La crisi economica e i contrasti sociali del dopoguerra generano un fenomeno politico: il fascismo, che cambier� il volto del Paese |
MUSSOLINI
CAVALCA IL MALCONTENTO
E NE APPROFITTA
Nelle precedenti puntate dell'anno 1919, avevamo accennato più di una volta, alla nascita del "Movimento dei Fasci Italiani di combattimento" costituito durante una riunione convocata da BENITO MUSSOLINI in un circolo di piazza San Sepolcro a Milano, il 23 marzo 1919. Due giorni prima si era costituito il Fascio di Milano cui è affidata la stesura del programma del movimento, improntato ad un generico operaismo e incentrato con retorici incoraggiamenti a D'Annunzio, sulla rivendicazione "nazionalistica" di Fiume e della Dalmazia.
La riunione doveva svolgersi al Teatro Dal Verme, ma viste le poche adesioni, si svolse in una saletta messa a disposizione dal presidente del Circolo Interessi Industriale, Goldman.
Forse per questo che il 1° agosto, cambierà il sottotitolo del suo "Il Popolo d'Italia"; da "quotidiano socialista" � lo sottotitolerà� "Quotidiano dei combattenti e dei produttori" (poi il 1� gennaio del '21, sar� ancora pi� esplicito e mette il motto di Blanqui� "Chi ha del "ferro" ha del pane" . Gli industriali siderurgici che lo finanziano possono essere più che soddisfatti)
(Una curiosit�: C'erano anche 5 industriali ebrei a questa riunione, e Goldman era uno di loro. Ma anche a Fiume con d'Annunzio c'erano ebrei, fra cui Aldo Finzi che divenne poi nel fascismo, sottogretario agli interni; e c'era pure Dante Almansi che fu poi vice capo della polizia. Ebrei ci saranno ancora dentro il fascismo nel 1936 alla guerra d'Etiopia; uno di loro (Alberto Liuzzi) fu perfino decorato di medaglia d'oro. Questo per sconfessare coloro che sostengono che fin dall'inizio nella ideologia del fascismo c'era del razzismo e dell'antisemitismo).
Mussolini vuole imprimere al suo movimento un indirizzo fortemente antisocialista. Lui o i suoi seguaci vogliono essere così coerenti nel respingere il diffuso massimalismo nelle file socialiste che -per togliere ogni dubbio a chi li ha- tre settimane dopo, il 15 di aprile, un gruppo di fascisti e di arditi durante l'ennesimo sciopero generale a Milano, dopo gli scontri, andò ad incendiare l'"Avanti !", il giornale del Partito di cui Mussolini stesso era stato il direttore negli anni della sua militanza socialista.
Da allora, dal 1914, fra lui e i socialisti, si era creata una distanza ormai di anni luce; c'era stata la guerra, e come i socialisti in Germania anche Mussolini l'aveva appoggiata (predicando l'intervento come presupposto della rivoluzione sociale - Naldi l'aveva convinto: che dopo la guerra la rivoluzione proletaria sarebbe stata sicuramente facilitata); c'era poi stata la Rivoluzione in Russia (che, aveva ragione Naldi, il logoramento dei soldati l'aveva facilitata, ma non era "quella" la rivoluzione che sognava l'ex "rivoluzionario" di Forlì); era poi finita la guerra (con l'Italia vittoriosa, e orgogliosa degli eroi del Piave); ed erano (a parte quelli a caldo, nostrani) sorti imbonitori come Lenin da una parte e Wilson dall'altra (del primo sappiamo le idee, ma il secondo a Milano con un'aria messianica e istrionica, pronunciò (facendo quasi concorrenza ai miti della "rivoluzione proletaria") un caldo discorso "inneggiante all'avvenire delle classi lavoratrici".
Tuttavia alla fine del conflitto, il partito socialista che aveva sempre rinnegato la guerra, riuscì a tirare a sé vasti gruppi di reduci scontenti, che si lasciavano facilmente incantare dalle prime confuse e apologetiche notizie che giungevano dall'Est.
Le masse operaie, quelle contadine, ora tutti ex combattenti, avevano perduto il ricordo della lotta di classe, la trincea li aveva trasformati tutti in soggetti pragmatici, ma erano ancora ubbidienti ai socialisti e alle varie confederazioni del lavoro; ma sempre meno, perché anche chi aveva il lavoro, nella grave crisi in cui si dibatteva il Paese, i protettivi sindacati poco potevano fare, e quel poco lo facevano male, inasprendo i rapporti fra lavoratori e gli industriali. Tuttavia fra le incertezze e le divisioni al loro interno su come agire, il PSI alle elezioni di novembre di questo 1919, era il primo partito italiano con 32,4%., seguito dai Popolari con il 20,6. Mussolini invece che si era agitato tanto con i suoi fasci, ebbe una cocente delusione. Certi anonimi operai presero più voti di lui. Ottenne 4657 voti, contro i 170.000 dei socialisti e i circa 74.000 dei popolari di don Sturzo nella stessa circoscrizione dove si era presentato (ne parleremo ancora, più avanti).
Ma non demorde, Mussolini vuole ad ogni costo trovarsi uno spazio politico per arrivare in Parlamento. A finanziarlo ci sono già alcuni importanti gruppi industriali privati (acciaierie Ansaldo, Ilva e altri). Industrie cruciali, che in Russia sono state le prime ad essere collettivizzate. Ovvio che si sta diffondendo molta, moltissima inquietudine; e sta iniziando in sordina, senza compromettersi troppo, la "controrivoluzione" dei borghesi-capitalisti non liberali. A favore di Mussolini quindi c'è innanzi tutto un aiuto concreto del capitalismo non liberale, della grande proprietà terriera, e ci sarà poi anche l'appoggio (o la connivenza) di qualche (ormai) debole politico, messo da parte all'entrata in guerra ma che sembra risorto in questo dopoguerra. Rispunta cioè Giolitti (78 anni, nato ai tempi di Carlo Alberto! Ma in Italia non c'era di meglio) che è convinto di potersi servire di Mussolini, e lo introduce nel gioco politico; infatti favorirà la presenza nella sua lista (il "Listone") nelle elezioni del 1921, ponendo fine agli equilibrismi degli unici due blocchi rimasti sulla scena politica a contendersi (perfino al loro interno): i due partiti di massa: il cattolico e quello socialista.
Abbiamo qui anticipato brevemente molti avvenimenti del 1919, per entrare nel clima di questo primo anno del cosiddetto "biennio rosso". Ma ora lo analizziamo meglio.
Esporre in un capitolo sintetico il periodo che va dalla battaglia di Vittorio Veneto (ottobre 1918) alla nascita del Fascismo (anche se la sua settimana storica è dell'ottobre-novembre 1922), non è certo cosa agevole, data l'enorme ed imponente mole di fatti, che troppo spazio richiederebbero, anche nel dare, soltanto nelle linee generali, l'idea dei principali avvenimenti del triste periodo post-bellico (ma i libri non mancano per chi vuole approfondire - e nella bibliografia ne citiamo solo alcuni).
Saremo quindi costretti ad accennare, appena per sommi capi, il carattere storico di quegli anni in cui, mentre da un lato precipita sempre più rapida la degenerazione del Governo demo-liberale, impotente a dominare la situazione creatasi nel dopoguerra, dall'altro il Fascismo sorge e gradatamente e tenta di affermarsi come l'unica forza capace di risollevare l'Italia dal marasma in cui l'ha piombata il dopo-guerra, la crisi economica, le incapacità politiche e il socialismo imperante, poco marxista ma tanto bolscevico. Quest'ultima corrente dentro i socialisti, in Italia, inseguendo le teorie leniniste, ben presto viene a trovarsi nel Psi insofferente, e prossimo (gennaio 1921, nascita del PCI) ad una divisione fra riformisti e rivoluzionari, dopo che si era svolto il 23 luglio a Pietroburgo e a Mosca il II congresso dell'Internazionale.
