, dati i precedenti. Considerata il quadro, gli inglesi si muovono per non trovarsi presi in contropiede. Bloccano l'azione della politica zarista verso l'Estremo Oriente facendo un'alleanza col Giappone (1902) e avvicinandosi alla Francia, che a sua volta aveva cominciato a seminare zizzania nella "Triplice" facendo alcune convenzioni con l'Italia, la pi� interessante delle quali dava via libera al governo italiano per la conquista della Libia in cambio della nostra neutralit� in caso di attacco alla Francia.
Nell'aprile del 1904 Francia e Gran Bretagna si legano con un'alleanza informale, l'"Entente cordiale", l'Intesa cordiale. Nell'agosto del 1907 sensazionale voltafaccia della Russia: lo Zar stipula un'alleanza con l'Inghilterra. La spinta all'accordo viene dalla sconfitta in Estremo Oriente, dal bisogno di pace dopo i primi moti rivoluzionari del 1905, che fanno vacillare il trono dell'imperatore Nicola II, dall'abbandono inglese del dogma dell'intangibilit� della Turchia, Paese che sta entrando sempre pi� nella sfera di influenza germanica. Dopo la modifica dei due blocchi - che vede contrapposte Italia, Germania, Austria, legate dalla Triplice Alleanza, e Inghilterra, Francia Russia, unite informalmente nell'Intesa - seguono alcuni anni di bonaccia durante i quali tuttavia non mancano momenti critici. Il pi� grave l'annessione, nel 1908, della BosniaErzegovina da parte dell'Austria. L'episodio provoca l'indignazione della Russia, alla quale si uniscono Londra e Parigi, e violente manifestazioni dei nazionalisti serbi. Il conflitto viene evitato soltanto a causa dell'impreparazione militare dell'esercito zarista. Il blitz del vecchio imperatore Francesco Giuseppe riesce indigesto anche all'Italia, gi� diffidente nei confronti dell'Austria per la sua politica balcanica: anche a Roma ci sono in lievitazione interessi sui Balcani. Una pace in equilibrio instabile, insomma. Tanto instabile da precipitare disastrosamente a causa di un attentato: il 28 giugno 1914 viene ucciso a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina dove si trova in visita l'arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono. L'assassino � lo studente Gavrilo Princip, membro di un'associazione patriottica serba. L'Austria, che nel delitto vede l'espressione provocatoria della politica serba scopertamente tesa alla conquista delle province slave meridionali, decide (ma, stranamente, a distanza di un mese dall'episodio) di liquidare la piccola nazione che minaccia la stabilit� della parte balcanica dell'impero austriaco.
La Germania d� l'assenso all'operazione: Guglielmo II � convinto che si tratti di una guerra lampo del tutto limitata ai due contendenti. Invece � la scintilla che d� il via al grande massacro. Dal 20 al 23 luglio lo zar di Russia, avuta la garanzia dell'appoggio francese, ordina la mobilitazione delle sue truppe. Il 28 l'Austria, dopo un ultimatum, dichiara guerra alla Serbia. Il primo agosto dichiarazione di guerra della Germania alla Russia in seguito al rifiuto dello zar di smobilitare, come da richiesta fatta dall'imperatore Guglielmo II. Due giorni dopo il governo francese ordina a sua volta la mobilitazione e la Germania dichiara immediatamente guerra anche alla Francia. Fra il primo e il 4 agosto l'esercito tedesco viola la neutralit� del Belgio e del Lussemburgo, Paesi legati all'Inghilterra: scatta il conflitto anglogermanico. Dopo l'inizio delle operazioni militari Inghilterra, Francia e Russia formalizzano la loro alleanza con il Patto di Londra il 4 settembre 1914. Cos� commenta Lenin, in uno dei suoi scritti, il precipitare degli eventi:
"Occhi molto avveduti avrebbero potuto, prima dell'agosto 1914, avvertire da molti segni che un profondo spostamento si era andato creando nell'equilibrio, sia economico che politico, fra le maggiori potenze d'Europa e del mondo.