LE TRISTI CONDIZIONI DEL 1919-20
Finita la guerra, il bolscevismo russo, che voleva creare a sé uno sbocco nell'Europa occidentale e quindi anche in Italia, favorì con danaro e con ogni mezzo il sovversivismo nostrano che, sfruttando le tristi condizioni economiche del periodo del dopoguerra, tentava in qualche modo di impadronirsi dello Stato.
Del resto si era ancora alle idee di Tkacev, che nell'esporre le condizioni di successo di una rivoluzione, scriveva ad Engels "Basteranno due o tre disfatte militari, alcune insurrezioni contadine simultanee in due tre province e un insurrezione aperta nelle città, in tempo di pace, perché il governo rimanga completamente isolato e abbandonato da tutti. Mille rivoluzionari decisi a tutto, e la rivoluzione è fatta"(P.N. Tkacev, Socineija, II, p. 277).
Infatti, furono proprio queste circostanze che portarono al primo esperimento rivoluzionario in Russia del 1905 e del 1917. In Russia però!
Idee e manovre simili -finita la guerra- ci furono -e le abbiamo già accennate in altre pagine- pure in Europa: nella Germania sconfitta con la lotta degli spartachisti, in Ungheria con Bela Linder, in Baviera e altri paesi, ma sempre senza successo, perché in Europa il capitalismo c'era ed era forte, ma non così in Russia. Qui andò bene (la rivoluzione, ma non il suo futuro a lungo termine) perché fu facile, prese, infatti, la scorciatoia; buttò dalla porta l'inetto Stato burocratico creato dallo zarismo, e fece entrare dalla finestra l'inetto Stato burocratico creato dal partito.
Eppure proprio MARX nella prefazione del Capitale, scriveva che "una società non può né saltare né eliminare per decreto le "fasi naturali" dello svolgimento".
Qualche economista in Russia lo aveva letto, visto che ZIBER scriveva pure lui che "�le "fasi naturali" dello sviluppo non potevano essere né soppresse né abbreviate: quindi anche la Russia avrebbe dovuto passare necessariamente prima attraverso il capitalismo".
Lenin prima che crollasse tutto, corse sì ai ripari, e richiamò i burocrati zaristi, ma non poteva richiamare i capitalisti, né un management economico né industriale, perché questi in Russia non c'erano.
E se vogliamo dare una diretta testimonianza che un movimento di siffatta portata sociale tendente a sconvolgere dalle fondamenta l'intero assetto sociale, era (a lungo termine) condannato all'insuccesso se non era contemporaneo oltre le stesse frontiere naturali delle razze, e quindi mondiale, ricorriamo a certe affermazioni di LOSOWSKI, nel 1920, presidente dei sindacati operai della nascente Russia sovietica. In un colloquio avuto con dei giornalisti occidentali ("capitalistici") recatisi a studiare l'organizzazione del regime comunista russo.
Il colloquio lo riprendiamo da un libro pubblicato nel 1921 (che l'Autore di Cronologia, possiede in originale) scritto da Italo Caracciolo, titolo "Bagliori di Comunismo - La guerra dei contadini". Losowski ai giornalisti, ammise che " I rapporti economici fra i diversi centri di vita e di produzione non ammettono la contemporanea esistenza di organizzazioni sociali così antagoniste. Il comunismo o sarà internazionale, o non sarà che un effimero tentativo. Se la sperata rivoluzione europea non avviene, la rivoluzione bolscevica russa è condannata a perire. Non possiamo sussistere se il comunismo non si propaga dappertutto. Se rimarremo soli, fatalmente cadremo. Come si potranno conciliare nelle relazioni commerciali l'economia comunista e quella borghese? Nella vita economica internazionale valgono le leggi dei vasi comunicanti; perciò, o noi saremo costretti ad accettare le vostre leggi, o voi le nostre, e ciò in un breve periodo di tempo. Per salvare le nostre conquiste dobbiamo guadagnare tempo, utilizzare anche il più breve respiro, altrimenti è la morte". (era il 1920, non il 1990!).
Ma se non c'era in Russia il capitalismo, c'era in Italia, modesto ma c'era, e Mussolini anche lui come Ziber, già nel 1915 su Utopia scriveva: "I socialisti commettono un gravissimo errore, credono che il capitalismo ha compiuto il suo ciclo. Invece il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni. Il capitalismo ci presenta una realtà a facce diverse: economica, prima di tutto".
Ma ancora prima, sempre su Utopia, del 15 gennaio 1914, scriveva: "Nella mente del proletariato, la "coscienza teorica" del socialismo sarà sempre amorfa, rudimentale, grossolana: come non c'è bisogno per essere buoni cristiani di aver letta e capita tutta la teologia, così si può essere ottimi socialisti pur ignorando i lavori e i capolavori della letteratura socialista, pur essendo completamenti analfabeti. I "sans-culottes" che mossero all'assalto della Pastiglia probabilmente non avevano nessuna "coscienza teorica" .
Poi nel 1917 frenando gli entusiasmi delle prime trionfalistiche notizie dalla Russia, scriveva: "....La rivoluzione non è il caos, non è il disordine, non è lo sfasciamento di ogni attività, di ogni vincolo della vita sociale, come opinano gli estremisti idioti di certi paesi; (il riferimento alla Russia è chiaro. Ndr) la rivoluzione ha un senso e una portata storica soltanto quando rappresenta un ordine superiore, un sistema politico, economico, morale di una sfera più elevata; altrimenti è la reazione, è la Vandea. La rivoluzione è una disciplina che si sostituisce a un'altra disciplina, è una gerarchia che occupa il posto di un'altra gerarchia" (1917, 26 luglio, Il Popolo d'Italia).
Agli operai poi, nel 1921, quando la svolta fu decisamente tutta a destra (e i primi fallimenti in Russia di Lenin erano ormai risaputi), MUSSOLINI così affrontò il proletariato: "La parola socialista nel 1914 aveva un senso, ma ora è anacronistica..... bisogna esaltare i produttori perché da loro dipende la ricostruzione.... e ci sono proletari che comprendono benissimo l'ineluttabilità di questo processo capitalistico....produrre per essere forti e liberi...." - "le dottrine socialiste sono crollate, i miti internazionalistici caduti, la lotta di classe è una favola". Voi non siete tutto, siete soltanto una parte, nelle società moderne. Voi rappresentate il lavoro, ma non tutto il lavoro e il vostro lavoro é soltanto un elemento, nel gioco economico. Finché gli uomini nasceranno diversamente "dotati", ci sarà sempre una gerarchia delle capacità". - "Non basta essere in tanti, ma si deve essere preparati".
Sempre su "Il Popolo d'Italia" del 15 gennaio 1921 così scriveva: "La società capitalistica ha realizzato quel tanto di socialismo che le poteva giovare e non si avranno ulteriori progressi in tale direzione. Il capitalismo non è soltanto un apparato di sfruttamento, come opina l'imbecillità pussista (PSU - Nda): è una gerarchia; non è soltanto una rapace accumulazione di ricchezza; è un'elaborazione di valori, fattasi attraverso i secoli. Valori, oggi, insostituibili. C'è chi pensa, e noi siamo del numero, che il capitalismo è appena agli inizi della sua storia. Appare sempre più evidente che il proletariato si farà rimorchiare dalle minoranze "capitalistiche", con le quali si accorderà ad un dato momento per dividere il bottino, escludendo i parassiti di destra e di sinistra, che vivono in margine alla produzione".
Torniamo al 1919. L'Italia, nonostante non fosse nella lista nera delle nazioni perdenti, i tempi erano ostili. Per gli Italiani erano tempi che dall'esterno subivano dagli Alleati affronti che erano quasi oltraggi ("si accontentino di non aver più alle spalle gli austriaci" - Wilson) e come se non bastassero quelli, all'interno molti che avevano in qualche modo contribuito a sventare un grave pericolo (mancò poco con l'Austria al di qua del Piave e del Mincio e chissà fin dove) ricevevano insulti, venivano devastati circoli e associazioni di ogni tipo, s'insultavano i militari in divisa, si distruggevano i migliori ricordi di lotte e sacrifici, bollandoli tutti come azioni delinquenziali.
In questi casi che faceva il Governo d'Italia? Preparava gli onori a Wilson. E Wilson venne in Italia, ed ebbe onori, trionfi, lauree, cittadinanze, e fu creduto il Messia della pace. Ma ben presto nella conferenza di Parigi si conobbe la vuota democrazia, che dominava a sensi unici, che calpestava i patti e annullava il sacrificio di tanti Caduti. Clamenceau fu anche, insolente, disse che l'Italia si comportava da "capricciosa", da "ambiziosa". Ma se l'Italia si fosse schierata nel '14, con la Triplice, come avrebbe potuto la Francia respingere alla Marna (quasi alle porte di Parigi) il blitz dei tedeschi? Nessun politico italiano ebbe l'ardire di ricordarlo a Versailles. E Clamenceau ovviamente non rispose.
Ma a parte questo, c'era inoltre anche un servaggio spirituale da cui l'Italia doveva liberarsi se voleva veramente mirare ad essere una nazione moderna.
Per troppo tempo si era andato dicendo che tutto quello che era straniero, tutto quello che proveniva dalla Francia, dall'Inghilterra o si diceva era Vangelo; si disprezzava in questi casi ciò che si presentava come prodotto genuino del genio italiano. Era dunque l'ora che il popolo italiano imponesse anche la liberazione da ogni asservimento allo straniero. E non era solo un "capriccio", era dignità.
Ma al Governo Italiano, ai dirigenti della cosa pubblica -nonostante la conclusione vittoriosa della guerra- mancava il coraggio, mancava la forza, mentre il concetto di libertà era interpretato come licenza. D'altra parte le condizioni economiche erano disagiate: le masse operaie malcontente si lasciavano trascinare dai mestatori, la massa grigia andava dietro la corrente o ascoltava il tribuno di turno, senza neanche una parola di protesta.
Ma non bastava. Mentre il 12 gennaio a Milano s'indicevano dai socialisti comizi per protestare contro gli imperialismi italiani (ma dopo, a Versailles tutti videro chi erano gli imperialisti!, non certo gli italiani!), con l'amnistia cagoiesca del settembre ai disertori, ritornava sul fante quell'onda di fango che aveva saputo ricacciare dopo Caporetto e che sul Piave aveva trasformato in eroismo.
Si passa sulle ossa dei martiri e si calpestano le tombe; gli agitatori inscenano chiassate per gli amnistiati, come avvenne a Milano per Serrati il 27 febbraio, mentre la vita diventa sempre più insopportabile per il prezzo dei generi di prima necessità che aumentano sproporzionatamente, e nessuno è capace di mettere un freno all'ingordigia dei nuovi ricchi e degli arrivisti, i quali, cessate le forniture militari, e con queste, dopo aver fatto un sacco di soldi, seguitano ad arricchirsi speculando e a frodare il pubblico deteriorando ogni genere, mentre il fante, dopo 4 anni di trincea, troncati gli studi, troncato l'impiego, tornato a casa, non ha che il nome di "ex combattente" che gli suona di scherno e insulto; "Lui ha combattuto, e per niente, bel fesso!".
Le esaltazioni frenetiche della Russia adescano le masse; le agitazioni di tutta l'Europa dopo la pace hanno fatto venire a galla tutto il putridume sociale, che impunemente e impudentemente briga per arraffare tutto quello che i combattenti hanno conquistato, ma che loro nel disorientamento generale non possono rivendicare.
Poi a questi si aggiunsero altri a rivendicare ciò che già possedevano e che stavano perdendo; i denari e il lavoro.
Così gli scioperi furono numerosissimi. Metallurgici e tranvieri, lavoratori della mensa e lavandaie, stiratrici e maestri, tutte le arti, tutti i mestieri; in tutte le industrie nel 1919 i lavoratori non fecero altro che agitarsi proclamando scioperi.
GLI "SCIOPERI DI SOLIDARIETA'"
Dalle Camere del lavoro usciva il verbo di vita o di morte. Non esisteva altra autorità, non veniva rispettato nessun altro ordine. Era l'esaltazione della forza materiale; svalutata l'intelligenza, svalutato il sapere, svalutati tutti i sentimenti di sacrificio, di gloria e di fama, non si vide più la felicità sui volti; il benessere il piacere era solo nei volti di chi stando in casa "imboscato" si era spartito i beni e ora se li teneva ben stretti.
Così dai tumultuosi comizi si passava agli scioperi "di solidarietà" ed il Governo debole, inetto ed ingiusto, piegava la schiena, lasciava fare, mandava la truppa a mirare come bersagli quella che ora chiamava "teppa" e che solo pochi mesi prima li aveva chiamati "Eroi di Vittorio Veneto", e li aveva additati come esempio, magnificati, encomiati, premiati, con le medaglie, i nastrini, e le patacche di ogni genere; ora invece gli proibiva di fare cortei a Milano, a Roma e in tante altre città, perché sollecitavano di spartire i bottini che altri si erano già spartiti.
Gli industriali intanto non demordono, fanno quadrato, prima fanno nascere la Confindustria (marzo 1920), poi iniziano a fare le serrate (fine agosto 1920). Così anche chi lavorava si ritrovò pure lui a spasso, a fare scioperi di "solidarietà"� per se stesso. Qui i sindacati socialisti iniziarono a perdere credibilità di azione.
Gli stessi socialisti se vogliamo leggere un giudizio di Nenni, a proposito di questi anni racconta "Ci fu una ortodossia puramente formale, un rivoluzionarismo puramente verbale, l'assenza di senso politico e cioè di piani concreti e precisi, il distacco fra partito e Paese, l'aver sacrificato il valore universalmente umano del socialismo facendone un affare interessante esclusivamnente talune categorie operaie, ecco ciò che a portato al disastro del 1922 il movimento socialista, proprio nell'ora in cui la via gli si presentava libera per definitive realizzazioni. Ma i progressi che si potevano compiere furono giudicati disprezzabili, quelli che si diceva di voler conseguire erano così sproporzionati al rapporto delle foprze che rimasero come una aspirazione del tutto utopistica".
Come in passato, il partito socialista dimostra di essere una forza che fa paura, ma che non è nemmeno in grado alla prova dei fatti, di scatenare quella rivoluzione che predica come necessaria e inevitabile. Nel momento in cui le masse occuperanno le strade e le fabbriche, vedremo i capi attardarsi in discussioni puramente teoriche, a ulteriore dimostrazione della loro incapacità ed irresolutezza.
La presunzione di rappresentare una forza, fa promuovere e scatenare scioperi selvaggi, sabotaggi, occupazioni delle fabbriche. Manifestazioni che dividono loro pi� che unire gli altri; infatti dopo i fallimenti di queste azioni -non coordinate- hanno lo strascico delle polemiche che danno origine a contrasti sempre pi� insanabili proprio all'interno della sinistra.
Di fronte ad una dimostrazione o patriottica o del caroviveri, si inscenava subito una contro-dimostrazione socialista; di modo che agli ex combattenti, come ai primi cristiani, non rimaneva altro che ritirarsi nelle loro nude case diventate catacombe, per commemorare le date del martirio, per esaltare i giorni delle vittorie o per piangere gli amici nei giorni delle sconfitte. Negli angoli più oscuri di queste catacombe, a piangere per la disperazione, vi erano pure mogli, figli, fratelli, madri, di 650.000 loro cari che non tornarono mai più a casa.