Il Regno Unito, che fino al 1870 aveva goduto di un primato indiscusso nel commercio internazionale, e che trovava la pi� sicura difesa e garanzia di questo primato nel dominio incontrastato dei mari, per mezzo della sua potentissima marina militare e mercantile, vede dopo quell'anno salire con rapidit� impressionante la produzione delle industrie tedesche e la loro esportazione in tutti i mercati del mondo, compreso quello inglese. Ma soprattutto i progressi della Germania furono sentiti in Inghilterra come una grave minaccia quando Guglielmo lI volle fare del suo impero una grande potenza marinara con un programma di costruzioni navali che in un tempo relativamente breve avrebbe dovuto assicurare alla Germania una marina da guerra tale da contrastare agli inglesi il dominio dei mari".
Mentre l'Europa sta lacerandosi nelle prime battute dello scontro, l'Italia conserva una prudente neutralit�. Sullo Stato gravano ancora le conseguenze finanziarie, notevolmente pesanti, della guerra di Libia (1911), che, pur avendo dato al nostro Paese la Libia, "granaio" d'Italia ai tempi dell'antica Roma, era durata molto pi� del previsto.
La situazione economica era gi� pesante dopo il terremoto di Messina del 1908, che aveva avuto come costo, in opere di ricostruzione, 107 milioni (cifra stratosferica a quei tempi): nel 1909-1910 il bilancio era andato in deficit e la lira aveva perso la parit� con l'oro. La struttura fondamentale del sistema fiscale pesa soprattutto sui ceti meno forti colpendo i beni di largo consumo (rimasta inascoltata una proposta di Giolitti - 1909 - per un drastico aumento dell'imposta sul reddito e della tassa di successione) e perci� l'anima popolare non � sensibile ai primi fremiti bellicosi che si fanno sentire qua e l� anche in ltalia. Non che la classe dirigente sia aliena da tentazioni belliche per realizzare delle contropartite territoriali o dall'uno o dall'altro dei due blocchi, ma l'anno 1914 non � certo dei pi� favorevoli per servire alla popolazione il piatto della guerra. Gli italiani stanno vivendo un momento drammatico della loro storia sociale, sono nel pieno della problematica scatenata dal lento passaggio della civilt� contadina alla civilt� industriale, una fase che vede esasperate contraddizioni, l'inasprirsi della legge del profitto sotto la spinta della trionfante filosofia della produttivit�, tipica della societ� industriale. Ed � proprio nel 1914 che il governo Salandra, formato in marzo, si trova davanti un test preoccupante, che rivela umori popolari decisamente anti interventisti: lo scoppio della "settimana rossa " (giugno). "Sotto questo nome un po' troppo impegnativo - scrive Giuliano Procacci in "Storia degli italiani", Laterza editore - si � soliti designare un moto di piazza che, con tutti i caratteri dell'improvvisazione e della spontaneit�, sconvolse per una settimana il Paese ed ebbe per epicentro la Romagna e le Marche, una zona in cui l'opposizione anarchica, socialista e repubblicana aveva profonde radici. Fu una rivoluzione provinciale, guidata da duci provinciali - i romagnoli Benito Mussolini, Pietro Nenni e l'anarchico Errico Malatesta - animata da passioni provinciali e municipali, quasi una versione proletaria e popolaresca dei moti che nel 1830-31 si erano avuti nelle stesse regioni contro il governo pontificio.
I grossi centri industriali e operai del Paese, chiamati a scendere in sciopero generale per solidariet� con gli insorti di Ancona e delle Romagne, risposero solo in parte all'appello del partito socialista e della Confederazione generale del lavoro.
"Se la "settimana rossa" non era una rivoluzione, e per certi episodi essa era stata addirittura una caricatura della medesima, ci� non imped� che essa apparisse un minaccioso sintomo rivoluzionario a quei conservatori che della rivoluzione avevano una visione altrettanto approssimativa quanto quella di molti rivoluzionari del momento. Tale era Salandra, che fece inviare nelle Romagne l00.000 uomini e tale era anche il re, che rimase fortemente impressionato dai pronunciamenti repubblicani cui la "settimana rossa" aveva dato luogo". Deciso no alla guerra, dunque. La maggioranza del Paese si rende conto che gli ardori interventisti sono espressione esclusiva degli interessi della grande borghesia imprenditoriale nazionale e internazionale.