I neutralisti ed i socialisti, che si erano opposti alla guerra, gioivano con la vittoria "mutilata", e tentavano una rivincita, sfruttando le miserie del dopoguerra, il diffuso malcontento per la cattiva condotta morale e politica della guerra, di cui i combattenti non avevano nessuna colpa, o approfittando della stanchezza e della rabbia di chi l'aveva fatta quella guerra e che secondo loro non bisognava farla.
Il Governo non aveva preparato il dopoguerra e i reduci non ebbero nessun "arco di trionfo", anzi ben presto scarse furono le manifestazioni di simpatia; vinti parevano, non vincitori! L'Italia insomma doveva vergognarsi di aver potuto affermare il diritto alla vita e all'avvenire con il sangue di seicentocinquantamila morti. E i reduci, i decorati, i mutilati, o quelli tornati malati e sopratutto gli interventisti e i volontari erano additati al disprezzo di alcune masse che sembravano ubriache.
L'Italia era in condizioni veramente deplorevoli specialmente per gli scioperi ed il disastro economico che colpiva la Nazione. Gli scioperi nelle industrie furono numerosi e continui. Se ne contarono 1663 nel 1919, e l'anno dopo 1881.
Quanto agli scioperi agricoli, in seguito alla predicazione continua da parte dei bolscevichi che diffondevano il miraggio della "terra a tutti", se ne contarono 208 nel 1919, e 189 l'anno dopo.
COM'ERA INIZIATO L'ANNO 1919
L'anno 1919 era iniziato con un rimpasto governativo. Pochi giorni dopo (3 gennaio) era giunto in Italia il presidente americano Wilson, e in vista della conferenza di pace a Parigi (il 18 gennaio) fu acclamato, vezzeggiato, corteggiato, a Roma, Milano, Torino. Ma già in Italia Wilson era contrario alle rivendicazioni relative all'ampliamento dei confini; poi a Parigi non servì nemmeno un accurato memoriale per rivendicarne la legittimità. I rappresentanti italiani indignati lasciarono la conferenza, trovando come oppositori non solo Wilson, ma l'Inghilterra, e in particolare quella Francia che l'Italia all'inizio della guerra aveva reso possibile all'esercito francese di fermare alla Marna i tedeschi, già quasi alle porte di Parigi, e fino all'ultima vittoriosa battaglia, andarono ad immolarsi in Francia gli uomini del II Corpo d'Armata. Ciononostante le rivendicazioni italiane furono bollate come un "capriccio", di un Paese "ambizioso". Che l'Italia doveva accontentarsi di non avere più alle spalle l'odiato nemico austriaco. Una caramella insomma, per consolazione.
Come fu possibile che alcuni italiani, potessero appoggiare degli imbonitori, proprio mentre questi a Parigi, al "mercato dei popoli", si stavano spartendo la grande torta europea, comprese tutte le colonie? E com'era possibile che loro stessi bollassero i propri concittadini di essere "imperialisti"?
Cosa avrebbero dovuto fare al Piave i Fanti "imperialisti", lasciare che Boroevic entrasse a Venezia? E sul fronte montano lasciar passare Conrad per andare a prendersi il trionfo a Milano, novello Radetzky?
Ma ecco nel marzo 1919 sorgere un movimento che reagisce alle violenze sovversive, e insegna allo Stato, ai suoi inetti politici, e ai ciechi soggetti confusi da apologetiche notizie dall'Est, il proprio dovere.
All'Est Mussolini si convince ancora di più che la rivoluzione è la Vandea, quando inizia a vedere i pessimi risultati della Rivoluzione Russa: "Bello i soldati uniti al popolo! Bello il collettivismo! Bello la distribuzione delle terre! Male invece i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne". Non era questo il socialismo che Mussolini sognava da giovane. Né era quello sovietico, il Marxismo.
In Russia il "padrone" autoritario e il grasso borghese zarista -come già detto sopra- usciva dalla porta e rientrava dalla finestra con la nascente "borghesia" statale di partito, ancora più autoritaria e peggio di prima, perché non possedeva capacità tecniche e organizzative. Gli esaltati operai credevano di poter mettere in riga i cervelli del vecchio management o impunemente insultare i vecchi padroni. Lenin dimostrando subito i propri limiti e le incapacità di organizzare uno Stato così vasto e burocraticamente così complesso come nessun altro al mondo, ha dovuto richiamare in fretta e furia ai loro posti nei vari apparati gli stessi funzionari zaristi, e nelle grandi aziende i vecchi padroni, per riuscire a sopravvivere e per evitare il totale fallimento della rivoluzione che si stava avviando nell'anarchia. E quelli non si fecero pregare; soltanto che borghesi erano e borghesi rimasero. Non al soldo del padrone ma del Partito, che in quanto a zarismo poteva competere. Stalin poi fece il resto, anche se "mise in riga" i 5 milioni di piccoli proprietari terrieri (su 125 milioni di anime) che però possedevano il 90 per cento dell'intero territorio dell'ex impero zarista; che non solo non volevano mollare i loro appezzamenti di terra, ma ciò che producevano volevano venderlo agli affamati delle città a prezzi da rapina. Non c'è da meravigliarsi se poi le Guardie Rosse staliniane mandavano in Siberia qualche "agrario"; alcuni vendevano un uovo nelle città al mercato nero al costo di una paga giornaliera di un operaio.
IL POPOLO D'ITALIA, NUOVA BANDIERA DEI COMBATTENTI
Dunque, la bandiera della nuova battaglia in Italia, era "Il Popolo d'Italia", con a capo Benito Mussolini, il quale già a due giorni dalla vittoria, parafrasando il bollettino di Diaz, così scriveva: "Come all'inizio così all'epilogo della guerra, nelle giornate di maggio come in queste radiose di novembre, i nemici dell'Italia sono in piena rotta. I resti di quello che fu il socialismo ufficiale italiano risalgono senza speranze le valli dalle quali discesero con orgogliosa sicurezza, nell'illusione stolta e tedesca e criminale di Caporettare la magnifica gente dell'Italia nuova".
Il Popolo d'Italia diventa così la tribuna aperta a tutti i combattenti che non vogliono rinnegare il sacrificio compiuto. La parola d'ordine programmatica del piccolo nucleo fascista, fu semplice: "rivendicare l'intervento, esaltare la vittoria, lottare contro il bolscevismo". La situazione economica lasciata dalla guerra era grave; esisteva un debito pubblico di 85 miliardi circa. Lo Stato demo-liberale non aveva provveduto a nulla. Ai combattenti che avevano fatto tanti sacrifici e che avevano donato tanta giovinezza non era possibile chiedere nulla. Ed il Fascismo inizialmente come reazione parlò di espropriazione parziale, di espropriazione industriale, finanziaria e dei beni religiosi per venire incontro alle famiglie dei morti e dei mutilati e soprattutto dei vivi senza pane e lavoro.
Questo arrabbiato-realismo, Mussolini lo espresse in una frase poche settimane dopo: il cui contenuto è ancora di ideologia socialista, dando la speranza ai cinque milioni della classe media, di operai e contadini, tornati dal fronte e ora a spasso, delusi, affamati, infuriati.
"La nazione italiana è come una grande famiglia. Le casse sono vuote. Chi deve riempirle? Noi, forse? Noi che non possediamo case, automobili, banche, miniere, terre, fabbriche, banconote? Chi può, deve pagare. Chi può, deve sborsare...E' l'ora dei sacrifici per tutti. Chi non ha dato sangue, dia denaro".(Mussolini, Il Popolo d'Italia 10 giugno 1919).Già a gennaio era sorta l'Associazione fra gli "arditi d'Italia". Nel frattempo
cortei e dimostrazioni inneggianti alla Russia, circolavano per tutto le strade d'Italia, a Milano, a Torino, a Genova, a Firenze, a Napoli, a Trieste, bestemmiando contro la Patria al grido di libertà ai disertori. I rinunciatari ed i socialisti ufficiali inscenarono la lotta disfattista contro Fiume e contro la Dalmazia, lotta appoggiata dai giornali Corriere della Sera e da Il Secolo. Pochi sono intorno a -pure lui infuriato- Benito Mussolini in un'ora che era umiliante e triste per tutti.
Il giorno prima della fondazione dei fasci milanesi, a Dalmine, dopo uno sciopero i lavoratori di un'industria, seguendo le indicazioni del loro sindacato Uil, le maestranze avevano scioperato, occupando lo stabilimento, ma senza interrompere la produzione: Mussolini fece loro un discorso (pubblicato poi su "Il Popolo d'Italia" del 21 marzo) che era sì antisocialista ma ancora antiborghese:
Mussolini arringò così gli operai: "E' il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa. È il lavoro, che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande, entro e oltre i confini. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario, voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali... Voi giungerete, in un tempo che non so se è vicino o lontano, ad esercitare funzioni essenziali nella società moderna, ma i politicanti borghesi o semiborghesi non debbono farsi sgabello delle vostre aspirazioni per giocare la loro partita. Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto, della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo; ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione".
Non era un discorso che piaceva tanto agli industriali, ma nemmeno dispiaceva, visto che l'Associazione Industriale mise a disposizione di Mussolini un locale. Il giorno stesso che usciva sul giornale questo suo intervento, il 21 marzo, sorgeva il "Fascio milanese di combattimento", ed il 23 dello stesso mese si riunivano per la prima volta gli aderenti ai Fasci italiani di combattimento in Piazza S. Sepolcro sempre a Milano.
Così comincia una nuova storia d'Italia!PIAZZA SAN SEPOLCRO - INIZIA LA NUOVA STORIA
Era stato annunciata la riunione fin dal 2 marzo, invitando i lettori de Il Popolo d'Italia, i reduci, e tutti i cittadini. Il 9 marzo viene ripetuto comunicando che "l'adunata sarà importantissima", "Sarà creato l'antipartito, sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento che faranno fronte contro due pericoli: quello misoenista di destra e quello distruttivo di sinistra".
In quella sede, si danno convegno i fascisti della prima ora, un centinaio di "fedelissimi" tra cui Balbo, De Bono, Bianchi e De Vecchi, i futuri Quadrumviri della Marcia su Roma, e circa duecento aderenti che osservano e ascoltano. Mussolini interviene con un discorso, distinto in tre dichiarazioni, che poi il giorno dopo, il 24 marzo, il n.83 Il Popolo d'Italia, riportava integralmente, e che qui, pure noi riportiamo: (non aggiungiamo né togliamo nulla; diamo solo a lui la parola; che in crescendo gli italiani� leggevano e gli si� affiancavano; e se non fosse stato così, Mussolini non sarebbe andato molto lontano.
Non è storico dire poi, dopo ventidue anni, che nessuno era fascista, o che lo erano stati perché costretti. Era questo che leggevano, e i giornali nazionali, iniziarono a riportare e ad amplificare i suoi discorsi, i suoi scritti e le sue idee.
E quando ci fu poi la netta svolta a destra nel governo, così i grandi quotidiani la salutarono:
ALBERTINI direttore del Corriere della Sera "Il fascismo ora interpretato é l'aspirazione più intensa di tutti i veri italiani" - Gli fece eco La Stampa di Torino "Il governo Mussolini é l'unica strada da percorrere per ridare agli italiani quell'"ordine" che tutti ormai reclamano intensamente".Passiamo ora al preambolo e alle tre dichiarazioni di Mussolini:
"Senza troppe formalità o pedanterie vi leggerò tre dichiarazioni che mi sembrano degne di discussione e di voto. Poi, nel pomeriggio, riprenderemo la discussione sulla nostra dichiarazione programmatica. Vi dico subito che non possiamo scendere ai dettagli. Volendo agire prendiamo la realtà nelle sue grandi linee, senza seguirla minutamente nei suoi particolari.
Prima dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d'Italia che sono caduti per la grandezza della Patria e per la libertà del mondo, ai mutilati e invalidi, a tutti i combattenti, agli ex-prigionieri che compirono il loro dovere, e si dichiara pronta a sostenere energicamente le rivendicazioni d'ordine materiale e morale che saranno propugnate dalle associazioni dei combattenti.
Siccome noi non vogliamo fondare un partito dei combattenti, poiché un qualche cosa di simile si sta già formando in varie città d'Italia, non possiamo precisare il programma di queste rivendicazioni. Lo preciseranno gli interessati. Dichiariamo che lo appoggeremo. Noi non vogliamo separare i morti, né frugare loro nelle tasche per vedere quale tessera portassero: lasciamo questa immonda bisogna ai socialisti ufficiali.Noi comprenderemo in un unico pensiero di amore tutti i morti, dal generale all'ultimo fante, dall'intelligentissimo a coloro che erano incolti ed ignoranti. Ma voi mi permetterete di ricordare con predilezione, se non con privilegio, i nostri morti, coloro che sono stati con noi nel maggio glorioso: i Corridoni, i Reguzzoni; i Vidali, i Deffenu, il nostro Serrani, questa gioventú meravigliosa che è andata al fronte e che là è rimasta. Certo, quando oggi si parla di grandezza della patria e di libertà del mondo, ci può essere qualcuno che affacci il ghigno e il sorriso ironico, poiché ora è di moda fare il processo alla guerra: ebbene la guerra si accetta in blocco o si respinge in blocco. Se questo processo deve essere eseguito, saremo noi che lo faremo e non gli altri. E volendo del resto esaminare la situazione nei suoi elementi di fatto, noi diciamo subito che l'attivo e il passivo di un'impresa così grandiosa non può essere stabilito con le norme della regolarità contabile: non si può mettere da una parte il quantum di fatto e di non fatto: ma bisogna tener conto dell'elemento "qualitativo". Da questo punto di vista noi possiamo affermare con piena sicurezza che la Patria oggi è píú grande: non solo perché giunge al Brennero - dove giunge Ergisto Bezzi, cui rivolgo il saluto - non solo perché va alla Dalmazia. Ma è più grande l'Italia anche se le piccole anime tentano un loro piccolo giuoco; è più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non c'è stata imposta, e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue, degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo. La guerra ha dato ciò che noi chiedevamo: ha dato i suoi vantaggi negativi e positivi: negativi in quanto ha impedito alle case degli Hohenzollern, degli Absburgo e degli altri di dominare il mondo, e questo è un risultato che sta davanti agli occhi di tutti e basta a giustificare la guerra. Ha dato anche i suoi risultati positivi poiché in nessuna nazione vittoriosa si vede il trionfo della reazione. In tutte si marcia verso la più grande democrazia politica ed economica. La guerra ha dato, malgrado certi dettagli che possono urtare gli elementi più o meno intelligenti, tutto quello che chiedevamo.
E perché parliamo anche degli ex-prigionieri- È una questione scottante. Evidentemente ci sono stati di quelli che si sono arresi, ma quelli si chiamano disertori: d'altra parte in quella massa c'è la grande maggioranza che è caduta prigioniera dopo aver fatto il suo dovere, dopo aver, combattuto: se così non fosse potremmo cominciare a bollare Cesare Battisti e molti valorosi e brillanti ufficiali e soldati che hanno avuto la disgrazia di cadere nelle mani del nemico.
Seconda dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l'integrazione di ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l'Italia deve realizzarsi sulle Alpi e sull'Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della Dalmazia.