A provare questa chiarezza di idee della gente, soprattutto contadini e operai, basta ricordare lo scarsissimo successo raccolto da Cesare Battisti, irredentista di Trento (che in seguito si arruoler� nell'esercito italiano; catturato in zona d'operazioni, verr� condannato per alto tradimento, essendo suddito austriaco, e impiccato nel castello del Buon Consiglio, nella sua citt�) venuto in Italia per un giro di propaganda antiaustriaca: gli rispondono ovunque riusciti e affollatissimi comizi socialisti che rifiutano con decisa chiarezza il suo infuocato bellicismo. D'altronde lo stesso Salandra ammetter� francamente, nel maggio del 1915, alla vigilia dell'entrata in guerra, che la grande maggioranza degli italiani � contraria all'intervento, e non c'� nessuno che in questo non sia d'accordo con lui.
A livello della dirigenza politica i giudizi sulle possibili reazioni popolari in caso di guerra sono discordi. In una lettera del 9 agosto 1914 Sonnino, che di l� a qualche mese sarebbe diventato ministro degli Esteri, scrive a Salandra, presidente del Consiglio, sulla necessit� di mobilitare comunque perch� "� tanta disoccupazione in meno e tanto meno pericolo di disordini e di opposizione a qualunque provvedimento d'urgenza". Al contrario uomini come Di Sangiuliano, ministro degli Esteri in carica fino all'ottobre 1914, e Giuseppe Avarna, ambasciatore a Vienna fino al maggio del 1915, sostengono che si corre il rischio di accendere le polveri di una vera e propria "rivoluzione sociale".
Una dirigenza politica incerta, esitante, di un conservatorismo ottuso, incapace di capire la crisi socioculturale nella quale si sta dibattendo il Paese, incapace di risolvere i problemi di bilancio con una politica economica che non sia soltanto impostata sul prelievo sistematico dalla massa dei piccoli contribuenti: questa la caratteristica del gruppo che si trova nella "stanza dei bottoni, dal quale il Paese attende di sapere il destino che lo aspetta. Fra Paese reale e classe di governo, i nazionalisti, accesi sostenitori dell'intervento. Quali siano gli interessi che muovono, con sostanziosi finanziamenti, questa massa d'urto potente anche se minoritaria, non � difficile da stabilire.
"Senza dubbio alcuni, settori interessati alle fabbricazioni militari - osserva Ernesto Ragionieri ("Storia d'Italia ", Einaudi editore) - rimasero all'inizio perplessi e incerti di fronte alla prospettiva dell'intervento, e da molte parti si vide nella neutralit� una condizione ottimale per incrementare gli affari� assai pi� combattive si dimostrarono, fin dall'inizio, le forze economiche emerse e rafforzatesi con il processo di concentrazione degli anni successivi alla crisi del 1907.
Insofferenti delle forme e delle istituzioni parlamentari, dei controlli che esse comportavano, tali forze premevano per una politica di espansione territoriale, cercando in ogni modo di conquistarsi nuovi e pi� ampi spazi di potere nello Stato e sullo Stato, nella prospettiva di un rafforzamento del protezionismo e di una dilatazione delle "commesse "pubbliche di cui si erano nutrite e ingrassate, esasperando temi e toni della lotta politica...
"Una volta di pi� appare chiaro che i nazionalisti costituirono la chiave di volta di tutto l'interventismo. Essi approdarono alla tesi dell'intervento a fianco dell'Intesa, dopo aver sostenuto in un primo tempo l'allineamento con gli Imperi centrali, palesando - come del resto altri settori dello schieramento politico - una chiara volont� di partecipare alla guerra non tanto per obbiettivi precisi, quanto per uscire dalla crisi nella quale la societ� italiana si dibatteva...Ecco perch� nell'interventismo confluirono come in un crogiuolo uomini e tendenze politiche di provenienza cos� diversa, e perch� in esso si realizzarono tante conversioni, altrimenti difficilmente spiegabili".