Abbiamo quaranta milioni di abitanti su una superficie di 287 mila chilometri quadrati separati dagli Appennini che riducono ancora di più la disponibilità del nostro territorio lavorativo: saremo fra dieci o venti anni sessanta milioni ed abbiamo appena un milione e mezzo di chilometri quadrati di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali certamente non potremo mai dirigere il più della nostra popolazione. Me se ci guardiamo attorno vediamo l'Inghilterra che con quarantasette milioni di abitanti ha un impero coloniale di 55 milioni di chilometri quadrati e la Francia che con una popolazione di trentotto milioni di abitanti ha un impero coloniale di 15 milioni di chilometri quadrati. E vi potrei dimostrare con le cifre alla mano che tutte le nazioni del mondo, non esclusi il Portogallo, l'Olanda e il Belgio, hanno tutte quante un impero coloniale al quale tengono e che non sono affatto disposte a mollare in base a tutte le ideologie che possono venire da oltre oceano.Lloyd George parla apertamente di impero inglese. L'imperialismo è il fondamento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicamente e spiritualmente. Quello che distingue gli imperialismi sono i mezzi. Ora i mezzi che potremo scegliere e sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi. E diciamo: o tutti idealisti o nessuno. Si faccia il proprio interesse. Non si comprende che si predichi l'idealismo da parte di coloro che stanno bene a coloro che soffrono, poiché ciò sarebbe molto facile. Noi vogliamo il nostro posto nel mondo poiché ne abbiamo il diritto.
Riaffermo qui in questo ordine del giorno, il "postulato societario della Società delle Nazioni". È nostro in fin dei conti, ma intendiamoci: se la Società delle Nazioni deve essere una solenne "fregata" da parte delle nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell'equilibrio mondiale, guardiamoci bene negli occhi. Io comprendo perfettamente che le nazioni arrivate possano stabilire questi premi d'assicurazione della loro opulenza e posizione attuale di dominio. Ma questo non è idealismo; è tornaconto e interesse.Terza dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo impegna i fascisti a sabotare con tutti i mezzi le candidature dei neutralisti di tutti i Partiti.
Voi vedete che io passo da un punto ad un altro, ma in tutto ciò c'è logica, c'è un filo. Io non sono un entusiasta delle battaglie schedaiole, tanto è vero che da tempo ho abolito le cronache del "Camerone" e nessuno se ne è doluto: anzi il mio esempio aveva consigliato altri giornali a ridurre questa cronaca scandalosa fino ai limiti dello strettamente necessario. In ogni modo è evidente che entro quest'anno ci saranno le elezioni. Non si conosce ancora la data né il sistema che sarà seguito, ma dentro l'anno ci saranno queste battaglie
elettorali e cartacee. Ora, si voglia o non si voglia, in queste elezioni si farà il processo alla guerra, cioè il "fatto guerra" essendo stato il fatto dominante della nostra vita nazionale, è chiaro che non si potrà evitare di parlare di guerra.
Ora noi accetteremo la battaglia precisamente sul fatto guerra, poiché non solo non siamo pentiti di quello che abbiamo fatto, ma andiamo più in là: e con quel coraggio che è frutto del nostro individualismo, diciamo che se in Italia si ripetesse una condizione di cose simile a quella del 1915, noi ritorneremmo a invocare la guerra come nel 1915.
Ora è molto triste il pensare che ci siano stati degli interventisti che hanno defezionato in questi ultimi tempi. Sono stati pochi e per motivi non sempre politici. C'è stato il trapasso originato da ragioni di indole politica che non voglio discutere, ma c'è stata la defezione originata dalla paura fisica. Per quietare la belva molliamo la Dalmazia, rinunciamo a qualche cosa. Ma il calcolo è pietosamente fallito. Noi, non solo non ci metteremo su quel terreno politico, ma non avremo nemmeno quella paura fisica che è semplicemente grottesca. Ogni vita vale un'altra vita, ogni sangue vale un altro sangue, ogni barricata un'altra barricata. Se ci sarà da lottare impegneremo anche la lotta delle elezioni. Ci sono stati neutralisti fra i socialisti ufficiali e fra i repubblicani. Anche i cosiddetti cattolici del Partito italiano cercano di rimettersi in carreggiata per far dimenticare la loro opera mostruosa che va dal convegno di Udine al grido nefando uscito dal Vaticano. Tutto ciò non è stato soltanto un delitto contro la Patria ma si è tradotto in un di piú di sangue versato, di mutilati e di feriti. Noi andremo a vedere i passaporti di tutta questa gente: tanto dei neutralisti arrabbiati come di coloro che hanno accettato la guerra come una corvée penosa; andremo nei loro comizi, porteremo dei candidati e troveremo tutti i mezzi per sabotarli.
Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché, in senso storico, ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri.
È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia. Laggiù, l'attività economica, dall'agricoltura all'industria, è totalmente paralizzata. Regna la carestia e la fame. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie.
Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione. Su quello che è il socialismo, il suo programma e la sua tattica, ciascuno può discutere, ma il Partito Socialista Ufficiale Italiano è stato nettamente reazionario, assolutamente conservatore, e se fosse trionfata la sua tesi non vi sarebbe oggi per noi possibilità di vita nel mondo. Non è il Partito Socialista quello che può mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione. Siamo noi, che facendo il processo alla vita politica di questi ultimi anni, dobbiamo inchiodare alla sua responsabilità il Partito Socialista Ufficiale.
E' fatale che le maggioranze siano statiche, mentre le minoranze sono dinamiche. Noi vogliamo essere una minoranza attiva, vogliamo scindere il Partito Socialista Ufficiale dal proletariato, ma se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, s'inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro. Già al tempo dell'armistizio io scrissi che bisognava andare incontro al lavoro per chi ritornava dalle trincee, perché sarebbe odioso e bolscevico negare il riconoscimento dei diritti di chi ha fatto la guerra. Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici: vogliono le otto ore? Domani i minatori e gli operai che lavorano di notte imporranno le sei ore? Le pensioni per l'invalidità e la vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un'industria e un commercio.
Questi sono i nostri postulati, nostri per le ragioni che ho detto innanzi e perché nella storia ci sono cicli fatali per cui tutto si rinnova, tutto si trasforma. Se la dottrina sindacalista ritiene che dalle masse si possano trarre gli uomini direttivi necessari e capaci di assumere la direzione del lavoro, noi non potremo metterci di traverso, specie se questo movimento tenga conto di due realtà: la realtà della produzione e quella della nazione.
Per quello che riguarda la democrazia economica, noi ci mettiamo sul terreno del sindacalismo nazionale e contro l'ingerenza dello Stato, quando questo vorrebbe assassinare il processo di creazione della ricchezza.
Combatteremo il retrogradismo tecnico e spirituale. Ci sono industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico e dal punto di vista morale. Se essi non troveranno la virtù di trasformarsi, saranno travolti, ma noi dobbiamo dire alla classe operaia che altro è demolire, altro è costruire, che la distruzione può essere opera di un'ora, mentre la creazione è opera di anni o di secoli.
Democrazia economica, questa è la nostra divisa. E veniamo alla democrazia politica.Io ho l'impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. C'è una crisi che balza agli occhi di tutti. Abbiamo sentito tutti durante la guerra l'insufficienza della gente che ci governa e sappiamo che si è vinto per le sole virtù del popolo italiano, non già per l'intelligenza e la capacità dei dirigenti.
Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci: questi organi di creazione e agitazione capaci di scendere in piazza a gridare: "Siamo noi che abbiamo diritto alla successione perché fummo noi che spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria!".Dal punto di vista politico abbiamo nel nostro programma delle riforme: il Senato deve essere abolito. Mentre traccio questo atto di decesso devo però aggiungere che il Senato in questi ultimi tempi si è dimostrato di molto superiore alla Camera.
Ci voleva poco? È vero, ma quel poco è stato fatto. Noi vogliamo dunque che quell'organismo feudale sia abolito; chiediamo il suffragio universale, per uomini e donne; lo scrutinio di lista a base regionale; la rappresentanza proporzionale. Dalle nuove elezioni uscirà un'assemblea nazionale alla quale noi chiediamo, che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica! Noi non andremo a rimuovere i protocolli e a frugare negli archivi, non faremo il processo retrospettivo e storico alla monarchia. L'attuale rappresentanza politica non ci può bastare; vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi, poiché io, come cittadino, posso votare secondo le mie idee, come professionista devo poter votare secondo le mie qualità professionali.
Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna verso le corporazioni. Non importa. Si tratta di costituire dei Consigli di categorie che integrino la rappresentanza sinceramente politica.
Ma non possiamo fermarci su dettagli. Fra tutti i problemi, quello che oggi interessa di piú è di creare la classe dirigente e di munirla dei poteri necessari.
E inutile porre delle questioni più o meno urgenti se non si creano i dirigenti capaci di risolverle.
Esaminando il nostro programma vi si potranno trovare delle analogie con altri programmi; vi si troveranno postulati comuni ai socialisti ufficiali, ma non per questo essi saranno identici nello spirito perché noi ci mettiamo sul terreno della guerra e della vittoria ed è mettendoci su questo terreno che noi possiamo avere tutte le audacie. Io vorrei che oggi i socialisti facessero l'esperimento del potere, perché è facile promettere il paradiso, difficile realizzarlo. Nessun Governo domani potrebbe smobilitare tutti i soldati in pochi giorni o aumentare la quantità dei viveri, perché non ce ne sono. Ma noi non possiamo permettere questo esperimento perché i socialisti vorrebbero portare in Italia una contraffazione del fenomeno russo al quale tutte le menti pensanti del socialismo sono contrarie, da Branting e Thomas a Bernstein, perché il fenomeno bolscevico non abolisce le classi, ma è una dittatura esercitata ferocemente.
Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza.
Vorrei perciò che l'assemblea approvasse un ordine del giorno nel quale accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico.
Posta questa bussola al nostro viaggio, la nostra attività dovrà darci subito la creazione dei Fasci di combattimento. Domani indirizzeremo la loro azione simultaneamente in tutti i centri d'Italia. Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all'avanguardia".
-----------------------------Come programmma non era molto singolare, non solo era un po' confuso, ma era improntato ancora a sinistra. Come aderenti poi c'era dentro di tutto: arditi, sindacalisti, futuristi, nazionalisti, anarchici e visto il locale che l'aveva ospitato indubbiamente c'era anche qualcuno alle sue spalle.
Dopo l'insuccesso alle elezioni, e i pochi aderenti, Mussolini rivede profondamente le sue posizioni.
L'anno dopo (1920) smentisce alcuni punti sansepolcrini, e inizia a mettere le nuovi basi che poi sono quelle che lo porteranno al potere nel '22. I seguaci diventeranno circa 20.000, e nel 1921 sono già 250.000.
I giorni che seguirono il discorso di questa riunione, furono ancora disseminati di violenze. All'ennesimo sciopero a Milano il 15 aprile, ci sono scontri fra fascisti e socialisti. La lotta s'inasprisce, e un gruppo di fascisti marcia verso la sede dell'"Avanti", che viene distrutta e incendiata. La giornata si chiuderà con quattro morti e una quarantini di feriti. E se prima c'era fra socialisti e mussoliniani una guerra di nervi a colpi di articoli, ora scorre del sangue che inizia a bagnare strade e piazze.
Quattro giorni dopo, il 19, la delegazione italiana alla Conferenza della Pace deve ascoltare le ingiuste obiezioni per la questione Fiume. Il giorno 24, in segno di protesta nei confronti di Wilson, Orlando abbandona la Conferenza, lascia Parigi, fa ritorno in Italia, e pur accolto con manifestazioni di consenso e quindi di solidarietà, inizia a diffondersi l'idea che nella guerra l'Italia ha fatto la parte della cenerentola, e ha ottenuto una "vittoria mutilata".
Per nulla infastidito dall'assenza degli Italiani, Wilson fece pubblicare da diversi giornali un messaggio rivolgendosi direttamente al popolo italiano per ottenere l'assenso alla sua proposta. E' uno scavalcamento più che irriguardoso nei confronti del capo del governo italiano. Salvemini accuserà Wilson di applicare i principi della pace democratica solo in funzione anti-italiana.
Il 7 maggio la delegazione rientra a Parigi; ed assiste sconcertata -dopo la firma della pace degli Alleati con la Germania - alla spartizione delle colonie tedesche; e, stabilita la frontiera con l'Austria e l'Ungheria, la questione Fiume non fu risolta. Rientrato in Italia, con il fallimento della missione, il 19 giugno Orlando si dimette, dopo aver ricevuto alla fiducia, solo 78 voti a favore e 262 contro. Forma il nuovo governo, Nitti, che dovrebbe essere quello della pace dopo la guerra, mentre invece è quello della guerra sociale in tempo di pace.
Nel Paese in luglio, riprendono le ondate di scioperi, i tumulti di piazza, il saccheggio dei negozi, gli scontri; le giornate rivoluzionarie scoppiano e si susseguono a Milano, a Napoli ed in altre città d'Italia. Le manifestazioni sono spontanee e i bolscevichi italiani sfruttano le condizione di disagio e fanno del caro viveri, il perno delle loro dimostrazioni, provocando disordini aggressioni contro i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza a Bologna, a Torino, a Genova, a Firenze, a Napoli e nel Biellese.
Ma le manifestazioni sono nate spontanee, sono cioè prive di una vera direzione politica, e coglie di sorpresa i socialisti cui inizia a sfuggire di mano la piazza.
A Fiume il 6 luglio, va ancora peggio, lo scontro (nella tensione che esiste, e il pretesto è una banale lite per lo sgarbo a una donna) avviene fra i militari italiani e gli "amici" francesi. Nove francesi morti e 11 feriti è il bilancio degli scontri; ieri ex Alleati sulla Marna, ora nemici a Versailles e a Fiume.
Ma come non bastassero i problemi italiani interni, i socialisti nostrani, indicono uno sciopero di protesta a favore dei Russi accerchiati dai Romeni in Ungheria, dov'era nata una repubblica socialista e si erano formati dei "Consigli" (Soviet). I Romeni, appoggiati dalle grandi potenze Alleate fra cui l'Italia, mettono fine all'avventura magiara, che paga con un altissimo tributo di sangue l'"avventura" bolscevica.
Si sta intanto organizzando una cospirazione per l'annessione di Fiume non ceduta all'Italia alla Conferenza di Parigi.
Il 12 settembre il poeta soldato Gabriele d'Annunzio organizza la marcia rivoluzionaria da Ronchi (che abbiamo già narrato in altre pagine precedenti) per salvare Fiume ed il Nevoso. Anche Benito Mussolini -in uno slancio nazionalistico che al momento gli è utile - offre appoggio alla causa fiumana, mentre il Governo Nitti dichiara disertori o ammutinati del regolare esercito i legionari fiumani e proibisce nel Paese manifestazioni patriottiche a favore di Fiume e della Dalmazia.
Nitti ha appena costituito la Guardia Regia, polizia destinata a fronteggiare e a reprimere le agitazioni patriottiche e gli scioperi. Proprio mentre a Torino alla Fiat, nascono i primi consigli di fabbrica.
In contrapposizione sorgono nuovi nuclei di combattimento fascisti in ogni grosso centro d'Italia.
Lo slogan che corre (e che entra nei salotti buoni, rassicurandoli) è: "La sinistra terrorizza la borghesia e il governo non la difende. Ci penseranno i fascisti".