Protagonista di una di queste "conversioni" � Benito Mussolini, che nel 1914 ritroviamo direttore dell'organo del partito socialista, l'"Avanti!", dalle colonne del quale il rivoluzionario romagnolo si � furiosamente battuto contro la guerra. Il 20 ottobre Mussolini presenta alla direzione del suo partito un ordine del giorno nel quale si propone l'assunzione di una posizione pi� "flessibile" nell'eventualit� di una guerra. Documento respinto seccamente. Mussolini si dimette e il 15 novembre esce con un suo giornale, il "Popolo d'Italia", dal quale scatener� una campagna interventista. Dietro il "tradimento", che costa al suo protagonista l'espulsione dal partito socialista, "un grosso rotolo di biglietti da mille" consegnato dall'ambasciatore francese a Roma (come ricorda il Borghi in "Mezzo secolo di anarchia", Edizioni ESI, Napoli: ma questa versione, anche se accettata dai pi� viene contestata da altri) con la mediazione di Marie Rygier, accesissima anarchica convertita all'interventismo.
Alla base dell'episodio s'identificano gli interessi dell'imprenditoria e della finanza francesi e di gruppi di industriali italiani. Sotto la poderosa spinta delle manifestazioni interventiste, che riescono a mobilitare grandi folle di studenti e di piccoli borghesi solleticando l'amor di patria, giocando sugli antichi rancori contro l'Austria e il vecchio "tiranno" Francesco Giuseppe, che "tiene schiavi" ancora tanti italiani a Trento e a Trieste, il tentennamento nella "stanza dei bottoni" comincia ad avere qualche battuta d'arresto (ma va ricordato che contro 60 deputati interventisti ce ne sono 300 decisamente sfavorevoli alla guerra). Se ne rendono conto gli Inglesi, i Francesi e anche i Tedeschi: tutti intensificano il gioco diplomatico nei confronti dell'Italia per conquistarla ognuno al proprio blocco (ma il nostro Paese fa gi� parte della "Triplice", alleanza che ha rinnovato nel 1912). A questo perverso gioco partecipa, lavorando sotto traccia, anche la massoneria. La Gran Bretagna si limita all'attivit� diplomatica, ma la Germania e la Francia, che in Italia dispongono di numerosi agganci tanto nell'economia quanto nella politica e nella cultura, non vanno tanto per il sottile e scatenano pressioni e ricatti di ogni genere, campagne diffamatorie l'una contro l'altra allo scopo di orientare l'opinione pubblica in questa o in quella direzione.
Nella gran "bagarre", che vede massicciamente alla prova d'esame i giornali nella veste di strumenti-pilota dell'opinione pubblica, ha la meglio il "partito" dell'Intesa, che denuncia lo strapotere tedesco in Italia, il quale, ancora una volta, con l'"oro di Berlino", tenta di invadere e conquistare il nostro Paese. Di fronte alla vecchia paura dell'invadenza del "secolare nemico tedesco" e al richiamo al prestigio nazionale, le masse interventiste si agitano sempre pi� violentemente e premono sul governo con slogan minacciosi: "Rivoluzione se non ci sar� la guerra!" urlano nelle piazze i nazionalisti, rivolgendosi al potere ufficiale. "La neutralit� � per i castrati" irridono, apostrofando gli anti interventisti. A questo punto il governo Salandra, attraverso il ministro degli Esteri Sonnino, presenta il conto sia alla "Triplice" che alla"Intesa".
Le richieste: restituzione del territorio a nord fino al Brennero e a est fino alle vette delle Alpi Giulie, Istria compresa; tre quarti delle province austriache della Dalmazia e la baia di Valona (Albania) con il suo immediato entroterra. L'acquisizione di questi territori assicura all'Italia una frontiera difendibile facilmente e il controllo dell'Adriatico. D'accordo, salvo qualche eccezione sollevata dalla Russia per le pretese italiane sulla Dalmazia ("una sfida alla coscienza slava"), i membri della"Intesa". L'Austria e la Germania offrono soltanto il Trentino. Il 26 aprile Sonnino firma il patto di Londra, il 4 maggio viene denunciata la Triplice". Il 24 maggio 1915 l'Italia entra nel gioco del "grande massacro", che coster� agli Italiani circa 700.000 morti e quasi un milione di feriti.
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