Poi il 9 ottobre a Firenze si convoca il primo Congresso nazionale fascista al quale partecipano Mussolini e Delcroix, (di questo congresso ne abbiamo parlato, nelle pagine della Marcia di Ronchi)
Mentre i disfattisti sferrano la battaglia antinazionale a settembre, approfittando dell'artificiosa diffusione dell'Avanti ! durante le giornate di sciopero, e anche l'inchiesta sulla rotta di Caporetto non è che il pretesto della manovra socialista-giolittiana, tendente a creare nelle popolazioni uno stato d'animo di sconfitta, e a favorire così l'assalto alle urne elettorali da parte dei disfattisti e dei rinunciatari.
L'"Avanti!" insorge contro l'atto di indisciplina commesso dai Legionari fiumani e da Gabriele d'Annunzio e De Ambris.
Ma chi ci capisce è bravo; perché proprio De Ambris con la sua Carta del Quarnaro, ha ricevuto i complimenti da Lenin.
Anche Mussolini non è convinto di un successo di D'Annunzio. E obietta che l'Italia non poteva certo nelle condizioni in cui era,� sostenere - moralmente, materialmente e finanziariamente (politicamente meno che mai dopo Versailles) - un'altra guerra; nemmeno una dentro un "cortile", figuriamoci fuori dai confini. Gli italiani si sarebbero ribellati. Se dovevano fare una guerra come quella precedente senza ottenere nulla, tanto valeva farne una interna "civile";� una "rivoluzione" vera e propria. Non guidata dai bolscevichi o dai sindacalisti, ma forse questa volta dagli stessi quadri militari, che al congedo, anche loro non avevano ricevuto� nulla, erano tutti frustrati� (e vedremo pi� avanti come Mussolini aveva visto giusto e tastato bene il polso del Paese).
Dunque per Mussolini, le due "questioni", Fiume e Albania, avevano lasciato delusi sia i politici (che� non avevano per� fatto nulla)� sia i combattenti (che invece avevano fatto molto),�ma rischiavano di trasformarsi dopo alcuni provvedimenti politici - uno per l'Albania e l'altro per la ribellione irredentista fiumana di D'Annunzio, in due tragedie. C'erano altre soluzioni; e sperando in qualche mutamento alle prossime elezioni, per il momento appoggia D'Annunzio, che senza andare per il sottile, vedendo le sue incertezze ("voi trenate di paura"), gli consiglia di "bucarsi la pancia e sgonfiarsela; altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò più in faccia".
Il periodo elettorale del successivo ottobre e novembre sempre dell'anno 1919 dà occasione ad altri disordini e a violenze a Mantova, a Torino, a Milano, a Bologna e ad Arezzo.
Il Popolo d' Italia, i Fasci di combattimento e Mussolini sostengono strenuamente le posizioni di battaglia, pronti contro tutto e contro tutti per l'appuntamento con le elezioni del 16 novembre. Ma la propaganda disfattista, dopo la chiusura delle urne, porta all'arresto di Mussolini che viene condotto in questura e processato (per aver creato un "covo" di ribelli) poi rimesso il libertà per l'intervento del direttore del Corriere d.S. Albertini, che ritiene che i miseri 4657 voti presi dal suo collega -nonché capo dei tanto celebrati Fasci di combattimento- "politicamente è finito". A Nitti che vorrebbe lasciarlo in galera, Albertini gli consiglia di non farlo, "Mussolini è un rudere. E' uno sconfitto, non occorre farne un martire".
Più che per l'arresto, Mussolini era ovviamente avvilito per il clamoroso insuccesso e la figuraccia che aveva fatto dopo tanto agitarsi, dopo tanti articoli, riunioni, discorsi. L'Avanti ! impietoso, mette in sul giornale due righe nella cronaca nera: "Ripescato dentro il naviglio un corpo; sembra che si tratta di Benito Mussolini". E altri suoi nemici bontemponi improvvisano un funerale con la sua effige.
Se vogliamo credere alla Sarfatti, Mussolini preso da un momento di sconforto, voleva mollare tutto, il giornale, la politica, le lotte: "so fare altri mestieri, il muratore, il pilota, e so suonare anche il violino, farò il magnifico mestiere del rapsodo errante". Chi mai direbbe che quest'uomo su tutta la linea perdente, in soli due anni riuscirà a prendere il potere?
Il 1° dicembre, all'inaugurazione della nuova legislatura con il consueto discorso del Re, i parlamentari socialisti, inneggiando alla "Repubblica Socialista" abbandonano la Camera. Incidenti avvenuti più tardi, fecero proclamare lo sciopero generale a Roma, donde si estese a quasi tutte le altre città d'Italia. Dimostrazioni e conflitti con morti e feriti ci furono a Roma, a Milano, a Torino, a Bologna, ad Alessandria e a Mantova dove i sovversivi furono padroni per due giorni, e si contarono alla fine 20 morti e una cinquantina di feriti.
Ci fu una pausa nelle feste di Natale e di Capodanno, ma all'inizio dell'anno 1920, le dimostrazioni riprendono ancora più cruenti, e si costituiscono con una proclamazione in forma ufficiale delle "Repubbliche Comuniste", in gennaio a Firenze, in aprile a Bologna. Furono perfino emessi dei francobolli celebrativi e coniata una moneta.Il 21 dicembre Nitti dopo aver formato il Governo, per reggersi non avendo la maggioranza parlamentare è costretto ad accettare l'appoggio dei Popolari (che hanno guadagnato alle elezioni 100 seggi). Messa ai voti la fiducia, la Camera diede a Nitti 242 voti a favore contro 216 contrari. Ma per le pretese dei Popolari i rapporti diventarono subito difficili. Il "matrimonio" durò pochissimo.
Si chiudeva così l'anno 1919; piuttosto torbido. Nulla in confronto all'anno che iniziava; il 1920 fu, infatti, uno degli anni più duri del dopoguerra italiano, con situazioni di gravi tensioni sociali (scioperi, serrate, ammutinamenti militari, abbandono di Fiume, lacerazioni sindacali). Situazioni gravi sul terreno politico (con un Nitti alle corde), come in quello sindacale, dove dentro il PSI una parte della direzione del partito - l'ala moderata - appare incerta con l'ala degli intransigenti; sorge presto una crisi interna che porterà nel corso dell'anno alla nascita della corrente comunista, e che nel successivo gennaio 1921, a Livorno, andrà a costituire il PCI.
Ma prima del 1921, dobbiamo narrare il prossimo 1920,
il secondo anno del cosiddetto "biennio rosso".
Lo inizieremo facendo innanzitutto una sintesi dell'intero anno,
con le date e i fatti più significativi; poi li approfondiremo meglio.
�il 1920, l'anno più duro del dopoguerra > > >
ma prima, se il lettore lo troverà
interessante - noi lo riteniamo utile e necessario - riporteremo alcuni scritti
di Mussolini nel corso dell'anno 1919.
Utili perchè ci danno un'idea di come nacque il Fascismo,
(non interpretiamo nulla, lasciamo la parola solo al suo
fondatore)
Fonti,
citazioni, testi, bibliografia
PAOLO
GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
CONTEMPORANEA - Cento anni di
giornali italiani
STORIA D'ITALIA
Cronologica 1815-1990 -De Agostini
PUBBLICAZIONE NAZIONALE UFFICIALE, Il Decennale d. Vittoria, Vallecchi, 1928
MUSSOLINI, Scritti Politici.
Feltrinelli
RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, Einaudi, 1996
ERIC HOBSBAWM, Il secolo breve, RCS, 1995
ZEEV STERNHELL, Nascita dell'ideologia fascista, Baldini & Castoldi, 1989
LELIO BASSO, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, 1980
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ AUTORI VARI DALLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE